Che cos'è la cultura, partendo da Uto Ughi e i Maneskin e passando per The Fabelmans, Dark, Fantozzi, Uncharted, Adriano Olivetti, Wu Ming, Primo Levi, Democrito e il Brasile
Questi primi giorni del nuovo anno sembrano contrassegnati per me soprattutto dai numeri tondi tondi. Solo la settimana scorsa, infatti, vi parlavo del fatto che il canale YouTube ha raggiunto la magica cifra di 50.000 iscritti, ma già oggi devo rilanciare con un altro numero simile: sempre il canale YouTube ha raggiunto anche i 1.000 video caricati.
1.000 video, a pensarci bene, sono proprio tanti: dentro c’è di tutto, il frutto di tre anni di lavoro – come potete immaginare – piuttosto intenso. Fate conto, solo per darvi qualche altra cifra, che di questi 1.000 video…
278 in realtà sono podcast (di storia o di filosofia);
229 sono contenuti nella playlist Corso di filosofia;
220 sono contenuti nella playlist Corso di storia;
39 sono contenuti nella playlist Corso di educazione civica;
30 sono dirette;
80 sono contenuti nella playlist Book Club storico-filosofico;
25 nella rubrica Video Club storico-filosofico;
e tutti gli altri appartengono a temi più variegati.
Insomma, fin qui è stato un lungo cammino. E non si interrompe, visto che in realtà la quota 1.000 l’abbiamo superata già di slancio (al momento in cui scrivo siamo a 1.003, perché di video ne esce almeno uno al giorno). Quindi festeggiamo, anche oggi.
Prima però di mettere da parte i numeri e cominciare col nostro solito giro tra libri, film e riflessioni, permettetemi di ricordarvi anche una data: venerdì prossimo sarà il 27 gennaio, anniversario della liberazione di Auschwitz e Giorno della Memoria. Usiamolo per ricordare sicuramente le vittime dell’Olocausto, ma anche per accorgerci del fatto che purtroppo i genocidi e i crimini di guerra non sono solo retaggio del passato, ma segnano anche il mondo attuale.
E ora, davvero, cominciamo.
Quello che ho letto
Partiamo come sempre dalle letture: questa settimana ho continuato (e portato abbastanza avanti) due libri di cui vi avevo già parlato nelle settimane scorse e ne ho cominciato un nuovo. Vediamoli.
Ufo 78 di Wu Ming: questo è l’unico romanzo della lista, ma mi sta catturando abbastanza. Il tema, di per sé, non è uno di quelli che di solito mi affascina particolarmente: i Wu Ming infatti in questo libro hanno deciso di indagare la “sottocultura”, chiamiamola così, degli appassionati di ufologia alla fine degli anni '70. Non ho ancora capito con questo dove vogliano andare a parare: sospettavo, all’inizio, che volessero sfruttare il tema nerd per parlare della fine della politica attiva delle masse in Italia, del disincanto seguito agli anni del terrorismo o di qualcosa del genere; invece mi pare che per ora – e ho già quasi letto un centinaio di pagine – si rimanga ancora molto legati alla trama in sé e per sé: c’è questo scrittore di fantascienza, Martin Zanka, vagamente ispirato a Peter Kolosimo, autore di diversi best-seller negli anni '70; ci sono gli appassionati torinesi di Ufo, studiati da una sociologa mentre si dirigono verso Roma per un convegno; c’è il figlio di Zanka, un ex tossicomane recuperato da una strana comunità esoterico-femminista. La politica la si annusa, per ora, solo di striscio. Vedremo se a Roma, al convegno di ufologia, accadrà qualcosa. Intanto, se vi interessa, il libro lo si compra qui.
