Altruismo ed egoismo sociale, con anche qualche discorso su Woody Allen, Cartesio, l'insegnamento della filosofia, Old Boy, Monty Python, Ayn Rand, Only Murders in the Building e Pinacoteca di Brera
Sono stati giorni strani, quelli appena trascorsi. Soprattutto meteorologicamente: prima una pioggia che sembrava infinita, e che ha portato – non distante da qui – allagamenti e distruzione; poi, da ieri, un improvviso sole e un caldo quasi estivi.
Ma sono stati giorni strani anche per quanto riguarda le letture, le visioni e le riflessioni, almeno nel mio piccolo. Noterete infatti che i temi di questa newsletter sono assai variegati: si passa dalla commedia alla tragedia in un batter d’occhio, dalla satira irriverente alla violenza più cupa, dall’arte alla filosofia.
Tra l’altro, solo mentre scrivevo il titolo di questa mail mi sono accorto che tutti questi argomenti finiscono per intrecciarsi tra loro, in un modo o nell'altro. Dell’altruismo e dell’egoismo parla in primo luogo Ayn Rand, filosofa a cui ho dedicato proprio oggi un video; ma anche Old Boy, in fondo, si interroga sull’homo homini lupus, a ben pensarci. Only Murders in the Building non è poi molto diverso, visto che tratta di omicidi tra vicini di casa, un tema tra l’altro affrontato in alcune occasioni pure da Woody Allen (ricordate Misterioso omicidio a Manhattan?). E nella puntata dei Monty Python di cui vi parlo questa settimana c’è una scena sempre dello stesso tenore. Insomma, tutto torna.
D’altronde, l’argomento è ampio e probabilmente in futuro ci torneremo ancora. Intanto proverò a buttar lì qualche spunto man mano che presenteremo le varie opere della settimana, per poi sviscerare meglio la questione nella sezione Quello che ho pensato.
Ma ora bando alle ciance: cominciamo!
Quello che ho letto
Partiamo come sempre dai libri. Come noterete, mi sono portato ormai molto avanti con un romanzo che ci fa compagnia da un po’ di tempo, mentre ho iniziato (e sto divorando) un saggio che potrebbe forse interessare anche a voi.
Le confessioni d’un italiano di Ippolito Nievo: come vi ho anticipato la settimana scorsa, mi sono da poco imbarcato in un’impresa quasi impossibile: leggere in tempi umani Le confessioni d’un italiano, libro da quasi 1.000 pagine che è considerato un classico del nostro Risorgimento. La cosa che un po’ mi sconvolge è che Nievo, l’autore, morto a 29 anni in un naufragio, lo scrisse in nove o dieci mesi al massimo, poco prima di partire per l’impresa dei Mille; venne poi pubblicato postumo, a cura di una donna di nome Erminia Fuà Fusinato: e vi stupirà forse sapere che ho vissuto per molti anni della mia vita in una via adiacente a via Fuà Fusinato a Rovigo, senza sapere chi fosse questa donna, e ho dovuto aspettare oltre i 40 anni per scoprirlo. Ma torniamo al libro di Nievo: per ora – e sono ancora alle prime cinquanta pagine – siamo alla fase preparatoria di presentazione dei personaggi. L’azione si svolge nel castello di Fratta, che non è però quella conosciuta da chi vive dalle mie parti: non si tratta infatti di Fratta Polesine, ma di una frazione dalle parti di Portogruaro, sempre in Veneto. Lì si iniziano a conoscere i protagonisti della vicenda, pur tra varie parentesi e digressioni: il conte, il fratello Orlando che doveva fare il militare ma ha preferito la carriera ecclesiastica, l’anziana madre del conte. Tutti sono tratteggiati con una forte dose di ironia, cosa che rende il romanzo per il momento piuttosto leggero, scanzonato, anche se non mancano le analisi sociali e storiche sulla Repubblica di Venezia. L’impresa è ancora ardua, però: sono appena a un diciottesimo del libro. Ne riparleremo. Intanto, se vi interessa, lo si può comprare qui.
