Ancora sulla guerra tra Israele e Hamas e sul destino di Gaza, ma anche su La meravigliosa storia di Henry Sugar, il significato delle elezioni del 2022, Bodies, 1984, Cartesio e le guerre jugoslave
È stata una settimana, indubbiamente, di brutte notizie. A tener banco, ancora oggi, sono soprattutto quelle che provengono dalla Striscia di Gaza, e non solo da lì: nei giorni scorsi Israele ha cominciato un attacco molto più intenso, che somiglia ormai a una vera e propria invasione del territorio; il numero di morti sta crescendo, e allo stesso tempo purtroppo si registra un aumento anche del nervosismo nella regione, come dimostrano i proclami dell’Iran e lo strano attacco che si è verificato a Machackala.
Ma di cose brutte ce ne sono state tante. Dall’Iran è arrivata la notizia della morte di Armita Garawand, la sedicenne che pare sia stata picchiata in metropolitana dalla polizia religiosa per non aver indossato il velo. Dal Kazakistan, invece, è proprio di oggi la notizia delle violenze che sembra siano state inflitte a Amina Milo, italiana là detenuta.
E poi perfino il mondo dello spettacolo ci ha rattristato, con la scomparsa di Matthew Perry, il Chandler di Friends. È una morte che ovviamente, davanti a lutti ben più numerosi, ha un peso totalmente diverso, però anche queste dipartite colpiscono, perché in qualche misura – soprattutto se sei cresciuto negli anni '90 – se ne va con quell’attore un pezzo della tua adolescenza spensierata (o che a te piace ricordare come spensierata).
È stata insomma una settimana di doccia gelata, potremmo definirla anche così; una settimana in cui abbiamo dovuto fare i conti un po’ tutti con la realtà, con una realtà che è meno bella di quanto speravamo.
Devo dire che questi ultimi mesi, da questo punto di vista, sono stati piuttosto tragici: la Guerra in Ucraina, le tensioni tra USA e Cina, ora il riacutizzarsi della questione mediorientale… Non c’è tanto per essere ottimisti, all’orizzonte, per il mondo (senza contare i problemi del cambiamento climatico). Bisogna sperare che sia solo una fase passeggera e che la tempesta passi in fretta.
Ora però lasciamo perdere, per un momento, queste note tristi e torniamo ad occuparsi come al solito di libri, film, riflessioni (che comunque riprenderanno, come vedrete, alcuni di questi punti).
E, prima che me lo dimentichi, un’ultima nota: siete in tanti, sempre di più, sia qui sulla newsletter, sia soprattutto sul canale YouTube (dove ormai viaggiamo velocemente verso quota 100.000 iscritti). Se siete nuovi, quindi: benvenuti!
Quello che ho letto
Cominciamo come al solito coi libri. Nella lista questa settimana ci sono due volumi di cui vi sto parlando da un po’, mentre un terzo è completamente nuovo (e appena cominciato, a dirla tutta).
