A cosa serve la scuola (e a cosa servono la storia e la filosofia), parlando comunque anche de L'attacco dei giganti, Italo Calvino, Platone, le elezioni, Hammurabi, Lussu, Ferris Bueller e i Mitchell
“A cosa serve la filosofia?” Vi siete mai fatti questa domanda? Forse sì, e non vi stupirà sapere che se la sono posta anche decine e decine di filosofi, che, d’altra parte, se sono soliti spaccare il capello in quattro sugli argomenti che non sono direttamente di loro competenza, ovviamente fanno lo stesso anche sulla loro disciplina. Si potrebbe dire, anzi, che questa domanda sulla filosofia sia la più filosofica di tutte.
Ebbene, negli ultimi giorni questo quesito continua a rimbalzarmi in un certo senso addosso. Prima è stato al centro del Simposio filosofico che abbiamo tenuto, ormai una quindicina di giorni fa, con gli abbonati del canale; poi, proprio oggi, è stata la domanda cardine di un’intervista che ho rilasciato ad una radio locale (che andrà in onda, però, tra qualche mese, e di cui vi diramerò a tempo debito il link).
Insomma, tutti vogliono sapere a cosa serva la filosofia, e però io per la verità sull’argomento riesco a dare risposte solo parziali. Perché non credo – come ho spiegato anche oggi davanti a un microfono – che la filosofia serva a vivere meglio; anzi, forse il più delle volte ci complica la vita. Eppure serve lo stesso: a capire chi siamo, qual è il nostro posto nel mondo e, soprattutto, che mondo vogliamo (sia nel piccolo che nel grande). Serve, cioè, a capire qualcosa in più: qualcosa che magari non è sempre piacevole o che non sempre ci rende più facile la vita, ma di cui non possiamo in realtà fare a meno.
Spero che anche questa newsletter, nel suo piccolo, assolva a questo compito: farvi capire qualcosa, o quantomeno stimolarvi a riflettere su qualcosa. I temi – tra cui la stessa utilità della scuola, di cui torneremo a parlare più avanti – sono come al solito molti, forse troppi: cominciamo.
Quello che ho letto
Partiamo come sempre dai libri. Questa settimana ne ho finiti ben due, anche se per la verità piuttosto brevi; tra sette giorni in lista ci saranno quindi inevitabilmente delle novità. Ma prima concentriamoci su quanto già fatto:
Simposio di Platone: tra pochissimi giorni si terrà il nuovo incontro del Club de Libro, la particolare riunione riservata agli abbonati al canale YouTube (dal pacchetto Roosevelt in su) in cui, una volta al mese, discutiamo assieme di un libro che ci siamo impegnati a leggere. Il mese scorso abbiamo discusso di 1984 di George Orwell, con un dibattito che a me è sembrato molto proficuo; questa volta toccherà invece al Simposio di Platone, che ho riletto – e terminato – proprio da poco, per l’occasione. Non si trattava della mia prima lettura dell’opera del filosofo ateniese, che d’altra parte si legge piuttosto in fretta e non è particolarmente difficile; ma, come anticipavo già nelle settimane scorse, i testi di Platone hanno sicuramente il pregio di saperti dire qualcosa di nuovo ogni volta che li affronti. In quest’occasione a rimanermi in testa è stato in particolare il ruolo di Diotima, che è, indirettamente, uno dei protagonisti del racconto, ma a cui in passato non avevo dato troppo peso; complici invece alcune ricerche fatte nei mesi scorsi (per qualche lezione sul ruolo delle donne), mi sono reso conto che in effetti quella di Diotima è una presenza importante, perché si tratta di una delle poche donne ad avere un ruolo di rilievo nella storia della filosofia. Anzi, qui risulta davvero al centro della scena (pur non essendo presente al banchetto) perché di fatto Socrate ammette di essersi ispirato a lei per l’elaborazione della sua dottrina. Detta in altri termini, Socrate si dichiara in debito (filosofico) con una donna, cosa che all’epoca non era così comune; e questo fa il paio con altri passi di Platone in cui le donne vengono sempre guardate con un certo rispetto (basti ricordare che esse potevano, per l’ateniese, essere anche filosofe e governanti). Insomma, a Platone si possono rimproverare forse varie cose, ma non certo di non aver avuto una buona considerazione del genere femminile. Il libro, comunque, è interessante anche per una miriade di altri motivi e, se non l’avete mai letto, dovreste sicuramente provarlo: potete comprarlo qui.