Come non insegnare la filosofia di Massimo Mugnai: qualche giorno fa sui social network mi è stata segnalata l’uscita di questo pamphlet scritto da Massimo Mugnai, logico italiano che ha insegnato anche alla Normale di Pisa; un libro in cui, con fare polemico (il titolo in realtà in copertina è scritto così: Come
noninsegnare la filosofia), se la prende coi programmi ministeriali, coi manuali delle superiori e in generale con l’insegnamento della filosofia al liceo. Ovviamente mi sono sentito chiamato in causa e ho dovuto subito comprare e iniziare il saggio. Essendo anche abbastanza breve, e scorrevole, sono già giunto a metà, e ho più o meno compreso il punto di vista di Mugnai (anche se ovviamente mi riservo di trarre le somme definitive solo una volta arrivato a conclusione). Devo dire che, come spesso accade in casi del genere, il libro è animato da buone intenzioni ed espone alcune tesi ampiamente condivisibili, ma allo stesso tempo pecca forse un po’ di aneddotica e di limitata esperienza sul campo. Molto spesso i professori universitari – non me ne vogliano – parlano di scuola superiore senza averci messo mai davvero piede, basandosi sugli studenti che arrivano davanti a loro all’università, che rappresentano un’esigua minoranza (almeno per quanto riguarda quelli che studiano filosofia) del totale; e d’altronde l’esperienza universitaria, per modi e tempi, è ben diversa dalla quotidianità di un liceo. Fate conto, solo per fare un esempio, che io frequento quotidianamente aule liceali da 18 anni eppure faccio ancora fatica a definire in modo univoco pregi e difetti di questa scuola; figuriamoci quanto mi può convincere l’analisi di uno che ne sta al di fuori. Nonostante questo, però, Mugnai su alcune questioni dice il vero. Ad esempio, sono anch’io d’accordo che l’impostazione dell’insegnamento della filosofia, in Italia, sia troppo storicistico-hegeliana; che in certi casi la filosofia venga ridotta a una formuletta da imparare a memoria; che sarebbe necessario un maggior coinvolgimento attivo degli studenti nell’atto stesso del filosofare. Allo stesso tempo, però, non sono così duro come lui contro i manuali (fanno, date le indicazioni ministeriali, generalmente un ottimo lavoro), né penso che l’approccio storico sia un male in sé. Come ho sostenuto altre volte, fare storia della filosofia o affrontare una filosofia per temi (etica, epistemologia, estetica ecc.) non garantisce di per sé, né in un caso né nell’altro, l’efficacia dell’insegnamento: secondo me molti – se non tutti – dei problemi che ha oggi l’insegnamento della filosofia in Italia si ripresenterebbero anche in un’impostazione per temi. Il problema principale non sono i manuali o il programma: è, a mio modo di vedere, l’approccio dei docenti. La filosofia al liceo si trova a volte ridotta a formuletta da imparare a memoria perché ci sono molti insegnanti che si accontentano di quello; i ragazzi non imparano a ragionare perché i docenti non li fanno ragionare (neppure sul pensiero altrui: si impara molto anche criticando Platone, Aristotele, Kant o Hegel, ammesso che qualcuno ti spinga a cercare dei punti deboli nelle loro argomentazioni). Insomma, la differenza vera – e lo sanno tutti quelli che sono stati a scuola – la fa l’insegnante. Si dirà: bene, ma sull’insegnante più di tanto non possiamo incidere, mentre sui programmi o sui manuali sì. Certo, ma agire in questo modo rischia di provocare la classica situazione gattopardesca, all’italiana: cambiare tutto perché nulla