Adriano Olivetti di Paolo Bricco: da tempo ho una sorta di abboccamento con la storia della Olivetti e dei suoi fondatori. Un po’ perché la figura di Adriano Olivetti – intellettuale strano e stranito, originalissima figura di imprenditore e (quasi) filosofo – mi incuriosisce da diversi anni, e ancora di più da quando ho letto Lessico famigliare di Natalia Ginzburg; un po’ perché da qualche mese qui a Rovigo stanno cercando di organizzare un piccolo evento legato alla storia della Olivetti, e mi hanno coinvolto nella sua realizzazione. Questo evento, dopo alcuni imprevisti e riorganizzazioni, verterà soprattutto sulla presentazione con l’autore del volume Adriano Olivetti. Un italiano del Novecento, scritto dal giornalista economico Paolo Bricco, che lavora a Il Sole 24 Ore. Visto che, tra le altre cose, dovrò dialogare con lui sull’argomento, mi son messo di buona lena a leggere il corposo saggio che l’anno scorso Bricco ha dedicato all’imprenditore piemontese, pubblicato da Rizzoli. Sono tutto sommato ancora nelle prime fasi dell’opera, ma devo dire che finora la lettura è interessante: Bricco non racconta solo le questioni familiari degli Olivetti (dal padre, Camillo, a suo figlio, Adriano), con buon uso anche delle fonti e dei documenti storici, ma cerca di ricollegarli ai più grandi eventi che attraversavano in quegli anni l’Italia. Così, non c’è solo Adriano che parte per il militare, che scrive sui giornali finanziati dal padre, che si laurea e inizia a lavorare in fabbrica; ma c’è tutto il contesto della Prima guerra mondiale, del socialismo diviso tra interventismo e neutralismo e tra rivoluzione e riformismo; c’è l’emergere del fascismo, c’è il tessuto sociale ed economico dell’Italia d’allora; c’è perfino il confronto con altri giovani e promettenti intellettuali piemontesi (di nascita o d’adozione) destinati però a una fine ben diversa da quella di Adriano Olivetti, come Piero Gobetti e Antonio Gramsci. Insomma, mi pare un libro bello per gli appassionati delle biografie e del mondo imprenditoriale italiano, ma anche per gli appassionati di storia. Ne parleremo ancora. Intanto, lo si acquista qui.
Titanic di Vittorio Emanuele Parsi: il libro di Vittorio Emanuele Parsi l’ho ormai quasi terminato, a tempo di record. Come vi scrivevo nelle scorse settimane, è un saggio introduttivo alle varie dinamiche della politica internazionale e, proprio per questo motivo, chi come me per motivi di studio e lavoro già conosce almeno la maggior parte di quelle questioni lo può leggere senza alcuna difficoltà, velocemente. Questo però non rende il libro meno riuscito: Parsi ha il pregio di saper comunicare in maniera molto efficace e di saper mettere ordine in mezzo al disordine. Così il suo saggio, pur senza essere nulla di trascendentale, permette di ricapitolare tutte le situazioni che vale la pena di tener presenti e di fotografare, a colpo d'occhio, le varie fratture di quello che lui chiama “l'ordine liberale”. Ovvero di quel sistema che è stato messo in piedi alla fine della Seconda guerra mondiale, che sembrava ormai vincente e inattaccabile ma che invece negli ultimi venti o trent’anni è entrato prepotentemente in crisi, soprattutto per la volontà di alcuni soggetti – come la Cina, la Russia e in parte certe forze interne agli stessi Stati Uniti – di ridefinire quell'ordine, non per forza con l’intento di migliorarlo. Per farla breve, il libro l'ho ormai quasi completato e spero già la settimana prossima di tirare le somme in modo definitivo, così da darvi una valutazione complessiva del suo valore. Lo si può comprare qui.
Quello che ho visto
Ed ecco ora anche i film della settimana. Come noterete, due sono recenti o addirittura recentissimi, mentre un altro (il primo) è un classico che, nel bene e nel male, avrete già visto tutti mille volte, ma di cui vale la pena parlare un’altra volta.