1984 di George Orwell: la data del prossimo appuntamento del Club del Libro si avvicina (stando al sondaggio apposito, per ora sta prevalendo l’opzione di domenica 5 novembre). E io sono indietro: manca meno di una settimana all’ora X e mi mancano ancora circa 80 pagine per finirlo. Dovrò velocizzare, e punto soprattutto sulla pausa infrasettimanale del 1° novembre per dare un’ultima accelerata verso la fine del romanzo (anche se, ad essere sincero, sto accumulando fin troppe cose da fare, il 1° novembre). Ad ogni modo gli eventi principali del libro ormai sono stati messi tutti chiaramente sul piatto: il sistema dell’Oceania e del Socing è stato ben delineato da Orwell, così come il suo protagonista, Winston Smith, che è ormai passato completamente dalla parte dei ribelli, prima con la relazione con Julia, poi con i contatti con O'Brien. Manca il finale, che ricordo abbastanza bene ma che non so quanto mi colpirà in questa rilettura. Devo dire che a distanza di tanti anni, 1984 mi sembra presentare alcuni punti di forza inossidabili – la spietata analisi dei totalitarismi e delle loro assurdità logiche, soprattutto –, ma anche forse qualche parziale punto debole. 1984 è infatti più un saggio che una vera e propria opera di narrativa, in quanto le vicende di Winston sembrano, in larghe zone del libro, soprattutto una scusa per presentare alcune analisi o previsioni politiche; previsioni che a volte sembrano fin troppo radicali e fin troppo estreme. Quella presentata in 1984 è una distopia talmente eccessiva da sembrare forse addirittura un po’ distante da noi: davvero, ci viene spontaneo chiederci, nel 1948 temevano che il mondo si evolvesse verso una serie di dittature totalitarie così estese e così irrazionali? Davvero pensavano che le grandi potenze si sarebbero misurate a colpi di bombe atomiche scagliate l’una contro l’altra? Davvero si temeva che il capitalismo si sarebbe evoluto in un semplice sistema per consumare ciò che viene prodotto tramite la guerra, col solo scopo di mantenere la gente nella povertà? Orwell è stato profetico e inquietante nella sua analisi, ma forse era anche influenzato da un pessimismo fin troppo marcato. Se non avete mai letto il libro, comunque, dovete assolutamente recuperare: lo trovate qui.
Svolta a destra? di ITANES: sto continuando a leggere questo saggio che per la verità è molto tecnico e, ogni tanto, un po’ noioso. Non me ne vogliano gli autori: è normale che sia così. Non è che l’analisi dei dati elettorali e le tabelle con numeri e percentuali in genere stimolino troppo l’attenzione e ti facciano venir voglia di divorare le pagine come accade con un buon thriller. Poi devo dire che anch’io un po’ me le cerco, perché per una strana serie di coincidenze Svolta a destra? è fisso sul mio comodino e quindi mi metto a leggerlo – armato di matita per le sottolineature – quando mi corico sotto le coperte, di solito troppo tardi per non aver la palpebra che cala facilmente. Avrete quindi capito che si tratta di un libro tecnico, di studio, non certo di svago; un libro forse anche un po’ ripetitivo: l’analisi dei dati viene condotta sotto diversi punti di vista e da diversi analisti, e quindi certi temi tendono inevitabilmente a ritornare. Però ogni tanto qualcosa di nuovo e intrigante salta fuori. Ad esempio, tra le ultime sottolineature, c’è questa che vi condivido volentieri: «Complessivamente l'area di destra composta da questi tre gruppi rappresenta il 28% dell'elettorato. È però da notare che quasi la metà di questi elettori è disponibile a votare più partiti della coalizione (14%) ed è quindi esposta ad una competizione interna al centro-destra. C'è poi la più variegata area che va da Azione-IV fino al PD, passando per il Movimento 5 stelle (M5S). Quest'area rappresenta circa un terzo dell'elettorato (31,4%), ma si distingue chiaramente per il fatto che al suo interno prevalgono elettori esclusivi, che prendono in considerazione un solo partito e che non sono disponibili a votare per gli altri. In quest'area sono infatti 4 su 5 gli elettori esclusivi». Cosa vuol dire, in soldoni? Che in realtà, se si guarda a tutto l’elettorato italiano, solo il 28% (meno di un elettore su tre) è convintamente di centrodestra (anche se a volte vota Forza Italia, a volte Lega, a volte Fratelli d’Italia), e che più o meno una stessa percentuale si orienta sulla somma di Centro e Centro-sinistra; a tutto questo poi si aggiunge una fetta più larga – il 38% abbondante – che non vuole votare per nessun partito. Questo porta a due considerazioni: primo, che le opposizioni avrebbero dei numeri importanti (col 31%, superano il centrodestra), ma allo stesso tempo che non sono in grado di unirsi a fare blocco comune, proprio perché i loro elettori sono tra loro antagonisti (chi vota M5S non vuole votare PD e viceversa, per non parlare poi di Azione o Italia Viva); secondo, che a governare è una coalizione di fatto minoritaria, che nel paese è voluta e apprezzata da un elettore su quattro. Mettetela così: è come se in una classe di 20 alunni, 5 fossero a favore del centrodestra, e fossero tra loro molto uniti; 6 o 7 fossero a favore del centro e del centrosinistra, ma litigassero continuamente tra loro; e 8 dicessero: «Fanno tutti schifo, non me ne frega nulla». In quel caso, sarebbe comunque il gruppo più piccolo ma coeso a imporsi. Questa è una realtà sempre più evidente non solo in Italia: in tutto il mondo occidentale si è diffuso negli anni un clima di generale sfiducia, e questo ha molto avvantaggiato le formazioni anche relativamente piccole ma molto unite, in grado soprattutto di stimolare una forte adesione, un forte senso di appartenenza nei propri elettori. Non serve avere per forza grandi numeri, non serve conquistare il cuore di tutti: giocando sulla sfiducia diffusa, basta conquistare il cuore di una certa parte e giocare sulle divisioni altrui. E questa è ormai una realtà consolidata, di cui bisogna cominciare a tener conto. Se il libro vi interessa, lo potete acquistare qui.