cambi davvero. Detto questo, non voglio essere neppure duro con Mugnai: il suo approccio alla questione, poco italiano e più europeo o anglosassone, non mi dispiace affatto. Tornerò a parlarne ancora. Intanto, se vi interessa, lo potete trovare qui.Il problema dei tre corpi di Liu Cixin: come anticipavo nella premessa, questa settimana mi sono dedicato con un certo impegno a questo libro, un po’ perché me lo sto portando dietro davvero da tanto tempo, un po’ perché è appena uscito il nuovo romanzo di Cormac McCarthy e mi ci vorrei buttare sopra, non prima però di aver concluso il romanzo di Cixin. Ma c’è anche un ulteriore motivo per cui questo libro di fantascienza è stato al centro delle mie letture nei giorni scorsi: che la trama si è fatta improvvisamente più appassionante. L’avevo detto da (quasi) subito: il libro mi sta piacendo, e molto. Finora, però, aveva avuto un carattere quasi filosofico, e quindi il suo procedere era stato abbastanza sonnacchioso: trattava temi interessantissimi, in maniera anche originale, ma non succedeva granché. Poi, d’improvviso, dopo la fine del videogioco dedicato a Trisolaris (quello di cui vi ho già parlato, sulla civiltà da costruire in un mondo in cui tre soli gravitano in modi imprevedibili attorno al pianeta) la trama ha subito un’accelerazione improvvisa, e i colpi di scena sono stati parecchi. Per questioni di spoiler non vi posso ovviamente rivelare molto riguardo a queste svolte, ma vi basti sapere che il racconto è diventato decisamente di fantascienza, mentre prima lo era solo fino ad un certo punto (anzi: la storia della Rivoluzione culturale sembrava dominare sugli slanci verso il futuro) e la natura della guerra a cui vagamente si accennava nei primi capitoli è diventata più chiara. Sono ormai quasi alla fine del romanzo e ovviamente, come avviene sempre quando si è presi da una storia, sto divorando le pagine. La settimana prossima, probabilmente, tireremo le somme; il mio unico timore, visto che so che questo romanzo fa parte di una saga, è che il tutto rimanga abbastanza in sospeso, senza un vero finale. Speriamo di no. Intanto, se vi interessa, lo potete acquistare qui.
Quello che ho visto
Passiamo ora anche ai film, o meglio agli audiovisivi: due dei tre titoli di questa settimana sono infatti delle serie TV; ma il film è uno di quelli che resta ben impresso nella memoria (e forse vi tormenta pure nei sogni).
Only Murders in the Building episodi 2.06 e 2.07 (2022), di Steve Martin e John Hoffman, con Steve Martin, Martin Short, Selena Gomez: scrivevo in apertura che il tema della settimana è costituito dal binomio socialità/asocialità. E che anche questa serie – che ci fa compagnia ormai da un bel po’ di tempo, tra prima e seconda stagione – gioca proprio su tutto questo. I protagonisti sono infatti tre “asociali” (per scelta o per esclusione), di età e con storie diverse; asociali che però riescono a fare gruppo, indagando su una serie di omicidi compiuti nel palazzo in cui vivono, apparentemente da persone ben inserite nella società ma evidentemente molto più violente di quanto sembri. Tra ironia e giallo, questa seconda stagione sta cercando di dipanare la matassa dietro all’omicidio dell’amministratrice di condominio, con qualche incongruenza qua e là (i vuoti di memoria mi paiono eccessivi, solo per fare un esempio) ma anche con una tensione che a volte diventa palpabile. Insomma, una serie più che discreta: se non l’avete mai vista, merita un possibilità. La trovate su Disney+.