Fantozzi (1975), di Luciano Salce, con Paolo Villaggio, Anna Mazzamauro, Gigi Reder: il primo capitolo della lunga saga creata negli anni '70 da Paolo Villaggio l’avrete visto, di sicuro, decine di volte; anch’io confesso di conoscere alcune scene quasi a memoria, un po’ perché quand’ero ragazzo passare attraverso i film di Fantozzi (soprattutto i primi due o tre, i migliori) era in un certo senso un rito obbligatorio, un po’ perché si tratta di quelle pellicole che una volta o l’altra ai tuoi figli devi far vedere, più che altro perché capiscano il significato di espressioni entrate ormai nel linguaggio comune, come il «vadi lei», il «supermegadirettore galattico», la «nuvola dell’impiegato», le visioni mistiche, il tram preso al volo e altro ancora. Non serve che sia io, quindi, a raccontarvi cosa c’è di interessante in questo film; ma una parola, una sola, vorrei spenderla per lo spaccato dell’Italia che emerge da quella pellicola e dai suoi primi seguiti: un’Italia in cui il ceto impiegatizio iniziava a crescere, schiacciato tra un padronato (che si presentava come attento alle istanze sociali, ma in realtà più che altro in toni sentimentali e poco pratici) e una lotta di classe che in realtà non gli apparteneva, in uno squallido grigiore fatto di relazioni extraconiugali spesso solo sognate, di routine inutili, di aspirazioni irrealizzate. Nonostante gli anni, un film che, al netto di alcune esagerazioni, ha ancora senso guardare, per ridere con tristezza su un’Italia piccola e meschina che non è cambiata poi molto. Lo trovate su Netflix.
The Fabelmans (2022), di Steven Spielberg, con Gabriel LaBelle, Michelle Williams, Paul Dano: nei giorni scorsi sono andato a vedere l’ultimo film di Spielberg al cinema con mia moglie, sfruttando una delle poche serate libere dagli impegni familiari. L’idea non era di per sé legata al film del regista americano, film sul quale avevo letto poco e distrattamente, quanto semplicemente al desiderio di uscire: non dico che una pellicola valeva l’altra, ma non mi sono insomma recato in sala perché avevo grandi aspettative su The Fabelmans. Devo dire però che, a posteriori, ne è valsa ampiamente la pena: la pellicola è una delle migliori della carriera di Spielberg, sicuramente quella più intima e personale visto che racconta sostanzialmente la sua infanzia e la sua adolescenza, da quello che capisco in modo molto fedele alla realtà storica e solo con qualche piccolo aggiustamento (sono stati cambiati i nomi dei personaggi, si è modificato qualche episodio ma poco più). Per un regista del genere, un film di questo tipo poteva essere un azzardo: Spielberg, com’è noto, rende al meglio con le storie cariche d’azione o quantomeno in cui i sentimenti vengono mescolati a colpi di scena, inseguimenti e grande tensione. Un film in tono minore, giocato sulla psicologia dei personaggi, poteva essere rischiosissimo; e invece devo dire che l’autore dei vari Indiana Jones e di Jurassic Park ha fornito proprio una prova maiuscola, in cui dramma ed ironia si mescolano sapientemente, in cui il ritratto familiare che emerge non è per nulla edulcorato e in cui si intravedono anche barlumi di grande cinema. Tra le cose che più ho amato, segnalo la figura dello strano zio proveniente dal mondo del circo, ottimamente interpretato da Judd Hirsch; la costante prova d’amore per il cinema, e meglio ancora per il linguaggio cinematografico, che emerge praticamente lungo tutto il film; e infine la scena finale, con i consigli di regia di John Ford immediatamente applicati nell’ultima inquadratura. Se lo trovate ancora al cinema, andatelo a vedere perché ne vale la pena.