Le sette morti di Evelyn Hardcastle di Stuart Turton: una delle cose belle dell’insegnamento – e ce ne sono per la verità molte, che sarebbe troppo lungo elencare – è che si rimane a contatto coi giovani, con le loro passioni e le loro manie. A patto che si abbia voglia di conoscerle ed indagarle, infatti, insegnando ci si tiene enormemente informati su cosa va di moda nel campo della musica, della televisione e perfino – ahimé – dei meme. Così non è affatto raro che i miei studenti saltino fuori, di tanto in tanto, consigliandomi un film da vedere, una serie TV da provare o un libro da leggere; il più delle volte perché li pensano legati in qualche modo al programma che stiamo svolgendo, ma a volte anche semplicemente perché quelle opere sono loro piaciute e sperano che piacciano anche a me. Poi il guaio è che io non sempre il tempo di guardare e leggere tutto, e quindi magari rimando: ringrazio del consiglio, metto in lista ma poi mi dimentico pure di iniziare ad affrontare quelle opere; anche perché molto dipende dalla fortuna e dal tempismo, perché ci sono consigli che arrivano in un certo senso al momento giusto (quando magari ho appena finito un libro) e altri che arrivano al momento sbagliato (quando sono talmente oberato da dimenticarmi anche tutto quello che mi viene consigliato). Tra i miei studenti “sfortunati” da questo punto di vista ce n’è uno che, poveretto, negli ultimi mesi mi ha costantemente suggerito un film e un libro, e io non li vedevo mai; più lui insisteva, più io mi dimenticavo o non riuscivo a portare a termine l’opera, tanto che a un certo punto il ragazzo ha temuto che ce l’avessi con lui. Questa settimana però, dopo tanta attesa, ho un po’ rimediato, finalmente. Del film – che ho visto – vi parlerò nella prossima sezione, ma ora è giusto spendere due parole sul libro, Le sette morti di Evelyn Hardcastle, che ho iniziato da appena un paio di giorni, rubando tempo a 1984 (e così, appunto, rimanendo indietro col programma). Del libro sapevo poco: che ha venduto molto e che dovrebbe trattarsi di un giallo relativamente classico, ma nulla più. Comunque alla fine l’ho iniziato, e per il momento a dire il vero più che un giallo vero e proprio (anche se c’è già quello che pare un omicidio, nelle prime pagine) mi sembra quasi un horror, o un romanzo del mistero: l’azione prende avvio da un protagonista che corre nei boschi e, appunto, assiste a quello che sembra essere un omicidio. Ma questo protagonista non ha idea di cosa lui stesso stesse facendo nel bosco, di quale sia il suo nome e di come sia fatto il suo corpo, come se si fosse risvegliato improvvisamente nei panni di qualcun altro. E anche nelle pagine successive la vicenda appare parecchio sconnessa, ingarbugliata. Vedremo dove l’autore andrà a parare. Intanto, se vi interessa, il libro potete acquistarlo qui.