Old Boy (2003), di Park Chan-wook, con Choi Min-sik, Yoo Ji-tae, Kang Hye-jeong: sono passati probabilmente 15 anni, più o meno, dalla prima e fino a pochi giorni fa unica volta in cui ho visto Old Boy, uno dei primi film sudcoreani ad avere un grande successo in Occidente. Da allora, complice la violenza della storia e di alcune scene, non mi era passato neppure per la testa di rivederlo, pur avendolo a suo tempo apprezzato. In questi giorni però, trovandolo su Amazon Prime Video e rendendomi conto di non ricordarlo più così bene, ho deciso di farlo ripartire e guardarlo di nuovo. La seconda volta, però, non è stata migliore della prima: a distanza di vent’anni, dopo che ci siamo abituati ai vari Parasite e Squid Game, quel modo di fare cinema continua comunque a colpire dritto alla bocca dello stomaco. La storia forse già la conoscete: il protagonista è un uomo con famiglia che all’improvviso, dopo una notte particolarmente alcolica, viene rapito e rinchiuso in una sorta di stanza d’albergo per ben 15 anni. Non si sa nulla del suo rapitore, se non che, appunto 15 anni dopo, lo lascia libero senza alcuna spiegazione. Ritornato al mondo reale, il protagonista vuole quindi cercare di capire il perché di quel rapimento e riesce a trovare rapidamente delle tracce, scoprendo però che in realtà anche il suo rilascio e le sue indagini sono state perlopiù pensate a tavolino da un deus ex machina che cova un desiderio di vendetta nei suoi confronti. Di più non vi dico, ma sappiate che nel film sono presenti alcune scene forti, con torture (in bocca, perlopiù), martellate, colpi d’arma da fuoco, qualche seno femminile e qualche accenno a storie morbose: insomma, da questo punto di vista non ci si fa mancare proprio nulla. Ma allo stesso tempo devo anche dire che tutta questa violenza – così frequente, in un modo o nell’altro, nei film di quella parte del mondo – è funzionale alla storia, una storia di degrado, caduta e, forse, responsabilità. Il tema, d’altra parte, è sempre quello: siamo animali sociali oppure no? Siamo capaci di empatia e amore sincero, oppure solo di sfruttare gli altri per i nostri scopi? Il film sembra dire che, da questo punto di vista, siamo soprattutto animali; e poi sì, in qualche misura paradossalmente anche sociali, perché vediamo la privazione della libertà di incontrare gli altri come una delle peggiori ferite che ci possono essere inflitte. Ma il film è complesso, e i temi da sviscerare sarebbero molti. Guardatevelo, se avete lo stomaco abbastanza forte.
Monty Python’s Flying Circus episodio 1.11 (1969), di e con Graham Chapman, John Cleese, Michael Palin: che fantastica rivoluzione che doveva essere, nel 1969, vedere per la prima volta in televisione gli episodi del Monty Python’s Flying Circus. Prendete l’episodio che ho visto questa settimana, l’undicesimo della prima stagione. Si tratta in fondo di un episodio non così memorabile: a quanto mi risulta, gli sketch lì presentati non sono poi stati riutilizzati dal gruppo nei loro film o in altre situazioni del genere, come invece accade con le gag di altri episodi. Eppure, nonostante si tratti di un episodio tutto sommato “normale”, è qualcosa che ancora oggi, a più di cinquant’anni dalla prima messa in onda, appare innovativo e divertente. La gag del giallo è letteralmente geniale: prima c’è John Cleese che non riesce a formulare una frase coerente, invertendo l’ordine dei termini quasi fosse uno Yoda ante-litteram; poi compaiono in scena un po’ alla volta tutti i membri del team, interpretando via via dei detective che giocano sulle assurdità fatte dai loro predecessori e finiscono per rimanere uccisi. Di parodie del genere giallo alla Agatha Christie ne abbiamo viste tutti a decine, ma devo dire che questa ancora oggi è forse la più incisiva. E poi le invenzioni continuano a lungo. Insomma, se non avete mai visto questo show e avete un po’ d’amore per la comicità, non potete proprio perderlo, anche se è solo in lingua originale coi sottotitoli. Lo trovate su Netflix.
Quello che ho pensato
Ogni anno faccio fare ai miei studenti un lavoro un po' particolare, che si va ad affiancare – per la gioia del Mugnai di cui parlavamo sopra – al programma tradizionale. Io lo chiamo “approfondimento”, anche se in realtà è qualcosa di più di un banale approfondimento: per farla breve, ogni studente sceglie un tema tra quelli che propongo e, appunto per approfondire quel tema, leggere un romanzo di narrativa da me scelto, vede un film in genere di buon successo da me proposto e legge alcuni brani di filosofi o di storici a complemento. Poi, dopo tutto questo lavoro che viene condotto lungo i mesi, ad aprile o, nei casi peggiori, a maggio svolge una verifica in classe per produrre un testo argomentativo (filosofico) su quel dato tema, in cui può sviscerare le sue tesi e le sue argomentazioni.
