Che cos'è questa fantomatica età della tecnica, parlando anche di Vattimo, Galimberti, Nietzsche, Kierkegaard, Dio di illusioni, La battaglia dei sessi e Vittorio Emanuele Parsi
Buongiorno e ben trovati. Come state? Spero bene.
Prima di cominciare con il nostro solito tran tran, devo dire che mi fa molto piacere sapere che questa newsletter viene letta e suscita qualche riflessione in molti degli iscritti. Quando ho iniziato questo progetto non ero affatto sicuro che l'idea di una mail settimanale così corposa potesse aver senso: da un lato infatti è piuttosto complesso prepararla, come potete facilmente immaginare vista la gran mole di informazioni che ci metto dentro; dall'altro, mi sono subito chiesto se un testo così lungo non fosse eccessivo, non chiedesse cioè troppo al lettore, che è già preso di per sé da mille occupazioni e non ha forse il tempo per dedicare decine di minuti alla lettura di una email.
In parte le mie preoccupazioni erano chiaramente fondate, perché di sicuro tra le molte migliaia di iscritti ci sono anche persone che non leggono con costanza questi scritti o ne sorbiscono solo alcune parti, e questo è comprensibile e anche in fondo sensato. Però, appunto, nelle ultime settimane sono rimasto sorpreso nello scoprire che in realtà c'è una buona quota di iscritti che queste mail le legge anche con una certa attenzione, ricordando a volte addirittura meglio di me quello che vi è scritto o i riferimenti che io stesso faccio.
Solo per fare un paio di esempi, lo scorso venerdì ho partecipato ad una cena con alcuni miei ex studenti, quelli della generazione Covid, che hanno in un certo senso cercato adesso di recuperare la loro “cena di fine anno” che non poterono organizzare nel giugno 2020: proprio lì mi sono reso conto che studenti che sono stati miei allievi prima che il canale YouTube prendesse quota continuano in qualche misura a seguirmi sul web e qualcuno appunto legge anche, sporadicamente, questa corposa mail. L'altro esempio invece risale a ieri sera, quando ho tenuto su YouTube una diretta dedicata al tema dei reati e delle pene (la potete recuperare qui), in cui mi sono imbarcato ad un certo punto in un discorso che mi pareva di aver già fatto da qualche parte, ma che non riuscivo a ricordare esattamente dove; e però nella chat è subito comparso qualcuno in grado di ricordare meglio di me che quei temi li avevo affrontati appunto proprio nella newsletter.
La cosa ovviamente mi fa piacere, soprattutto perché mi dà l'idea che il percorso che stiamo facendo insieme sia un percorso strutturato, fatto di tanti tasselli che un po' alla volta vanno a comporre un quadro unitario. In più tutto questo si ricollega anche al tentativo che sto facendo di ampliare ed allargare il discorso, coinvolgendo anche almeno una parte di voi in attività interattive: proprio in questa settimana appena conclusa, ad esempio, si è svolto il primo Simposio filosofico online, un incontro cioè in cui, con una manciata di abbonati dei livelli più alti, abbiamo provato a discutere di un tema filosofico anche piuttosto impegnativo, quello del rapporto tra linguaggio e realtà.
A mio parere quel primo incontro è stato molto stimolante ed interessante, anche se ovviamente c'era un po' di “ruggine” iniziale da sciogliere, dovuta al fatto che non eravamo molto abituati a gestire interazioni di questo tipo; ma conto che i prossimi appuntamenti andranno perfino meglio, e a tal proposito vi ricordo che ad inizio ottobre ci sarà anche il primo appuntamento del Club del libro, sempre online, sempre per gli abbonati (questa volta dal livello Roosevelt in su).
Prima di lasciare spazio ad altro, infine, devo però assolutamente spendere anche due parole su due persone di rilievo e di peso che ci hanno lasciato nei giorni scorsi: Gianni Vattimo e Giorgio Napolitano. Il primo è stato un importantissimo filosofo italiano, e gli ho già dedicato un video, che trovate più avanti: spero vi aiuterà a recuperare il suo pensiero e vi spingerà, magari, ad approfondirlo tramite qualcuno dei suoi libri. Del secondo – due volte Presidente della Repubblica e politico di lungo corso – invece proverò a parlare, se tutto va bene, nei prossimi giorni, in un video apposito; quindi restate sintonizzati.