Svolta a destra? di ITANES: a tempo perso, sto continuando la lettura anche di questo libro di cui vi ho parlato più volte nelle settimane scorse; un libro che è in realtà una raccolta di saggi in cui diversi studiosi cercano di analizzare e interpretare i dati che abbiamo a disposizione riguardo alle elezioni politiche dell’anno scorso. Come ho già anticipato, il risultato è quello sostanzialmente di stemperare la prima impressione che quelle elezioni ci avevano dato: è vero che dalle urne è uscita una vittoria netta della destra (anche radicale, visto che Fratelli d’Italia è il partito più a destra, tra i maggiori), ma questa vittoria va ridimensionata, visto che è in buona misura figlia soprattutto dello scoramento e dello sfaldamento del fronte avverso. Uno sfaldamento che pare impossibile da ricomporre, visto che a sinistra e al centro i vari partiti sono in perenne lotta tra loro e incapaci di trovare una piattaforma comune tramite cui governare. Certo, Meloni poi è stata brava a sfruttare le manchevolezze altrui e a capitalizzare il consenso (danneggiando anche, però, soprattutto i suoi alleati, Lega e Forza Italia), ma una mano gliel’hanno insomma data anche dall’altra parte. Tutti gli indicatori – flussi di voto, astensionismo, sondaggi, intenzioni eccetera – sembrano avvalorare questa lettura, che lascia molto fluida la situazione. Una fluidità che, mi pare, rimbalza anche sulle scelte degli attuali leader politici: se Meloni, Salvini, Schlein, Calenda, Renzi e compagnia bella vi sembrano spesso ondivaghi, è perché almeno in parte anche loro non sanno bene come intercettare il consenso di questo elettorato, convintissimo di certe cose e però anche estremamente dubbioso su altre questioni. Tutto cambia in fretta: basti pensare – per citare solo le ultime pagine che ho letto, proprio ieri – che anche i temi che danno il tono delle varie campagne elettorali mutano rapidamente, così che magari in una campagna elettorale tutto è focalizzato solo sul tema dell’immigrazione, mentre in quella immediatamente successiva – nonostante non sia cambiato poi molto, su quel versante – quel tema viene quasi completamente dimenticato. Diamo sempre la colpa ai politici per questa incoerenza, e in parte abbiamo anche ragione, ma devo dire che pure noi elettori non è che siamo molto meglio. Il libro, se vi interessa, potete acquistarlo qui.
Marcia su Roma e dintorni di Emilio Lussu: come vi dicevo qualche settimana fa, Marcia su Roma e dintorni è un libro molto breve, agile, che si legge d’un fiato. Ma non per questo meno interessante di altri: racconta infatti la presa del potere in Italia da parte del fascismo tramite la testimonianza di uno dei più importanti antifascisti, Emilio Lussu, ex combattente e fondatore del Partito Sardo d’Azione. Il focus è incentrato sugli anni dello squadrismo, quelli che vanno dal 1920 al 1925, culminando nell’omicidio di Giacomo Matteotti e nelle violenze che lo stesso Lussu subì in quel periodo; a questo segue una veloce panoramica sugli anni successivi, con l’autore prima incarcerato e poi messo al confino, fino alla sua rocambolesca fuga in Francia. Nonostante i fatti raccontati siano già arcinoti (almeno a me, che queste cose le insegno e studio da anni), ci sono alcuni elementi che rendono il libro degno di nota: primo, Lussu sa scrivere e riesce ad essere incisivo anche con poche parole (e questo lo si era già capito con Un anno sull’Altipiano); secondo, la sua è una testimonianza diretta, e quindi certo parziale ma anche di prima mano, capace di fissare in maniera vivida quello che stava accadendo in Italia in quegli anni; terzo, oltre alla solita fenomenologia dello squadrismo, Lussu ci dà un incisivo sguardo su come non solo lo stato liberale cedette anima e corpo al fascismo, ma anche buona parte della classe politica (perfino di quella che all’inizio si professava antifascista) per opportunismo si convertì rapidamente al nuovo padrone, indossando la camicia nera ed entrando nelle fila del partito di Mussolini. Insomma, un bel documento per capire un po’ più in profondità cosa accadde in Italia allora. Se vi interessa, lo potete acquistare qui.