Uncharted (2022), di Ruben Fleischer, con Tom Holland, Mark Wahlberg, Antonio Banderas: nei giorni scorsi mia figlia, che fa la seconda media, ha dovuto preparare una presentazione in inglese su un personaggio famoso a sua scelta: come si fa spesso in questi casi, doveva descriverne l’aspetto fisico, la carriera e spiegare – ovviamente sempre in inglese – per quale motivo l’aveva scelto. Lei, dopo qualche tentennamento, ha optato per Tom Holland, l’ultimo interprete di Spider-Man, un attore che le sta (giustamente) abbastanza simpatico. E mentre mi ripeteva il discorsetto in inglese, ci siamo resi conto che non avevamo ancora visto l’ultima fatica del giovane interprete britannico, ovvero Uncharted, disponibile su Netflix. Abbiamo recuperato qualche sera fa, assieme a tutto il resto della famiglia, vedendoci catturati dalle scene d’azione di una pellicola che, ho scoperto, è pure tratta da un videogioco (quindi l’adrenalina era scontata). La trama è molto semplice: il giovane ladro Nathan viene reclutato dal più esperto Sully per aiutarlo a ritrovare un leggendario tesoro recuperato a suo tempo da Megallano e da secoli andato perduto. Nel tentare di realizzare il loro progetto, i due dovranno affrontare altri ladri più o meno spietati e più o meno traditori, oltre ad un ricco imprenditore spagnolo che ritiene che il tesoro gli appartenga di diritto. In generale, a dominare sono le scene di corsa, di inseguimenti, di caduta da aerei in volo, di quasi affogamento, in una sorta di Indiana Jones contemporaneo – per rimanere in tema con Spielberg – ma molto più veloce e inverosimile. In generale il film riesce insomma a trasmettere una certa urgenza, ma mi pare che a lungo andare esageri con le peripezie e l’effetto di sorpresa finisca per perdersi all’interno di un film fin troppo esagitato. Come detto, lo trovate su Netflix.
Quello che ho pensato
In questi giorni forse avrete visto sui giornali o online l'ultima polemica che ha coinvolto i Måneskin, celeberrimo gruppo rock italiano che ha appena fatto uscire il suo ultimo lavoro, Rush! Ad attaccare la band, almeno questa volta, non sono stati però i soliti benpensanti, quanto piuttosto il grande violinista Uto Ughi, che stando ai titoli scelti dai giornalisti ha insistito sul fatto che la musica di questa band sia tutto fuorché arte (anzi, le parole esatte sembra siano state: «I Måneskin sono un insulto alla cultura e all’arte»).
Non mi sono occupato della polemica, che mi interessa in realtà molto poco (e penso che anche ai Måneskin interessi quasi nulla dell’opinione di Ughi), ma la lettura di quel titolo mi ha fatto scattare una riflessione più ampia sull'arte e, ancora di più, sulla cultura che vorrei condividere con voi. Per tutta una serie di motivi mi sono cioè trovato a chiedermi: che cos'è la cultura? E quando si può dire che un'opera sia culturalmente valida e rilevante?
Il rock è cultura? Tutto o solo quello di alcune band? L’ufologia di cui si parla in Ufo 78 dei Wu Ming e di cui abbiamo parlato anche noi prima è cultura? O sottocultura? Ed eventualmente che differenza c’è tra cultura e sottocultura? E i video su YouTube in cui si parla di filosofia e di storia sono cultura? Come vedete, il tema mi può toccare anche molto da vicino.
Ovviamente, però, bisogna fare qualche precisazione preliminare. In primo luogo notare che “arte” e “cultura” non sono esattamente la stessa cosa. Per non aprire una questione che potrebbe tenerci qui per centinaia di pagine, mettiamo allora subito da parte l’arte (di cui casomai parleremo altrove, in un altro momento) e concentriamoci solo sulla cultura.