Ma adesso passiamo, come d’obbligo, alle cose più attese, e cioè ai libri, ai film, ai video, ai podcast e alle riflessioni. Cominciamo.
Quello che ho letto
Iniziamo come al solito dai libri. Come noterete questa settimana non ho portato a termine nessun volume, ma anzi per una serie di motivi mi sono visto costretto a cominciarne addirittura un altro (come se non bastassero quelli già ammassati sulla mia scrivania).
Dio di illusioni di Donna Tartt: continua, per la verità a ritmi un po' blandi, la lettura di Dio di illusioni, che ci fa compagnia ormai da parecchie settimane. Come già anticipavo le volte scorse, da un po' sono ormai in prossimità della fine, ma non riesco ancora a portare a compimento la lettura di questo romanzo perché appunto altri libri mi stanno momentaneamente “distraendo”. D'altronde devo anche dire che gli eventi clou della trama sono tutto sommato già accaduti: il “fattaccio” centrale che l'autrice si era preoccupata di preannunciarci fin dall'inizio è di fatto già avvenuto e anche le conseguenze di quel fattaccio ormai mi sembrano pienamente dispiegate. Verrebbe da dire che manchino solo i saluti finali, ma la Tartt sembra non volerli ancora fare arrivare, non so se per la volontà di regalarci un ultimo colpo di scena o solo per allungare indefinitamente il brodo. Vedremo, e soprattutto vedremo se riuscirò a concluderlo in tempi rapidi. Vi lascio solo con un’ultima suggestione: in questi giorni una lettrice che l’ha già finito ha provato a suggerirmi l’idea che tutto il libro non sia altro che una grande parodia del mondo universitario americano, e forse addirittura in generale dei giovani statunitensi. Questa interpretazione, che nobiliterebbe un po’ il libro, mi pare però un po’ azzardata, nel senso che la mia impressione è che certo i protagonisti siano un po' borderline, ma che non ci sia nel tono dell'autrice l'intento di ironizzare più di tanto su di loro, quanto piuttosto ci sia il desiderio di prenderli abbastanza sul serio e usare queste loro stranezze a fini puramente narrativi. Non lo so: voi, se l’avete letto, cosa ne pensate? In ogni caso, se vi interessa e non l’avete ancora affrontato, potete acquistarlo qui.
Al di là del bene e del male di Friedrich Nietzsche: come ho raccontato più volte, a inizio ottobre si terrà la prima riunione online del Club del Libro, una nuova iniziativa volta a confrontarci assieme agli abbonati al canale. E il libro scelto per questo primo appuntamento è appunto un classico, Al di là del bene e del male di Nietzsche, libro che avevo letto ormai diversi anni fa ma che ho dovuto necessariamente ricominciare da capo. Devo dire che rimettersi a rileggere Nietzsche è sempre una cosa estremamente interessante: il filosofo tedesco infatti, a suo modo, è così misterioso e pregno di significato che ogni volta che lo affronti ti rivela qualcosa di nuovo ed interessante. Allo stesso tempo, però, bisogna anche ammettere che la scrittura e il pensiero di Nietzsche hanno anche dei loro difetti: per esempio, l’estrema supponenza del filosofo tedesco, che finisce sostanzialmente per reputare come imbecilli tutti quelli che l'hanno preceduto, perfino quelli come Schopenhauer o Spinoza a cui in realtà è per molti versi particolarmente vicino. Questa sua incapacità di mettersi in discussione è stata forse l'unico vero grande limite del filosofo della morte di Dio, pensatore geniale e capace di intuizioni clamorose ma allo stesso tempo non in grado di contenere certi suoi picchi di esuberanza; Nietzsche – come per la verità anche altri colleghi meno dotati di lui – finiva per innamorarsi un po’ troppo delle proprie idee e delle proprie intuizioni, senza relativizzarle o contenerle come forse sarebbe stato più opportuno fare. La sua esaltazione della volontà di potenza, solo per fare un esempio, suscita un vivo interesse per l'idea che l'istinto preceda e sottometta la ragione, ma poi deraglia in una pura esaltazione di tutto ciò che è forza, violenza, affermazione di sé. D'altronde, Nieztsche è stato un pensatore veramente solitario e questo ci dimostra in realtà come forse avere al proprio fianco qualcuno che ti costringa a fare i conti col tuo stesso pensiero può essere in realtà molto utile. Comunque, Al di là del bene e del male rimane, ovviamente, un libro estremamente interessante, un vero e proprio capolavoro con cui prima poi bisogna fare i conti. Se vi interessa lo potete acquistare qui.