Quello che ho visto
Passiamo ora ai film e alle serie TV. Ancora una volta non sono riuscito neppure questa settimana ad andare al cinema per vedere i film del momento (Cortellesi e Napoleone), e me ne dispiaccio, ma davvero sono giorni complicati in cui si fa fatica a trovare anche solo mezz’ora libera, figuratevi le tre ore di Napoleon. Quindi vi costringo ad accontentarvi di cose un po’ più vecchie, ma spero comunque interessanti.
Una pazza giornata di vacanza (1986), di John Hughes, con Matthew Broderick, Alan Ruck, Mia Sara: ci sono dei film che, periodicamente, io ho bisogno di rivedere. Non si tratta per forza di grandi film, di capolavori della storia del cinema; ma sono titoli che, probabilmente, mi ricordano la mia infanzia o la mia adolescenza, o mi tirano su il morale, perché rappresentano dei veri e propri divertissement, degli svaghi per la mente e per lo spirito. Il fatto di avere dei figli, poi, aiuta, perché così ho anche la scusa di doverli fare vedere a loro per poterli in realtà guardare io. Sono pellicole come I Goonies, Ritorno al futuro e altri classici degli anni '80; e tra questi un posto di tutto rilievo lo merita Una pazza giornata di vacanza, simpatico film scritto e diretto da John Hughes (quello di Breakfast Club e della sceneggiatura di Mamma, ho perso l’aereo), con uno straordinario Matthew Broderick nel ruolo del protagonista. La storia è semplice: Ferris Bueller, tipico adolescente americano, finge di essere malato per saltare la scuola, ma in realtà passa una giornata a Chicago con la fidanzata e un amico, imbrogliando un po’ tutti e soprattutto l’antipatico preside. Elogio dello sberleffo e della ribellione giovanile, il film ti fa sguaiatamente innamorare di quel simpatico sbruffone che è Ferris, ancora abbastanza anarchico e candido da godersi la vita al di là dei riti della borghesia consumistica (ben rappresentata sia dai genitori di Ferris che dal suo rigido preside). Un film meno leggero di quel che sembri, e in certi momenti decisamente memorabile. Sulle piattaforme di streaming compare raramente, ma vale la pena credo di comprarlo (ad esempio qui).
L’attacco dei giganti episodi 1.01-1.02 (2013), di Tetsurō Araki: metto le mani avanti: perdonatemi, ma fino ad ora non avevo ancora mai visto L’attacco dei giganti. Certo, ne ho sentito parlare in lungo e in largo; sì, avevo anche provato a leggiucchiare qualche capitolo del manga da cui la serie anime è stata tratta; ma alla fine lo show televisivo non l’avevo mai provato. Visto però che in questi giorni – credo per l’uscita di alcuni nuovi episodi, se non ho capito male – si è generata una certa attenzione mediatica rispetto alla serie, mi sono convinto a vedere almeno i primi episodi dell’anime, tra l’altro facilmente reperibili su Prime Video. Credo che i più giovani conoscano già piuttosto bene la trama di questa serie, ma conviene, per quelli della mia generazione, che fornisca un veloce riassunto: in un mondo alternativo, la razza umana è formata da pochi superstiti, decimati dall’arrivo sulla Terra di uno strano gruppo di giganti, che perennemente li minacciano. Per questo gli uomini si sono ritirati all’interno di altissime mura, che da anni consentono loro di vivere relativamente tranquilli. Un certo giorno, però, la situazione muta: sulla scena arriva un nuovo, inarrestabile gigante, incredibilmente più forte e incredibilmente più grande di quelli a cui l’umanità era fino ad allora abituata. Questo nuovo gigante sfonda abbastanza facilmente le mura e inizia a portare morte e distruzione nella prima città di confine. Eren e Mikasa, due ragazzini, riescono a salvarsi dal primo attacco, anche se vedono perire subito una persona cara; e da lì è prevedibile che partiranno diversi tentativi per sopravvivere e per debellare la minaccia di questi incredibili mostri. Di per sé, la trama risulta abbastanza angosciante, come solo i giapponesi sanno crearne; un’angoscia però tutto sommato in linea con la tradizione nipponica, visto che il paese del Sol Levante ci ha abituato spesso a storie in cui mostri più o meno grandi minacciano l’umanità. Qui però la questione è forse ancora più grave, sia perché ad attaccare gli uomini è qualcuno che somiglia agli uomini stessi; sia perché il racconto è creato con una forte dose di realismo, che fa aumentare l’inquietudine. Non so se proseguirò a lungo con la visione, però, se vi piace il genere, devo dire che l’anime è sicuramente ben fatto. Lo trovate, come detto, su Amazon Prime Video.