Riflettendoci un po' su e anche affidandosi agli studi di antropologia e sociologia, bisogna poi ammettere che non è affatto facile definire con precisione e in maniera univoca cosa sia la cultura. L'etimologia, che costituisce una passione sfrenata di alcuni filosofi e che però in realtà di solito non mi attrae particolarmente, riconduce il termine alla "coltivazione": tutto ciò che coltiva la mente e lo spirito di una persona, in questo senso, potrebbe dirsi cultura.
In questo modo però mi pare che la definizione sia ancora troppo generica e vaga, bisognosa di ulteriori chiarificazioni. Cosa significa "coltivare" la mente? Farla crescere? Riempirla di dati ed informazioni?
Ad esempio, imparare a memoria una serie di date importanti della storia sarebbe un'operazione culturale? Di per sé, forse direi di no. Il nozionismo non è cultura, anche se in parte ha a che fare con la cultura. Mi vien da pensare, piuttosto, che la cultura parta dai dati, dalle informazioni, ma poi ci aggiunga sempre almeno qualcosa.
Anche perché coltivare, nel senso più proprio del termine, non significa solo seminare qualcosa, ma anche farla crescere: significa occuparsi delle piante, innaffiarle, proteggerle dai parassiti e infine, quando sono mature, passare a raccoglierne il frutto. Il memorizzare, al massimo, può costituire dunque, in questa metafora, una parte dell'operazione, se vogliamo quella preliminare: la semina. Ma la cultura è tutto quello che si riesce a far nascere da quella semina.
Questo ci porta forse alla parte più intrigante della riflessione. Qualcosa deve svilupparsi, una volta che è stato seminato; qualcosa deve in qualche misura crescere. Ogni operazione culturale, dunque, deve lavorare proprio come un seme: qualcosa che entra dentro all'osservatore e poi però, quasi in completa autonomia, comincia a svilupparsi, a crescere e a diventare molto più grande di come era da principio. Penso che la buona cultura funzioni in effetti così. E allora si tratta di trovare una definizione che, senza far troppo uso di metafore, includa ciò che lavora in questo modo ed escluda ciò che invece non cresce, e anzi si spegne subito.
Azzarderei una definizione di questo tipo: la cultura è tutto ciò che produce in noi una riflessione nuova su cosa sia il mondo. Detta in altri termini, è cultura tutto ciò che ci spinge a ripensare al modo in cui interpretiamo la realtà, al modo in cui interpretiamo i rapporti umani e politici, al modo in cui interpretiamo anche noi stessi. In pratica, è cultura tutto ciò che ci mette in discussione.
In questo senso sicuramente le grandi opere letterarie fanno cultura, perché ci mostrano un mondo con cui siamo chiamati inevitabilmente a fare i conti. Pensate, ad esempio, alla Divina Commedia di Dante: qualunque ragazzo che l'abbia studiata sa che il modo in cui Dante colloca i peccatori nei vari gironi dell'Inferno ci spinge a chiederci se siamo d'accordo con lui, quale giudizio morale diamo alle diverse azioni compiute dai peccatori. Dante ci costringe insomma a fare i conti col peccato, col bene e col male. Da questo punto di vista, mi sentirei addirittura di affermare che l'Inferno sia culturalmente più rilevante del Purgatorio e del Paradiso, perché la seconda e terza cantica stimolano quasi sempre nei ragazzi meno riflessioni della prima.
Allo stesso modo I promessi sposi di Manzoni, per quanto opera indubbiamente di altri tempi, continuano a spingerci a chiederci cosa avremmo fatto noi nei panni di Don Abbondio, come ci saremmo comportati davanti agli untori e più in generale se quei rapporti di potere avessero un senso oppure no. Quando ci mostra Azzeccagarbugli, Manzoni ci insegna come funziona la legge e ci chiede di rifletterci sopra; quando ci parla dei vasi di coccio tra i vasi di ferro, ci insegna la vita. Cioè ci spinge a ripensare alla nostra stessa vita, oggi, lontani anni luce dalla Milano del Seicento.