De Bibliosophia di Fabio Minazzi (2022): questa settimana, come anticipavo anche sopra, ho cominciato a leggere un libro nuovo e non facilissimo da reperire. Si intitola De Bibliosophia – titolo per la verità piuttosto suggestivo – ed è scritto da un docente dell'Università dell’Insubria, Fabio Minazzi, già allievo di Ludovico Geymonat e oggi professore di filosofia teoretica. Il volume, infatti, è pubblicato da un editore minore e dedicato forse anche ad un argomento minore: la vita e gli studi di Mario Quaranta, un pensatore di cui forse non avete mai sentito parlare. Ebbene, Quaranta, scomparso nel 2020, era uno studioso polesano, proveniente dalle mie stesse terre, e quindi questo studio diventa importante almeno dalle mie parti per riscoprirlo e valorizzarlo. Anche perché il filosofo – che aveva poi per la verità lasciato il Polesine relativamente presto, per stabilirsi a Padova – in un certo senso rappresentava davvero il prototipo del polesano: nonostante in vita abbia collaborato ad alcuni dei più importanti lavori di diffusione del pensiero scientifico e nonostante sia stato uno dei massimi esperti di tutto quello che di filosofico veniva pubblicato in Italia, Quaranta è sempre rimasto nell'ombra, lavoratore indefesso ma poco visibile in un mondo, quello filosofico, che premiava allora come oggi soprattutto chi sapeva invece mettersi molto in mostra. Proprio per questo dico che Quaranta era polesano fino al midollo: perché certo anche dalle nostre parti ci sono i furbi che amano mostrarsi e comparire al di là dei loro meriti, ma ci sono anche tanti piccoli artigiani della cultura che lavorano in disparte, che fanno il lavoro sporco di cui altri poi beneficeranno, che rifuggono dai riflettori. È un po’ il comportamento schivo dei nostri contadini, che ci portiamo dietro nonostante abbiamo lasciato il lavoro manuale della terra da un bel pezzo e ci diamo arie da intellettuali. Il libro di Minazzi, che ho cominciato da poco ma che sto leggendo molto velocemente – anche perché tra qualche giorno dovrò tra l’altro presentarlo a Rovigo assieme all'autore –, è quindi un vero e proprio omaggio allo studioso, che consente però, tramite lui, di parlare anche di libri, di studi e del mondo filosofico italiano. Il sottotitolo del volume, in questo senso, dice già tutto: Mario Quaranta e la ricerca filosofica italiana contemporanea. Se vi interessa, potete comprarlo qui.
Quello che ho visto
E passiamo ora anche ai film. Anzi, a un film e due conferenze filosofiche disponibili su YouTube.