I Mitchell contro le macchine (2021), di Mike Rianda e Jeff Rowe: salvo l’eccezione di alcuni titoli della Pixar (anche se, pure su questo versante, le ultime pellicole non sono state troppo soddisfacenti), i film d’animazione occidentali per bambini e ragazzi tendono a seguire un copione piuttosto consueto: le trame si assomigliano un po’ tutte e gli schemi narrativi si ripetono con una certa frequenza. Così, quando capita di imbattersi in una ventata (anche piccola) di novità, in me sorge subito un certo interesse. I Mitchell contro le macchine, da questo punto di vista, mi pare un esempio riuscito: uscì un paio di anni fa, poco dopo la pandemia, e quando lo vidi in famiglia per la prima volta mi parve già interessante, “fresco”, come dicono gli americani. L’ho rivisto un paio di sere fa, visto che i figli più piccoli non se lo ricordavano già più, e mi ha fatto la stessa impressione della prima volta: un film che rompe qualche schema, uscendo dalla classica convenzionalità dell’animazione, e che riesce a strappare qualche risata al momento giusto. La trama rende solo fino ad un certo punto l’efficacia della narrazione: la protagonista è Kate Mitchell, una ragazza appassionata di cinema che sta per andare al college; proprio questa prossima partenza da casa, però, è causa di qualche tensione, visto che il rapporto col padre – un uomo tendenzialmente anti-tecnologico – si è col tempo abbastanza deteriorato. L’uomo, resosi conto di tutto questo, cerca di recuperare il terreno perduto compiendo con la famiglia un viaggio in auto lungo l’America, ma nel tragitto scoppia una sorta di apocalisse robotica, visto che la nuova intelligenza artificiale del momento si ribella al suo creatore (e alla razza umana) rischiando di trasformare l’intera umanità in un gruppo enorme di deportati. Kate, con l’aiuto della ritrovata famiglia, cerca ovviamente di risolvere la crisi. Il film è simpatico e divertente, un buon tentativo per innovare un genere che rischia, come detto, di sembrare a volte un po’ vecchio. Se vi ho incuriosito, lo trovate su Netflix.
Quello che ho pensato
Solo qualche giorno fa ho registrato un video in cui parlavo di scuola ed educazione: se l’avete visto (e se non l’avete visto potete recuperarlo qui), prendeva spunto dal recente dibattito riguardo all’educazione affettiva e sessuale sorto in seguito alla morte di Giulia Cecchettin, e sostanzialmente lamentava il fatto che davanti a tragedie del genere si cerca di far ricadere ogni questione sulla scuola, come se essa fosse l’unico agente educativo del nostro paese.
Se le cose vanno male, in pratica, per qualcuno è sempre colpa delle elementari, delle medie o delle superiori: un discorso che, come sostenevo a lungo in quel video, è completamente deresponsabilizzante, perché implica immediatamente che genitori, fratelli e sorelle, società civile, politici, giornali, televisione e così via non abbiano da rimboccarsi le maniche. “Ci penserà la scuola a riparare ai nostri danni”, sembrava quasi di sentir dire.