Come diceva in un certo senso anche Italo Calvino, i classici sono classici perché non hanno mai finito di dirci quello che avevano da dirci; io direi, ancora di più, che la cultura è cultura perché non ha mai finito di farci delle domande. Quando dico che la cultura ci porta a ridefinire il modo in cui vediamo la realtà, intendo proprio questo: che ci pone delle domande, costantemente.
Questo ovviamente vale poi anche per la filosofia e la storia, le materie di cui noi ci occupiamo particolarmente, perché ogni filosofo, anche il più assurdo o quello con cui condividiamo meno idee, ci costringe ad affrontare certi discorsi, a volte metafisici, a volte gnoseologici, a volte politici, che ci portano a rimettere in discussione l’esistente o quello che ci appare scontato.
Non per forza i filosofi ci fanno cambiare idea, ma in un certo senso, grazie allo scontro che ci chiamano a sostenere, ci permettono di approfondire le nostre convinzioni. E, come anticipato, un discorso estremamente simile si può farlo anche con la storia, che, con i fatti reali che sono accaduti, ci obbliga a fare i conti non solo con le idee ma anche con i modi in cui quelle idee si sono concretizzate.
Infine, pure l'arte rientra facilmente nel campo della cultura perché l'arte, quando è vera arte, non ci lascia indifferenti, ci trasmette un’inquietudine, una sorta di punto interrogativo, anche solo degli squarci di consapevolezza che sono sempre frutto della domanda che quell'opera ci pone. Pensate proprio a un quadro come a un punto di domanda: la cultura è questo, il porre cioè dei quesiti che alla fine non riguardano solo te ma il rapporto tra te e la realtà.
Ovviamente questo non significa che tutta l'arte o tutti i manufatti umani siano cultura: esistono quadri che non sono in grado di porre veramente domande, così come esistono romanzi e film e forse addirittura fasi storiche che non ci pongono interrogativi. Pensate ad esempio ad un film estremamente banale e scontato, in cui ogni aspetto della realizzazione, dai personaggi alla sceneggiatura fino anche alle inquadrature e al montaggio, siano estremamente scontati, prevedibili, già visti in mille altre opere: un film di questo tipo – e sul mercato ce ne sono parecchi – di sicuro non potrebbe essere definito un prodotto culturale, perché si lascia guardare senza stimolare nulla che vada oltre se stesso. Dopo averlo visto non ci rimane in mente alcuna domanda, non siamo minimamente costretti a fare i conti con noi stessi o con il nostro partner o con nostro figlio o con la nostra società. Al massimo si può parlare di intrattenimento e nulla più, di un modo per far scorrere via due ore senza pensare a nulla.
Ma non fermiamoci, facciamo qualche altro esempio. Proviamo a pensare al calcio. Esso rappresenta un'operazione culturale? La risposta che, sulla base di quello che ci siamo detti finora, mi pare più sensata è che dipende: di per sé una brutta partita di calcio, in cui le squadre giocano male, in cui gli schemi sono i soliti triti e ritriti che si vedono utilizzare mille volte, potrebbe costituire un puro intrattenimento, magari anche di qualità non particolarmente elevata. In quel caso, dunque, non vedo come la partita di pallone possa essere definita cultura.
Ci sono dei casi, però, in cui il calcio e lo sport in generale fanno una sorta di salto di qualità e si trasformano, sì, in cultura. Pensate a un giocatore che, col suo modo di correre o di interpretare il gioco, lo rivoluziona, o porta, come a volte accade nel calcio sudamericano, sul campo anche la sua storia personale, il suo passato, il suo emergere dalle favelas e dalla povertà. In quel caso, vedere giocare Pelé o Maradona diventa cultura, oltre che a volte una sorta di opera d'arte. Il modo in cui Messi vede il gioco ti fa pensare che forse esistono geometrie diverse, che forse si può pensare in anticipo al movimento dei giocatori, che forse si può prevedere quello che stanno per fare gli altri; acquisisci cioè nuove conoscenze sulla realtà, su cose che prima non concepivi o non pensavi possibili.