La battaglia dei sessi (2017), di Jonathan Dayton e Valerie Faris, con Emma Stone, Steve Carell, Andrea Riseborough: qualche giorno fa mi sono imbattuto in una breve serie di articoli che celebravano l'anniversario di una celebre partita di tennis, disputata proprio 50 anni fa. Una partita diversa da quelle a cui assistiamo oggi soprattutto perché fu molto spettacolare e non metteva in palio nessun titolo dello Slam, ma forse proprio per questo è rimasta nella storia come una delle partite più significative di sempre. Sto parlando della cosiddetta Battaglia dei sessi, lo scontro vide contrapporsi Bobby Riggs, ex numero uno del mondo nel campo maschile, anche se all'epoca ormai 55enne, e Billie Jean King, numero 2 della classifica femminile. Lo scontro aveva sì una valenza sportiva ma soprattutto sociale: in un’epoca in cui le donne venivano pagate molto meno degli uomini e ancora moltissimi le ritenevano adatte solo alla cucina e alle mansioni di casa, la sfida voleva in qualche misura dimostrare che invece erano in grado di competere alla pari con gli uomini, sia a livello sportivo, sia a livello di spettacolo e intrattenimento. La diatriba infatti era inizialmente nata dalla richiesta delle donne di essere pagate, nel montepremi dei vari tornei, quanto gli uomini, o almeno di veder ridotto il cosiddetto gap salariale; una richiesta a cui i vertici delle varie associazioni tennistiche avevano risposto con un secco “no”, sostenendo che le donne non erano in grado di gareggiare come gli uomini e che comunque attiravano minor pubblico e sponsor. Tutte queste vicende sono narrate in un film di discreto successo di pochi anni fa, appunto La battaglia dei sessi, interpretato da Emma Stone e da un bravissimo Steve Carell. Il film si può recuperare su Disney+ e merita sicuramente una visione, anche se non è forse particolarmente memorabile: la storia infatti risulta intrigante, ma la resa è alla fine dei conti un po’ scontata, priva di picchi; insomma il film è un prodotto discreto ma che a dirla tutta non rimane troppo impresso. In ogni caso, anche per l'estrema attualità del tema, direi che può essere una visione simpatica e utile per cercare di cambiare un po' la propria prospettiva su vari argomenti. Come detto, lo trovate su Disney+.
Umberto Galimberti | Senza parole (2023): questa settimana ho dedicato anche del tempo a recuperare su YouTube i video del festivalfilosofia che sono stati caricati proprio negli ultimissimi giorni. Per chi non lo sapesse, infatti, a Modena e provincia ogni anno attorno a metà settembre si tiene il più importante festival filosofico italiano: vengono invitati a parlare alcuni tra i più importanti filosofi italiani ed internazionali, tutti chiamati a dialogare col pubblico attorno a una parola chiave che contrassegna l'argomento dell'edizione. Quest'anno il tema prescelto era quello della “parola”, e in effetti il parterre di invitati tra Modena, Carpi e Sassuolo, tutto di prim’ordine, ha provato a declinare questo argomento sotto diversi punti di vista. La mia attenzione, per ora, si è concentrata soprattutto su due video (ma altri ne recupererò sicuramente nei prossimi giorni): quello di Vittorio Emanuele Parsi e quello di Umberto Galimberti. Partiamo da quest’ultimo che, mi dicono, è stato anche uno dei più seguiti e apprezzati dal pubblico. Galimberti, d'altra parte, non è solo un filosofo ma è anche uno scrittore di grande successo e ormai pure un personaggio televisivo, tanto è vero che viene ormai anche gustosamente preso in giro. Il suo intervento, della durata di un'ora, mostra tutti i motivi di questo successo: Galimberti parla bene, facendo rapidi excursus su tutta la storia della filosofia, citando autori greci e tedeschi, filosofi e scienziati, sociologi e psicologi. Ha idee chiare, forse fin troppo chiare, su quasi tutto e in questo intervento in particolare si focalizza sui rapporti tra mondo greco-romano da una parte e mondo ebraico-cristiano dall’altra, concludendo poi con l’immancabile tirata sulla tecnica. Vi dirò, in tutto questo io provo una certa empatica simpatia per Galimberti e rimango anche affascinato, spesso, dal suo parlare, ma quando ci ripenso poi a mente più fredda mi trovo abbastanza in disaccordo con lui. I motivi di questa mia critica sono essenzialmente due: il primo, è che le cose che dice Galimberti in realtà le hanno già dette, ormai parecchio tempo fa, decine di altri pensatori, e il suo mi pare più che altro un modo di proporle in maniera più accattivante, senza aggiungere granché di nuovo; e il secondo è che quelle cose a me paiono pure abbastanza superate dalla ricerca filosofica più recente, che ha saputo a mio avviso portare risposte serie ai dubbi sollevati da quei filosofi. Di tutto questo tenterò di dire qualcosa nella sezione Quello che ho pensato, più avanti in questa stessa newsletter. Qui, a difesa dell’intervento di Galimberti, devo dire che ho trovato interessante l’abbozzo di una nuova etica che, a quanto capisco, dovrebbe essere al centro anche del suo ultimo libro, uscito proprio da pochi giorni, incentrato su quella che lui chiama l’etica del viandante. Neppure qui nulla di particolarmente originale, ma devo dire che almeno questa etica mi va a genio, anche perché molto simile ad alcune idee che ho provato ad inserire in un video che ho registrato un paio di giorni fa e che uscirà prossimamente. Ultima cosa, per inciso: questa tesi di Galimberti – che lui di tanto in tanto, seccamente, ripropone – secondo cui la scuola italiana oramai produce solo masse di ignoranti, non depone troppo a favore della sua comprensione della complessità del reale (e del mondo in cui vive). Discorsi del genere, così superficiali, me li aspetto insomma da un boomer al bar, non da un filosofo, che deve articolare meglio e casomai distinguere. Comunque, se l’intervento vi interessa, lo potete trovare qui.