Si tratta di un lavoro, a dirla tutta, un po’ faticoso, sia per gli studenti che per me: per loro perché, già subissati da verifiche e prove, si trovano una verifica aggiuntiva con romanzi anche corposi da leggere, e spesso arrivano a completare il lavoro con l’acqua veramente alla gola (o non lo completano affatto: non è rarissimo che alcuni vengano a fare la verifica senza aver concluso il romanzo, rischiando anche delle belle cantonate nelle domande a risposta chiusa che piazzo proprio per verificare lo svolgimento del compito assegnato); per me, perché si tratta di decine di ulteriori compiti da correggere di cui, ufficialmente, non ci sarebbe bisogno. Il punto è però che mi illudo che sia utile, che aiuti i ragazzi a farsi un po’ più avanti, a dire cosa pensano e a provare a sostenerlo. Per dirla tutta, non sopporto i debate, quel format che va tanto di moda in cui i ragazzi dovrebbero allenarsi a sostenere una tesi (anche se non è quella in cui credono): sono dell’idea che un buon filosofo (ma anche un buon intellettuale in generale) debba prima pensare a cosa crede, e poi provare a sostenerlo, non il contrario.
Ad ogni modo, quest’introduzione mi serviva solo per farvi capire perché questa settimana mi sono trovato a riflettere abbastanza sul tema del potere. In quarta – complice un programma che in storia passa attraverso la Rivoluzione americana e quella francese e in filosofia tocca Hobbes, Locke, Rousseau e Hegel – uno dei temi che propongo ai ragazzi riguarda proprio quest’argomento: qual è la base del potere? A cosa serve lo Stato? L’uomo è naturalmente socievole oppure no?
Da quando faccio fare queste cose, cioè da parecchi anni, devo dire che l’opinione dei ragazzi è sempre stata piuttosto costante: sono tutti più o meno d’accordo con Hobbes, convinti che l’uomo sia malvagio e che lo Stato abbia sostanzialmente il compito di evitare che ci scanniamo a vicenda. D’altronde, l’adolescente per sua natura tende ad essere pessimista: già in classe, a volte, si sente circondato da lupi, figuratevi nello Stato. Io però non so se sono propriamente dello stesso avviso dei miei giovani allievi.
È innegabile, infatti, che l’uomo sappia comportarsi in modo bestiale. Come, allo stesso modo, è innegabile che in certi casi l’uomo sappia anche sacrificarsi per gli altri, mettendo da parte il proprio egoismo. La cosa che mi ha sempre lasciato interdetto, infatti, è che hanno ragione sia Hobbes (quello dell’homo homini lupus, ricordate?), sia Rousseau (quello del buon selvaggio): l’uomo è spesso entrambe le cose. L’uomo è buono e cattivo, in certi casi anche allo stesso tempo, nella stessa giornata. È capace delle peggiori nefandezze e dei più alti slanci altruistici. Il problema, casomai, è cercare di capire la regola dietro a questi comportamenti così contraddittori.
Ci sono molti studi, soprattutto biologici, che cercano di individuare le radici di tali atteggiamenti, e un certo ruolo pare acclarato l’abbiano l’ossitocina e la vasopressina, ormoni responsabili di determinati comportamenti sociali. In attesa di capire meglio come il tutto si sviluppi, io però avanzerei, per amor di discussione, un’ipotesi: che sia i comportamenti aggressivi (e asociali) che quelli altruistici (e sociali) abbiano in realtà la stessa radice profonda, che poi certi ormoni portano a sfogare in una direzione piuttosto che in un’altra.