Quello che ho visto
E passiamo ora ai film, o meglio a un mix di film e serie TV, anche da poco usciti (anche se manca Killers of the Flower Moon: non ho ancora fatto in tempo a vederlo).
Bodies episodio 1.01 (2023), di Paul Tomalin, con Jacob Fortune-Lloyd, Shira Haas, Amaka Okafor: anche Bodies è frutto, in realtà, del consiglio di uno studente, anzi di una studentessa di quinta: arrivata attorno a metà degli episodi (si tratta di una miniserie appena uscita e ne conta in tutto otto) mi ha suggerito di guardarla perché, dice, ad un certo punto entra in gioco il tema del libero arbitrio. Io questa settimana sono riuscito a provare solo la prima puntata, che però in effetti si presenta come molto intrigante e ricorda anche piuttosto palesemente Dark, l’acclamata serie tedesca di qualche anno fa. La trama si dipana lungo diverse linee temporali: il 2023, il 1941, il 1890 e, sul finale, perfino il 2053. In tutti e quattro questi scenari, al centro della vicenda c’è un vicolo di Londra in cui viene ritrovato il cadavere di un uomo completamente nudo, apparentemente ucciso con un colpo di pistola diretto all’occhio, senza però che si riesca a trovare il proiettile che avrebbe trapassato la vittima. Il tutto ovviamente si lega fin da subito a una serie di misteri per il momento difficili da decifrare, che è facile intuire ci verranno però svelati un po’ alla volta, con la dovuta calma. Gli attori non sono di primissima fascia ma la serie pare ben fatta, dimostrandosi capace per ora di muoversi con disinvoltura tra le diverse ambientazioni; alla sua base tra l’altro c’è un fumetto di qualche anno fa scritto da Si Spencer e illustrato da Phil Winslade che però credo sia inedito in italiano. Se vi interessa, la serie la trovate fresca fresca su Netflix.
La meravigliosa storia di Henry Sugar (2023), di Wes Anderson, con Benedict Cumberbatch, Ralph Fiennes, Dev Patel: un paio di settimane fa vi ho parlato dei cortometraggi che Wes Anderson ha realizzato da poco per Netflix, tratti da racconti di Roald Dahl. La meravigliosa storia di Henry Sugar è il più lungo della serie, visto che dura una quarantina di minuti, tanto che sarebbe meglio parlare di mediometraggio. Il cast è di prim’ordine: il protagonista è Benedict Cumberbatch, che comunque divide la scena con Ralph Fiennes (impegnato, anche negli altri corti, a interpretare lo stesso Roald Dahl, più una serie di altri personaggi minori), Dev Patel e soprattutto Ben Kinglsey. La storia è abbastanza particolare: Henry Sugar, ricco e annoiato uomo inglese, si imbatte per caso nel quaderno di un medico indiano che racconta di aver incontrato e conosciuto un connazionale che era capace di vedere in un certo senso “con gli occhi della mente”, visto che riusciva a visualizzare perfettamente quello che c’era attorno a lui anche quando era completamente bendato. Dopo aver appreso il modo in cui l’indiano era divenuto in grado di compiere tali miracoli, Sugar prova a replicarlo, con lo scopo, inizialmente, di far soldi al casinò vincendo al blackjack (la capacità gli permetterebbe, infatti, di vedere in anticipo il contenuto della carta che sta per essergli servita). Non vi racconto come poi va a finire la storia, ma la trama – come sempre nei film di Anderson – in realtà importa piuttosto poco: quello che conta è la messa in scena, la realizzazione scenografica. Lo stile di Anderson è anche qui molto evidente, con i suoi personaggi che narrano la storia rivolgendosi direttamente allo spettatore, le sue ambientazioni particolarissime e i colori accesi. Poi, come sempre, è questione di gusti; e a me i film di Anderson lasciano sempre un po’ così: belli, certo, ma anche un po’ vacui. Questo mediometraggio, comunque, lo trovate come detto su Netflix.