Vittorio Emanuele Parsi | Propaganda (2023): passiamo ora al secondo intervento dal festivalfilosofia 2023. Vittorio Emanuele Parsi forse lo conoscete già, anche perché di lui ho parlato qualche mese fa su questa stessa newsletter: è uno studioso di politica internazionale che da almeno un anno è anche spesso ospite di trasmissioni televisive, soprattutto sul tema della guerra in Ucraina. Davanti alle opinioni più disparate che si sono sentite in questi mesi (e che, per fortuna, in buona parte sono finite nel dimenticatoio, anche perché sono state prepotentemente smentite dai fatti), Parsi è stato uno dei pochi capaci di esporre posizioni sensate e condivisibili, basate, al contrario di altri, su fatti molto concreti. Nella lezione di un'ora tenuta durante il festival, lo studioso si è concentrato però in particolare sul ruolo della lingua nella costruzione dell'identità nazionale. Partendo dal caso italiano e citando poi vari altri stati europei, ha sostenuto la tesi secondo cui la lingua sia oggi sempre meno fondamentale per la definizione di una identità, anche perché gli stati democratici sono stati capaci di introdurre col tempo misure atte a tutelare le minoranze linguistiche e fare in modo che esse non rappresentino motivo di scissione all'interno del paese. Questo discorso iniziale ha poi dato modo a Parsi di passare ad affrontare la questione ucraina, con particolare riferimento al Donbass, mostrando come in realtà la convivenza tra gruppi linguistici diversi fosse sì complessa e problematica, ma meno drammatica di quanto la propaganda ha cercato di dirci. E proprio la propaganda diventa poi l’ultimo tema su cui Parsi conclude, passando dal tema della lingua nazionale al tema della lingua usata in chiave propagandistica, soprattutto in un’epoca di post-verità in cui il legame tra narrazione e fatti è diventato più flebile. Insomma, un intervento interessante, forse non equilibratissimo tra parte storica e di attualità, forse un po’ troppo semplicistico in certi passaggi ma che finisce comunque per colpire nel segno nei punti più decisivi. Se vi interessa, lo potete ascoltare qui.
Quello che ho pensato
Oggi, come ho già anticipato, vorrei prendere spunto da quanto ho scritto riguardo alla conferenza di Umberto Galimberti sulla tecnica e l'etica del viandante. Se non sapete di cosa sto parlando, trovate il resoconto poche righe più sopra, nella sezione Quello che ho visto: si tratta di una breve lezione che Galimberti ha tenuto all'interno del festivalfilosofia, soffermandosi in realtà, più che sul tema del festival, sulle idee che sta delineando ormai da parecchi anni.
Vorrei in particolare soffermarmi su un problema di fondo a cui facevo vago riferimento anche prima: quello dell'ossessione della tecnica che segna alcuni filosofi italiani – e Galimberti in primis – molto legati ad Heidegger, a Jaspers e in generale all'esistenzialismo tedesco del Novecento. In tutti i discorsi di questi pensatori, che sono anche interessanti e che contengono sicuramente una parte di verità, c'è infatti a mio modo di vedere un problema di fondo: quello di una sorta di pregiudizio ancestrale nei confronti della tecnica, che porta a svalutare completamente il mondo in cui viviamo, senza però capirlo davvero.