Allo stesso modo, vedere Maradona che segna di mano all’Inghilterra ti porta a chiederti che cosa quel gesto rappresenti per una nazione, perché quel gesto tiri in ballo persino Dio e per quale motivo entri nella storia: la mano de Dios è, insomma, forse l’operazione più smaccatamente culturale del 1986, perché con un semplice colpo di mano ti porta nella testa domande sulla società, sulla politica, sulla guerra e sulla speranza di mezzo continente.
Gli stessi discorsi però valgono anche per il giornalismo sportivo, ad esempio. Quel tipo di giornalismo può essere estremamente banale, magari una semplice e spoglia cronaca di una partita che quindi non crea cultura; ma esiste anche una lunga tradizione il giornalismo sportivo che riesce, tramite il racconto di una partita, a porre domande più grandi sull'uomo, sulla società, sullo sport stesso; domande che sono quindi culturali. Pensate a come scriveva Gianni Brera, a come scriveva Osvaldo Soriano, a come scriveva Eduardo Galeano, e vi renderete conto che la cultura si può trovare anche sulle pagine di un giornale come La Gazzetta dello Sport.
Dunque, alla fine dei conti, i video su YouTube sono cultura? Se riescono a stimolare una riflessione, credo di sì. I video su TikTok sono cultura? Idem. È chiaro che la maggior parte dei video su internet sono puro intrattenimento: li guardate e il vostro cervello non è costretto a nessun lavoro di comprensione o interpretazione, né – orrore! – di riflessione autonoma; ma non è sempre così, e ci sono video diversi dagli altri.
E i Måneskin, sono cultura? Ma io, contrariamente a quanto pensa Uto Ughi, oserei dire di sì: non li conosco così a fondo da darne un giudizio completo, ma alcuni spunti di riflessione, nelle loro canzoni, ci sono. Non saranno originalissimi, e son d’accordo; non saranno cultura alta che ti pone le grandi domande esistenziali, e son d’accordo pure su questo; ma un minimo di valore culturale possono averlo. D’altronde, sono anche ragazzi: hanno tutta la vita per migliorare, eventualmente, dal punto di vista culturale (col rock, invece, pare se la cavino già benino).
Quello che mi dispiace della boutade di Ughi è un po’ la spocchia, per cui a volte si è portati ancora a ritenere che la cultura, quella vera, sia solo quella classica, sia solo quella alta, sia solo il violino e poco altro. Io, che ho avuto la fortuna di studiare sia la cultura alta (perfino quella musicale, al Conservatorio) che quella bassa, credo di poter dire che le grandi domande sul mondo e sulla vita emergono ovunque, in un brano rock (se ben scritto e ben eseguito) e in una sinfonia (se ben scritta e ben eseguita, altrimenti anche quella fa cilecca); e che ascoltare l’una non esclude l’altra.
Quello che ho registrato e pubblicato
Ed ora spazio a tutti i video e ai podcast usciti nell’ultima settimana.