Source Code (2011), di Duncan Jones, con Jake Gyllenhaal, Michelle Monaghan, Vera Farmiga: nella sezione Quello che letto vi ho parlato del mio studente che mi ha suggerito, nel tempo, un libro e un film senza che io li affrontassi per parecchio tempo. Il libro era Le sette morti di Evelyn Hardcastle, e di quello abbiamo già parlato; il film è invece Source Code, di cui è giunto il momento di discutere ora. Si tratta di una pellicola di qualche anno fa, fantascientifica, che gioca anch’essa sulle linee temporali e gli universi alternativi, proponendo però, sottotraccia, anche qualche interessante dilemma etico. Il protagonista (interpretato da Jake Gyllenhaal) è un ufficiale dell’aviazione americana che si risveglia in un certo senso nel corpo di un’altra persona, un professore su un treno diretto a Chicago; un treno che però ad un certo punto esplode. Tramite una serie di spiegazioni, il pilota capisce di dover rivivere svariate volte quella scena (di circa 8 minuti) per cercare, per conto del governo, di capire chi ha piazzato la bomba per compiere un attentato terroristico. Alla base di tutto c’è infatti una nuova tecnologia che permette di sfruttare le ultime sinapsi di un cervello che sta morendo (quello dell’insegnante, che effettivamente era sul treno saltato per aria) per ricostruire gli eventi. Da qui parte un’indagine che mescola giallo e fantascienza; ma soprattutto, alla fine ci si interroga anche sulla responsabilità, sul fine vita, sugli universi paralleli che possono generarsi davanti ai bivi delle nostre scelte e su altro ancora. Il pregio principale del film, probabilmente, è che queste analisi arrivano ad un secondo livello, e pochi le coglieranno; per molti sarà solo un appassionante film d’azione. Ma, appunto, questo è il suo pregio: di poter parlare forse a palati diversi, proponendo degli stimoli diversificati. Poi non è un film perfetto: soprattutto, a mio avviso, presenta qualche sbavatura retorica qua e là e un po’ di facile sentimentalismo. Ma quantomeno è originale. Se vi interessa, è disponibile in questo momento contemporaneamente su Sky e su RaiPlay.
Quello che ho pensato
Dopo un paio di settimane di sostanziale silenzio sulla questione, credo sia tornato il momento di dedicare qualche riga a quello che sta accadendo a Gaza. Lo faccio un po’ a malincuore, perché francamente mi sembra che, sulla questione, in Italia (ma anche in Europa) si stia facendo soprattutto confusione, e non vorrei rimanere invischiato in certi dibattiti sterili.
Per chi non ha seguito bene quello che è successo nelle ultime settimane, un breve riassunto. A inizio ottobre, in modo completamente inaspettato, Hamas – l’organizzazione politica e militare palestinese che controlla la Striscia di Gaza – ha attaccato il territorio israeliano con azioni di stampo terroristico: ha ucciso dei ragazzi ad un rave, ha eliminato delle famiglie a caso, ha preso degli ostaggi. In tutto si sono contate circa 1.400 vittime, un attacco senza precedenti allo stato ebraico.
Israele, dopo la clamorosa falla difensiva, ha risposto in modo molto duro, dichiarando guerra, accerchiando la Striscia di Gaza e proclamandone l’assedio, interrompendo anche ogni rifornimento al territorio. Questo ha provocato una crisi umanitaria – a Gaza vivono più di due milioni di persone –, peggiorata dai frequenti bombardamenti dell’esercito israeliano. Finora il computo delle vittime a Gaza pare essere superiore alle 8.000 persone (stando a stime dell’ONU).
Nelle ultime giornate, la situazione ha avuto infine un’ulteriore evoluzione: Israele ha intensificato infatti gli attacchi su Gaza, prima isolando il territorio da ogni possibile comunicazione con l’esterno, poi penetrando via terra nella striscia e stringendo a tenaglia, pare, la città di Gaza.