Per farla breve, questi pensatori ritengono che la nostra sia l'età appunto della tecnica, quella cioè in cui la ragione strumentale ha preso definitivamente il sopravvento sulla ragione filosofica e riflessiva; quella in cui l'efficienza diventa l'unico criterio di valore e non ci si interroga più sugli scopi di ciò che si fa ma solo sui mezzi, sul modo migliore di ottenere quegli scopi.
Nonostante Galimberti si presenti da anni come il principale portatore di questa teoria, in realtà non si tratta di nulla di nuovo: sono concetti già ripetuti migliaia di volte appunto da Heidegger, da Zygmunt Bauman, dagli esponenti della Scuola di Francoforte, da Karl Jaspers; concetti che, a dirla tutta, sono stati già sottoposti a critica da diversi decenni, discussi e attaccati, e che è ben difficile presentare oggi come una novità.
Al di là della loro età, però, ovviamente dobbiamo chiederci se questi concetti siano fondati e validi. In primo luogo devo dire che ovviamente c'è in essi una indubbia parte di verità: l'evoluzione della scienza e di quella sua propaggine pratica che è la tecnica si è fatta particolarmente forte appunto nel nostro ultimo secolo, con avanzamenti che ci esaltano ma che allo stesso tempo ci angosciano. Siamo riusciti a portare l'uomo sulla Luna, come ci ricorda lo stesso Galimberti, ma anche a costruire la bomba atomica; siamo riusciti a prolungare la vita umana oltre limiti mai visti prima, ma allo stesso tempo siamo riusciti a compromettere seriamente l'ecosistema del nostro pianeta. E in tutto questo Galimberti e soci tendono a dare la colpa dei problemi più grossi alla tecnica, che, con le sue seduzioni, ci ha resi meno propensi a pensare e a chiederci in quale direzione stessimo andando.
Ecco, in questi discorsi io in realtà penso che ci sia una sorta di deresponsabilizzazione dell’uomo, un tentativo – inconsapevole ma effettivo – di indicare un facile colpevole senza comprendere fino in fondo le ragioni di questa situazione. Se il mondo va male, infatti, non può essere colpa dell’uomo stesso e della sua mente o dei suoi istinti, ma dev’esserci un’entità astratta e impersonale – la tecnica – responsabile di tutto.
Se ci pensate bene, neppure questo è un discorso inedito. Pensate a tutti quei filosofi che ritengono che la fonte di ogni male sia il capitalismo, una forza di nuovo astratta, come la tecnica, che sembra discesa sugli uomini da chissà dove, macchiandoli e portandoli verso la perdizione. Tecnica e capitalismo sono due facce della stessa medaglia, dello stesso tentativo di individuare un capro espiatorio: se ci libereremo di loro, comincerà finalmente (anzi, ritornerà, perché i greci erano felici) l’età dell’oro.
In realtà, però, la situazione è ben più complessa della visione manichea che ci forniscono questi critici della tecnica (o del capitalismo). Come ci ha mostrato tra gli altri Bruno Latour – di cui abbiamo parlato in questa stessa newsletter qualche settimana fa e sul quale se volete potete recuperare questo video – non esiste una vera e reale distinzione tra tecnica e uomo, tra ragione strumentale e ragione filosofica; o meglio, se esiste, è molto più labile di quanto non sembri a prima vista.
Scienza e filosofia sono sempre state intrecciate, così come sono sempre stati intrecciati pensiero teoretico e pratico. È solo per capirli meglio, discuterci sopra e a volte per lamentarsi che li distinguiamo, anche se nella vita vera e concreta sono spesso l'uno il riflesso dell'altro. Facciamo solo qualche esempio per chiarire meglio il punto.