Purtroppo le cose non sono così semplici, un po’ perché la scuola ha i suoi bei problemi, un po’ perché l’educazione è un processo complesso, che coinvolge tantissime componenti e in cui la scuola ha sì un ruolo, ma non “copre” tutto.
Dopo aver parlato, là, di quello insomma che non riguarda la scuola, vorrei però oggi soffermarmi brevemente su quello che invece avviene nelle nostre aule: perché, se è vero che la scuola da sola non basta, è anche chiaro che la scuola qualcosa deve pur provare a fare. Ma cosa?
Prima di tutto, cerchiamo di allargare il campo. Il problema non è, credo, solo l’educazione all’affettività (o qualsiasi etichetta vogliamo scegliere per questa fantomatica materia che dovrebbe portarci a far calare i femminicidi); è proprio l’educazione tout court, in senso ampio. Mi vien da pensare, infatti, che dobbiamo fare qualche riflessione su cosa crediamo che sia l’educazione in sé.
Perché la società civile fa sempre molto presto a dire che i vari problemi del nostro tempo dovrebbero essere affrontati dalla scuola, ma poi non ha ben chiare le modalità con cui la scuola dovrebbe parlare di certi temi. Mi vien da dire: aggiungiamo sempre cose da fare a scuola, materie e contenuti, focalizzandoci sul “cosa”, e non ci poniamo mai domande sul “come”. E invece, l’educazione è soprattutto un “come”, non un “cosa”.
Cerco di spiegarmi meglio, tirando in ballo anche alcune cose che nel video in questione ho accennato ma non ho approfondito. Parliamo di storia e filosofia, le mie materie. Io insegno – di solito per tre anni, a ragazzi che prendo a 15/16 anni e che lascio a 18/19 – da un lato la storia delle grandi battaglie, i cambiamenti dello Stato, i mutamenti della società, il ruolo dell’economia; dall’altro, il pensiero dei greci, dei cristiani, dei moderni e dei contemporanei.
Tutte cose che, nella vita, ai miei studenti – diciamolo chiaramente – serviranno concretamente poco o nulla. A meno che non decidano di cercare una carriera nell’ambito universitario in una facoltà umanistica, sapere come si è svolta la Guerra dei Trent’anni sarà inutile, così come ricordare il pensiero di Pascal. Un mio studente che poi si laurea in ingegneria e comincia a costruire ponti potrà bellamente dimenticare tutto quello che ha appreso durante i tre anni con me, e questo non cambierà di una virgola il suo apporto nel mondo, la sua vita. Ma, attenzione, questo è normale: non studiamo (o non dovremmo studiare) per ricordare informazioni.
Sono però convinto che anche un ingegnere che, durante tutta la sua esistenza, non avrà più occasione di ripensare a Albrecht von Wallenstein potrà comunque trarre dei vantaggi dall’aver studiato a suo tempo la Guerra dei Trent’anni. Quali, mi chiederete voi? Ebbene, la Guerra dei Trent’anni (ma si potrebbero fare migliaia di altri esempi) ha un lascito ben più importante dei nomi dei contendenti: ci insegna che per questioni religiose si possono combattere guerre assai lunghe e sanguinose, ma che allo stesso tempo le questioni religiose rappresentano solo la superficie della faccenda, e che sotto ci sono problematiche economiche e lotte di potere; ci insegna che quando un popolo esercita un potere su un altro popolo (i tedeschi sui boemi, in quel caso specifico) è facile che il popolo sottomesso si ribelli, e aderisca ad ogni movimento contrario all’occupante (se tu sei cattolico, io divento protestante); ancora, che i sovrani non sono sempre i veri padroni della situazione, perché devono fare i conti con chi presta loro denaro o con chi comanda le loro truppe.