Questi i fatti, nudi e crudi. Su cui si innestano i commenti, le prese di posizione, le manifestazioni, gli odii e gli attacchi che, da parte di tutto il mondo, stanno arrivando sull’una o sull’altra parte.
La mia posizione l’ho già espressa nei due video che ho fatto sulla questione, e non è mutata nel tempo, anche perché – molto banalmente – si appella a una semplice applicazione del diritto internazionale: quello che ha fatto Hamas è orribile, ma Israele non può far pagare ai civili le colpe di Hamas.
Il che, ovviamente, vuol dire tutto e niente: Israele considera l’attacco del 7 ottobre un atto di guerra (e in parte ha ragione) e ha bisogno di dare un segnale forte, perché capisce bene che il momento – non tanto per Hamas, ma per tutto il Medio Oriente – è critico; d’altro canto, quello che sta facendo potrebbe benissimo ritorcersi contro Netanyahu e tutto il paese.
Ci sono, in tutto quello che sta accadendo, una serie di errori madornali da entrambe le parti, non solo dal punto di vista umanitario, ma anche politico e tattico. Hamas ha fatto un’azione esecrabile, ma anche profondamente stupida. Cos’ha ottenuto? Molti capi dell’organizzazione sono stati ammazzati e le condizioni dei palestinesi sono molto peggiorate: se sperava che qualche stato arabo accorresse in suo soccorso, forse ha fatto male i conti, perché per ora i palestinesi sono (tanto per cambiare) abbandonati al loro destino. A me sembra che, come in altre occasioni, Hamas sia stata semplicemente la pedina usata da qualcun altro (Qatar, Iran) per perseguire i propri interessi; detta brutalmente: l’utile idiota da sacrificare.
Il governo israeliano, e Netanyahu in particolare, non sta facendo una figura migliore. Ha gestito male ogni momento della crisi – prima e dopo l’attacco del 7 ottobre – e non sembra in grado di prendere decisioni del tutto condivisibili sulla questione.
Detta in termini più chiari: i protagonisti della vicenda hanno sbagliato tutto e ora sono vittime di loro stessi, quasi costretti a portare avanti le loro mosse anche se queste possono più danneggiarli che aiutarli.
E questo vuol dire che non c’è una via d’uscita facile. Se Israele fa marcia indietro, state sicuri che Hamas e gli Hezbollah ritorneranno all’attacco, e forse pure qualche altro vicino fastidioso riprenderà l’iniziativa, magari foraggiato pure da un Putin che non vede l’ora di aprire un altro fronte anti-occidentale da qualche parte.
Se invece Israele va avanti, potrebbe essere una catastrofe umanitaria ancora peggiore di quanto non sia stata finora: moriranno palestinesi, e l’odio contro Israele si radicalizzerà ancora di più nella zona (e forse non solo nella zona).
A me pare una lose-lose situation, una situazione in cui si perde sempre, qualunque cosa si faccia. E il dramma è che perdono tutti, non ci sono reali vincitori (se non chi spera nel disordine generalizzato, per trarne un qualche vantaggio). Hamas ha fatto partire un effetto domino da cui è davvero assai difficile tornare indietro.
Noi intanto in Italia, ovviamente, stiamo qui a fare il tifo per gli uni o per gli altri, e lo stato del giornalismo nostrano sulla questione è a tratti raccapricciante. Ho provato ad aprire Twitter, l’altro giorno, e me ne sono fuggito nel giro di pochi minuti a gambe levate: tutti a scambiarsi accuse di genocidio reciproco. Che poi ci sarebbe anche una parte di verità, almeno nelle intenzioni: una parte dei palestinesi vorrebbe davvero far fuori tutti gli israeliani, e una parte degli israeliani vorrebbe davvero far fuori tutti i palestinesi.
Ma, appunto: una parte. La differenza sta lì: che il mondo palestinese (e il mondo arabo in generale) è ben variegato, e pieno zeppo di contraddizioni; e che anche il mondo israeliano lo è altrettanto. A noi però piace assolutizzare, vedere tutto nero o tutto bianco, tutto puro o tutto sporco.