Questa radice sta in quello che molti filosofi hanno individuato, chiamandolo in modi sempre diversi, come la base più profonda della vita umana: quella che io chiamerei la spinta all'espansione della vita. È quella che Spinoza chiamava conatus, che Nietzsche definiva volontà di potenza, che Bergson presentava come slancio vitale, e di cui abbiamo già parlato anche noi qui qualche tempo fa: davvero uno sforzo che cerca di espandere i confini di quella che è la nostra vita terrena, fedele alla paura più profonda e recondita del nostro essere che è la morte. Vivere è l'unica cosa che ci importa; espandere noi stessi è l'unica energia che ci guida nelle scelte quotidiane, siano esse positive o negative.
Perché la gente ruba, inganna o fa del male agli altri? A volte è perché pensa, istintivamente, che così la propria sopravvivenza sarà più facile; a volte perché è talmente arrabbiata dal fatto di non riuscire ad espandere la vita (perché non ha affetti, perché non lascia il segno in niente e in nessuno, perché è sola) da voler limitare anche la vita altrui, sminuendola o rovinandola.
Ma perché la gente, allo stesso tempo, fa azioni altruistiche? Perché i martiri vanno felici incontro alla morte, i padri e le madri morirebbero per i loro figli e gli innamorati si sacrificano gli uni per gli altri? Per interesse, come diceva Hobbes? Io la farei un po’ più complicata: sì, è per qualcosa che riguarda più il soggetto che l’altro, ma non per questo è un gesto egoistico.
Mi spiego meglio. Certamente conoscerete storie di genitori che – durante la Seconda guerra mondiale o in altri periodi tragici dell’umanità – hanno dato la loro vita per salvare quella dei loro figli; o perfino per salvare quella di sconosciuti. Come si spiega questo comportamento con la filosofia di Hobbes, e di tutti i pessimisti, secondo cui l’uomo fa sempre e solo le cose per interesse? Lì, in quel caso, il martire non cerca certo il proprio vantaggio.
Si potrà dire: se è credente, si sacrifica sperando di ottenere una ricompensa da Dio, e quindi la sua azione risulta comunque egoistica. Certo, è possibile che una buona parte di quei martiri fosse credente e fosse sostenuta anche dalla convinzione che il gesto sarebbe stato in qualche modo ricompensato. Ma pensate anche a voi stessi: in certe circostanze estreme, non sareste disposti a dare la vita per salvare una persona cara? Ci sarà pure una persona a cui tenete più che a voi, no? E in quel caso, il sacrificio lo fareste non per una fede nell’aldilà (per quanto ne so potreste essere benissimo atei), ma per qualcos’altro, no?
Ecco: cos’è questo qualcos’altro? A me pare che la spinta sia sempre all’espansione della vita. Nel mondo siamo spesso soli: nasciamo soli e l’unica persona con cui siamo costantemente, in ogni momento della giornata, è il nostro io. Ma a volte arrivano altre persone o cose – un partner, un figlio, un animale, un romanzo – che iniziamo ad amare davvero perché ci sembra che espandano la nostra vita, che la loro esistenza sia un po’, almeno in parte, anche la nostra. Pensate ad un figlio: si plasma davanti ai vostri occhi. Certo, poi ha una sua personalità, un suo carattere che può essere anche radicalmente diverso dal vostro, ma deve qualcosa anche a voi, si è formato anche grazie a voi. In lui potete vedere qualcosa di vostro (come lo potete vedere in un’opera d’arte che magari avete realizzato): il tempo e le energie spese per lui si riversano in quella persona. Come diceva Giordano Bruno riguardo al lavoro manuale: riuscite a mettere un po’ della vostra personalità in lui o in lei. Quindi quella persona diventa un’estensione (blanda, certo, ma pur sempre un’estensione) della vostra vita. In lui o in lei vedete qualcosa di vostro (foss’anche solo il vostro ricordo) e la sentite come vostra, non nel senso possessivo del termine ma nel senso esistenziale.