Speciale 50.000 iscritti - Storia e prospettive del canale YouTube: una diretta (che si può rivedere quando si vuole) per festeggiare un bel traguardo raggiunto
Rawls: giustizia e liberalismo: il secondo video dedicato al pensiero politico di Rawls, in cui entriamo nel dettaglio
Storia del Brasile dal 1889 al 1946: per capire quello che sta accadendo in Brasile in queste settimane, bisogna partire da lontano
Democrito e i suoi atomi [Filosofia per ragazzi 9]: nuova puntata del percorso filosofico per ragazzi in cui introduciamo il materialismo
L’etica e la politica di Guglielmo di Ockham (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
La scuola occamista (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Il completamento dello stato moderno (per il podcast “Dentro alla storia”)
Dark, il tempo e la libertà
@scrip79Dark è una serie di qualche anno fa, disponibile su Netflix, che pone interessanti interrogativi filosofici: qual è la natura del tempo? E della nostra libertà? Eccone i riferimenti principali #dark #filosofia #netflix #tempo #libertà #fantascienza #viaggineltempo #destino
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Enable 3rd party cookies or use another browserParasite e la dialettica servo-padrone di Hegel
@scrip79Parasite è un film che parla di molti aspetti della nostra società e della vita, ma ci ricorda anche alcuni elementi della filosofia hegeliana. Vi spiego, brevemente, quali #hegel #filosofia #parasite #cinema #fenomenologiadellospirito #marx
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Quello che devi fare per seguirmi sui social
Visto che ci siamo (e come sta diventando abitudine) vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
Il canale YouTube | Instagram | Facebook | Twitter | TikTok
Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono i nuovi abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri e videocorsi che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Se questo è un uomo di Primo Levi: il libro che questa settimana ho scelto per la vostra biblioteca storico-filosofica è probabilmente il più scontato che potessi scegliere, ma anche il più necessario. Tra pochi giorni, come vi ho scritto anche sopra, ricorre infatti l’anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz (la Giornata della Memoria), e mi sono accorto che non vi avevo ancora proposto il libro più celebre su questo tema, il capolavoro di Primo Levi intitolato Se questo è un uomo. Se siete appassionati di storia e di vicende umane, probabilmente l’avete già letto, ma questa potrebbe essere l’occasione giusta per regalarlo a un vostro amico o parente più giovane, perché la memoria va sempre coltivata. Lo si acquista qui.
Introduzione a Notion per progetti creativi: Notion è una delle app del momento; sostanzialmente gratuita, permette di creare delle note che non sono semplici note, ma interi database in cui catalogare tutto quello che ci salta in mente. Certo, le funzioni sono molte e bisogna saperle usare, se le si vuole sfruttare appieno. E qui arriva, proprio a tal proposito, un bel corso proposto da Domestika per imparare ad usare Notion soprattutto per quanto riguarda i progetti creativi. Solo per farvi un esempio, anch’io mi sono a lungo basato su questa app per organizzare i miei video: imparare ad usarla potrebbe davvero esservi utile. Il corso costa 19,99 euro, è composto da 17 lezioni e può essere acquistato qui.
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né fare corsi, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
E chiudiamo, infine, con la solita panoramica su quello che bolle in pentola per i prossimi giorni:
dovrebbe presto uscire un nuovo video di storia romana, sempre incentrato sulla crisi del III secolo;
arriverà poi la seconda puntata sulla storia del Brasile, in cui tratteremo anche di anni recenti;
forse faremo in tempo anche a realizzare il terzo video su Rawls e magari un nuovo video della serie Grandi filosofi in un’ora (anche se non ho ancora deciso in maniera definitiva su chi incentrarlo);
infine, per quanto riguarda i podcast, parleremo di romanticismo, nazionalismo e liberalismo in storia e (credo) di Meister Eckhart in filosofia.
E questo è tutto. Ricordatevi della Giornata della Memoria, leggete e studiate (e guardate pure qualche video, suvvia) e ci vediamo sempre qui tra sette giorni esatti. Ciao!
" la cultura è tutto ciò che produce in noi una riflessione nuova su cosa sia il mondo. Detta in altri termini, è cultura tutto ciò che ci spinge a ripensare al modo in cui interpretiamo la realtà, al modo in cui interpretiamo i rapporti umani e politici, al modo in cui interpretiamo anche noi stessi. In pratica, è cultura tutto ciò che ci mette in discussione." Da questo si deduce che dovremmo collocare fuori dalla cultura la religione e la teologia , che sono dogmatici per loro fisiologica attitudine .