Senza contare che è raro trovare qualcuno che colga la dimensione più ampia del conflitto. Non è solo uno scontro tra Israele e Hamas, con i civili ad essere schiacciati nel mezzo; è anche una prova di forza per ridefinire gli equilibri nella regione. In pratica: potrebbe anche andare molto peggio di così, purtroppo, perché il conflitto potrebbe facilmente allargarsi, coinvolgere altri paesi, e durare anni. E speriamo di non finire presto dalla padella nella brace.
Se dovessi dunque dare un consiglio ad un giovane che vuole valutare quello che sta accadendo, direi: aspetta, abbi pazienza, non farti prendere la mano. È facile, nell’emozione del momento, farsi trascinare nella faida, tirar fuori la bandiera israeliana o quella palestinese e dimenticarsi di tutto quello che ci sta dietro. Cerca di capire le complicazioni che stanno dietro alle cose, e che alle faccende complesse non c’è una soluzione semplice.
Questo non vuol dire rimanere indifferenti davanti alla distruzione, alla morte, alla sofferenza. All’ipotetico giovane direi: fai pressione, per quanto in tuo potere, sui nostri stati (l’Italia, l’Europa) perché trovino una soluzione che salvi i civili, che preservi il diritto internazionale, che calmi gli animi, che porti l’equilibrio nella zona. Fai donazioni a qualche saggia organizzazione umanitaria, dai sostegno e aiuto a chi cerca di salvare il salvabile. E non farti abbindolare da chi, facendo leva sulla tua indignazione, cerca solo – ancora una volta – di perseguire i propri interessi.
Quello che ho registrato e pubblicato
Ed ora, ecco la solita panoramica su tutti i video e i podcast che ho pubblicato questa settimana:
Riforma e Controriforma in un’ora: un grande riassunto di un periodo storico fondamentale, quello di Lutero, Calvino e del Concilio di Trento
Filosofia e società in Zootropolis: un’analisi dei temi presenti e accennati nel film della Disney che riscosse un certo successo qualche anno fa
Corso di logica 11 - Le regole di congiunzione e semplificazione: un altro passo avanti nel nostro percorso di logica, con due nuove regole di inferenza
Il cogito cartesiano (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
La Guerra di Secessione americana (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
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Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Le guerre jugoslave di Joze Pirjevec: la storia delle guerre jugoslave è una delle più ingarbugliate dell’età contemporanea (meno di quella israelo-palestinese, ma comunque ingarbugliata), ma è anche una di quelle che vale la pena conoscere. Io in passato sulla questione ho fatto un video, ma se volete approfondire questo è forse il libro migliore sulla piazza: recente, aggiornato e molto equilibrato, racconta in dettaglio gli eventi, dandovi comunque una visione globale. E tra l’altro ve lo portate a casa con meno di 20 euro. Se vi interessa, potete acquistarlo qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
Concludiamo, infine, con una serie di anticipazioni su quello che dovrei riuscire a preparare per voi nei prossimi giorni. Questi i video e i podcast in programma:
mercoledì dovrei far riuscire a far uscire un video intitolato “Etica dell’intelligenza artificiale”, su temi – com’è facile intuire – molto attuali;
giovedì uscirà poi un altro video, credo della serie dedicata alla mia “anti-filosofia”;
venerdì potrebbe poi arrivare un video del ciclo “Tutto un filosofo in un’ora”, dedicato però alla scuola dei sofisti;
in uno di questi giorni, infine, ci sarà spazio anche per il Club del Libro dedicato a 1984 di George Orwell, come vi ho già anticipato;
per quanto riguarda poi i podcast, arriveranno puntate su Cartesio e Dio, sul versante filosofico, e sugli Stati Uniti e il Giappone, sul versante storico.
E di nuovo siamo così arrivati alla fine di questa lunga newsletter. Godetevi il riposo del 1° novembre, non fate troppa baldoria ad Halloween (né troppa paura ai bambini) e ci rivediamo qua tra sette giorni esatti, puntuali.