Pertanto, sacrificarsi per i figli è sì, da un certo lato, un’esperienza egoistica: lo fate perché qualcosa di voi continui a sopravvivere, continui la sua corsa; lo fate per voi. Ma è anche altruistica, perché per salvare qualcosa di voi perdete voi stessi, e lasciate spazio a qualcuno che userà quel vostro ricordo come più gli aggrada. I figli poi intraprendono la loro strada, fanno scelte personali diverse da quelle che avreste fatto voi, e il seme che avete lasciato lo fanno fruttare in modi a cui non avreste pensato mai.
Diventa quindi ozioso chiedersi se l’uomo sia o meno un animale sociale. L’uomo è un animale che tenta di espandere la propria vita: se riesce a farlo, diventa sociale e sa convivere anche bene con gli altri; se non riesce a farlo (per motivi suoi o causati dagli altri), diventa asociale e problematico per il bene collettivo. Da dove monta, di solito, la rabbia sociale? Dalla mancanza di prospettive per sé o per i propri cari, dalla mancanza di legami affettivi, dal vedersi davanti un mondo chiuso, dal sentirsi imbrigliati. In un concetto: dal non riuscire ad espandere la vita.
Lo Stato quindi deve tenere a freno i cattivi istinti degli uomini, come pensavano i pessimisti? Oppure deve annullarsi, permettendoci di ritornare alla condizione di buon selvaggio e di riscoprire l’amore naturale per gli altri esseri umani, come pensavano gli ottimisti? Né l’uno né l’altro, mi verrebbe da rispondere: secondo me deve creare semplicemente occasioni per espandere la vita, cioè creare un ambiente favorevole a tutto questo.
È chiaro che poi la creazione (di legami, di amori, di figli, di opere d’arte e d’ingegno, di passioni e così via) è un affare personale e dipende dalle inclinazioni di ognuno. Ma lo Stato può favorirle o ostacolarle; e, anzi, a volte finisce proprio per ostacolarle o renderle incredibilmente complicate. Proviamo a buttar giù, molto velocemente, un elenco di cose più o meno piccole che lo Stato può fare, in quest’ottica, per aiutare l’espansione della vita:
far sì che la scuola diventi uno spazio creativo e non solo di mera ripetizione di contenuti;
far sì che la scuola esalti le naturali inclinazioni di ognuno e non le frustri, trovando un modo per renderle produttive per la comunità;
difendere e facilitare l’amore, in ogni sua forma (per persone, figli, animali), anche con aiuti alle famiglie, alle coppie, per le case eccetera;
costruire asili, luoghi ricreativi e facilitare doposcuola e simili per permettere a chi vuole avere figli di averli;
riservare fondi per la cultura, per i musei, per i cinema, per le librerie: perché la cultura è un modo semplice per vivere mille vite in più;
finanziare start-up e imprese, soprattutto tra i giovani, e sostenere il più possibile chi ha voglia di rischiare;
alleggerire al massimo la burocrazia e tutto ciò che è un freno ai progetti e alle novità;
incentivare l’associazionismo e il volontariato; le feste, gli incontri, i seminari, le sagre, i concerti.
E questo è solo un elenco di massima, steso in pochi minuti. Pensate a quante altre cose positive si potrebbero fare, avendo questa stella polare in mente. Cose a volte addirittura a costo zero o quasi, che però si fanno poco, o a singhiozzo, perché ultimamente conviene di più soffiare sul malcontento che curarlo o affrontarne le cause. Senza capire che come l’odio genera odio (Spinoza docet), anche il malcontento genera solo malcontento.
Quello che ho registrato e pubblicato
Se vi siete persi qualche video o qualche podcast tra quelli pubblicati questa settimana, siete nel posto giusto. Ecco tutto quello che ho prodotto – a proposito di “espansione della vita” – nei giorni scorsi.