I nomi dei protagonisti della Guerra dei Trent’anni vengono dimenticati facilmente dagli studenti, ed è normale che sia così; i meccanismi che stanno sottotraccia, che segnano quel conflitto, invece è più facile che rimangano e penetrino nella loro testa. E quando i conflitti in cui emergono dinamiche del genere cominciano ad essere tanti, è più facile che si inizi a comprendere come funzionano le guerre e le lotte di potere. Si uscirà da scuola senza sapere più nulla di quel conflitto specifico, ma avendo capito qualcosa della natura umana e della natura della politica.
Certo, per far sì che questo avvenga bisogna però insegnare le cose in un modo diverso da quello antico, da quello – chiamiamolo così – tradizionale. Ovvero: le cose vanno spiegate, ma spiegate per davvero, nei loro meccanismi; bisogna stimolare nei ragazzi una riflessione (anche e soprattutto personale) riguardo a quello che studiano; e bisogna far capire loro che non vogliamo che imparino a memoria e ripetano a pappagallo una miriade di dati, perché quello non serve a nulla (o comunque a poco: al massimo a stimolare la memoria).
Sembrano cose assai scontate da dire, e spero che lo siano davvero, ma a me pare che abbiamo ancora – noi insegnanti, ma ancora di più il mondo fuori dalla scuola – l’idea che a scuola si venga per star seduti al banco, zitti e buoni, ad imparare una serie pressoché infinita di nozioni. Preferibilmente, poi, le nozioni che serviranno sul lavoro. E dunque perché studiare Aristotele, visto che sul posto di lavoro non servirà al 99% degli studenti? Perché studiare Pericle, visto che non servirà al 99% degli studenti?
No, la scuola serve (o dovrebbe servire) ad altro: ad imparare un metodo. Che non è, si badi bene, solo un metodo di studio, come ripetono più o meno tutti; è anche un metodo di ragionamento, una forma mentis che ti spinge ad andare più in profondità nelle cose, a comprendere i meccanismi delle varie faccende, anche a guardare al mondo con spirito critico ma razionale. Tutte cose che rientrano nel “come” più che nel “cosa”.
E però, se il “come” è così importante, dovremmo badare non solo ai meccanismi insiti in quello che studiamo, ma anche al modo in cui studiamo e spieghiamo. Non solo al “come” che sta dietro ai contenuti, ma anche al “come” educhiamo.
Molte cose sono cambiate negli ultimi decenni, ma ancora nelle nostre scuole – e soprattutto nei licei, o almeno nei licei che frequento io – la scuola è monodirezionale, è un’attività che va dal docente al discente. Nel senso che la lezione è una lezione cattedratica, in cui un insegnante parla per un’ora o quasi e gli studenti ascoltano (o fingono di ascoltare) per un’ora o quasi.
Mi fa un po’ impressione, quando prendo una nuova classe e inizio a spiegare le prime volte, vederli lì, muti, con gli occhi spalancati ad ascoltarmi, senza proferire parola. Mi sembrano quasi morti, quei ragazzi: intimiditi, paurosi, timorosi di dire la cosa sbagliata. Abituati, forse, a ricevere e basta, ad assorbire, quasi che fossero davanti ad un oracolo che rivela l’arcano, e che va ascoltato in rispettoso silenzio.
E invece la scuola non può essere solo una freccia che va dalla cattedra ai banchi; dev’essere una serie di frecce che si intersecano, si tagliano, si spostano a vicenda. Dev’essere un groviglio di frecce. Dev’essere il professore che spiega, il ragazzo che interviene e chiede spiegazioni, l’altro che pone il dubbio, un altro ancora che contesta. La scuola dev’essere collisione di idee, scontro perenne.
È così che si capiscono le cose. È pensando e ripensando, cambiando idea e ricambiandola; è confrontandosi, è chiedendo che si va un po’ più in profondità. Altrimenti si rischia solo di imparare a pappagallo quello che ti è stato detto, di ridursi a ripetere quello che il docente vuole sentirsi dire, e non andare oltre a quello. Chiaro che lo scontro costa fatica, costa errori e cadute, incomprensioni; ed è chiaro anche che i ragazzi possono partire per la tangente e uscire dal seminato: ma lì deve (o dovrebbe) intervenire l’autorevolezza – che non è autorità, tutt’altro – dell’insegnante, che ad un certo punto dovrebbe essere in grado di riportare la discussione e la riflessione entro certi binari.
Non è un compito facile, e non penso affatto di essere io stesso in grado di farlo bene. Ma mi pare che non ci sia altra scelta: in un mondo dominato dal web oggi e dalle intelligenze artificiali domani, l’unica strada da percorrere è quella del cambiamento di prospettiva, di una scuola che educa soprattutto tramite il “come”, indipendentemente dal “cosa”.
D’altra parte, che si parli di Platone, Hegel o Nietzsche cambia in realtà poco: l’importante è parlarne.
Quello che ho registrato e pubblicato
Eccoci al momento credo preferito da chi non segue YouTube con grande costanza: la sezione in cui facciamo il punto su tutto quanto è stato pubblicato negli scorsi sette giorni. Ecco la lista completa:
Hammurabi e il primo impero babilonese: continuiamo il nostro viaggio nelle civiltà antiche, con il Codice di Hammurabi e non solo
La filosofia di Italo Calvino: una riflessione sul pensiero che sta dietro alle opere dell’autore de Il barone rampante e Se una notte d’inverno un viaggiatore
Saul Kripke tra nomi e necessità: il pensiero di un grande logico contemporaneo, con tutto quello che le sue teorie hanno comportato
L’India medievale e le sue religioni: una panoramica sull’India dei cosiddetti regni combattenti, tra l’XI e il XIII secolo
La morale provvisoria di Cartesio (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
L’occasionalismo di Arnold Geulincx (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
La Cina e l’imperialismo europeo (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
Il canale YouTube | Instagram | Facebook | Twitter/X | TikTok
Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
La Repubblica di Platone: questa settimana, come forse avrete letto sopra, ho finito di leggere per l’ennesima volta il Simposio, e allora vale la pena anche qui tornare su qualche altro classico platonico, visto che proprio il Simposio l’avevamo già suggerito tempo fa. Questa settimana pertanto vi propongo La Repubblica, il dialogo più importante del filosofo ateniese che si concentra ovviamente sul suo progetto politico, tirando in ballo comunque la dottrina delle idee, il mito della caverna ed altro ancora. È un po’ più impegnativo, ma prima o poi bisogna leggerlo. Lo potete acquistare, a poco più di 15 euro, qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
Chiudiamo come sempre anche con qualche anticipazione su quello che dovrebbe arrivare (se tutto va bene) la settimana prossima:
in primo luogo, per gli abbonati dal livello Roosevelt in su ci sarà un nuovo appuntamento del Club del Libro, dedicato al commento e al confronto sul Simposio di Platone;
poi vorrei realizzare un video su Henry Kissinger, ex segretario di Stato americano da poco scomparso;
inoltre da tempo miro a proporvi un video su Ippocrate, il padre della medicina greca, ma ovviamente strettamente imparentato con la filosofia;
e poi magari potrei riuscire a realizzare anche un nuovo capitolo della lettura integrale e commentata di Saggio sulla libertà di John Stuart Mill;
per quanto riguarda i podcast, infine, ne arriveranno su Arnauld in filosofia e sulla Belle époque in storia.
E questo è tutto. Questa settimana dal punto di vista lavorativo sarà per fortuna più breve del solito, grazie al ponte dell’8 dicembre; e sarà l’occasione (per me e forse anche per voi) per ricaricare un po’ le pile. Ci ritroviamo sempre qui tra sette giorni esatti. Buona settimana e buon ponte!
L’ho scoperta da poco e sono entusiasta del modo in cui scrive. Finalmente una persona colta che sa trasmettere il suo sapere in modo profondo e chiaro senza quelle maniere contorte di tanti italiani che usano frasi lunghe in cui ci si perde. Complimenti davvero.
Professore, non deve assolutamente demordere con la visione dell’attacco dei giganti, il punto forte dell’opera sta nei numerosi e stravolgenti colpi di scena e numerosi eventi che fanno riflettere sulla moralità delle azioni di certi personaggi. È una visione che consiglio a tutti, soprattutto ora che l’anime è finito.