Storia della monarchia inglese e britannica: visto che re Carlo è stato incoronato da poco, un veloce riassunto della storia di chi lo ha preceduto
La filosofia di Woody Allen: un’altra analisi della filosofia dietro ai film, concentrandoci stavolta su alcuni dei più famosi film comici degli ultimi decenni
Ayn Rand: etica e gnoseologia: introduciamo una pensatrice controversa, che però ha trovato un buon successo (anche a livello popolare) negli Stati Uniti
La Pinacoteca di Brera a Milano: cosa c’è da vedere nel più famoso museo d’arte di Milano? Una breve guida alla visita
La rivoluzione di Niccolò Copernico (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
L'impresa dei Mille di Garibaldi (per il podcast “Dentro alla storia”)
La società e l'economia dell'Italia unita (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
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Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono i nuovi abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri e videocorsi che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Discorso sul metodo di Cartesio: quando si parla di classici della filosofia, nell’elenco non può certo mancare quello che è il libro più importante del razionalismo moderno, il Discorso sul metodo di René Descartes. Un libro che ha segnato, nel bene e nel male, buona parte della filosofia successiva, ma che ancora oggi non è troppo difficile da leggere (nonostante abbia sulle spalle quasi 400 anni). Prima o poi, dunque, un buon studente di filosofia deve provare a misurarcisi. Lo si può acquistare qui.
Sceneggiatura per fumetti: esplora lo storytelling visivo: se siete appassionati di fumetti, di sicuro avete sentito parlare o letto storie di Fred Van Lente. Ha scritto per Iron Man, Capitan America, Deadpool, Conan il barbaro e altri personaggi ancora. Risulta quindi particolarmente interessante il corso che vi suggerisco questa settimana, in cui Van Lente comunica i segreti del proprio lavoro tramite 14 lezioni al costo complessivo di appena 9,99 euro. Vale la pena di provarlo: lo trovate qui.
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né fare corsi, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
Chiudiamo, prima di salutarci, con la solita panoramica sui video e sui podcast in preparazione:
come già preannunciato, dovrebbe uscire quasi subito la quarta puntata del Corso di logica, piena di esercizi per impratichirsi con le regole che abbiamo da poco presentato;
dovrebbe poi arrivare un nuovo video della serie Grandi periodi storici in un’ora, dedicato alla storia dell’Italia durante la cosiddetta Prima Repubblica;
poi aspettatevi la seconda parte della lettura commentata del Saggio sulla libertà di John Stuart Mill;
infine, se tutto va bene dovrei riuscire a realizzare anche un nuovo capitolo della serie dedicata alla storia dei consumi;
per quanto riguarda i podcast, invece, continueremo a parlare di Copernico in filosofia e affronteremo la distinzione tra Destra e Sinistra storica in storia.
E questo è tutto. Riposatevi, gustatevi il sole che pare finalmente esser venuto fuori e ritornate qui, puntuali, tra sette giorni esatti. Ciao!
"Mugnai su alcune questioni dice il vero. Ad esempio, sono anch’io d’accordo che l’impostazione dell’insegnamento della filosofia, in Italia, sia troppo storicistico-hegeliana; che in certi casi la filosofia venga ridotta a una formuletta da imparare a memoria"
Vorrei commentare la frase : al liceo si studiano le dottrine , ma la vera filosofia
e´ quella che praticavano i filosofi ellenistici per i quali la filosofia era un arte di vivere . un filone della filosofia che si ricollega
alla concezioni della filosofia che avevano gli antichi greci ,
la quale collega le dottrine filosofiche alla prassi nella vita quotidiana ,
una terapia filosofica , una filosofia che ci insegna a vivere ,
a differenza della filosofia che abbiamo imparato a scuola ,
dove impariamo nozioni .
Lou Marinoff Platone è meglio del Prozac Piemme
Le pillole di Aristotele. Come la filosofia può migliorare la nostra vita Piemme
Aristotele Buddha Confucio. Per essere felici ora Piemme
Edit Hall Edith Hall - Il Metodo Aristotele. Come La Saggezza Degli Antichi Puo Cambiare La vita Einaudi
Maura Gancitano Prendila con filosofia. HarperCollins Italia
Ilaria Gaspari Lezioni di felicita' Einaudi
Pierre Hadot La filosofia come modo di vivere Einaudi