Galimberti sostiene, in quella conferenza, che la tecnica e il suo dominio abbiano preso il sopravvento con il nazismo, con la logica efficientista e strumentale perseguita da alcuni zelanti esecutori degli ordini di Hitler. Questo è un discorso già discusso ampiamente da Bauman in Modernità e olocausto, ma è vero solo fino ad un certo punto: l'idea che si dovesse dare spazio ad una ragione strumentale affonda infatti le sue radici in realtà molto più indietro nel tempo, ben prima del Novecento e di Hitler. Anzi, a dirla tutta si potrebbe anche sostenere che la tecnica nasca con la stessa filosofia.
Se vogliamo essere onesti, infatti, il primo ad aver usato una ragione strumentale e ad aver dato peso alla tecnica è stato Talete, il padre della stessa filosofia, il primo filosofo di cui abbiamo notizia; un po' perché, secondo la leggenda, lo stesso teorema di Talete sarebbe stato formulato per venire incontro a questioni pratiche e funzionali, come la misurazione dell'altezza delle piramidi; un po’ perché, come ci racconta Aristotele in un famoso aneddoto, Talete avrebbe sfruttato la sua conoscenza degli astri per affittare tutti i frantoi della regione e, di conseguenza, arricchirsi a spese dei suoi concittadini una volta saputo che ci sarebbe stato un grande raccolto di olive. La maligna tecnica che soggioga gli uomini e che li rende schiavi, impedendo loro di pensare, l’avrebbe insomma forse utilizzata anche il primo pensatore di cui abbiamo memoria.
La tecnica è d’altra parte, per come la definiscono gli stessi filosofi che le si oppongono, la tensione a realizzare certi scopi col minor dispendio di energie possibili, la tendenza cioè all'efficienza, al perfezionamento dei mezzi. E la tecnica, in questo senso, l’hanno però inventata i greci: con le loro navi, coi loro commerci, i greci erano già dei tecnici.
E pensiamo anche a Platone, ad esempio, il pensatore delle idee, uno dei padri dell’ontologia e della metafisica. Si direbbe: un filosofo che con la tecnica non vuole avere niente a che fare, che ripudia la manualità, la concretezza, la materia. Eppure anche Platone esalta qualcosa di estremamente tecnico come la matematica.
Che cos’è la matematica, se non un sapere tecnico? Badate bene: intendo la geometria in particolare, che si sviluppa tramite passaggi, procedure improntate all’efficienza, all’economia del linguaggio, alla dimostrazione oggettiva. La geometria è, da questo punto di vista, un sapere tecnico e ben poco umanistico, no?
E non ci si dimenticherà, a questo proposito, che Platone ritiene la matematica propedeutica alla filosofia. “Non entri chi non è matematico”, c’era scritto sulla porta dell’Accademia. Perfino lo Stato doveva replicare, nel suo ordine, l’ordine della matematica (e degli astri); un ordine che potremmo definire tecnico, ingegneristico.
Pensate allo stato platonico: non pare certo l’idea di un umanista, di un pensatore alla Galimberti o alla Heidegger. Platone non si perdeva in mille fronzoli poetici, badava al sodo: la sua è una vera e propria ingegneria politica. Dà ordine alle classi sociali come un architetto darebbe ordine a una casa; gestisce perfino, per le prime due classi, l’accoppiamento, togliendo ogni poesia all’amore e rendendolo, di fatto, una questione meccanica. Platone è molto più ingegnere che poeta. Certo, poi inventa anche i miti, per incantare quelli che non capiscono la matematica: ma il cuore del suo pensiero è un cuore tecnico.
Ma facciamo anche qualche altro esempio più recente. Tutti i filosofi dell'inizio dell'età moderna sono sia filosofi teoretici che filosofi pratici, si occupano sia di metafisica che di fisica. Pensate a Cartesio, ad esempio, che crea gli assi cartesiani per una ragione puramente strumentale mentre si mette a disquisire dell’anima; pensate a Leibniz, che riflette sulla logica della creazione divina ma anche sul calcolo infinitesimale; pensate perfino a Kant, che ben conosce e studia la fisica newtoniana prima di mettersi a parlare di etica e di pace perpetua.
Tecnica e sapere umanistico, come si vede da questi rapidi spunti, non sono mai stati veramente separati, ma si sono sempre rincorsi e influenzati a vicenda. Non è un caso che almeno fino a tutto il Settecento il filosofo avesse sempre una buona preparazione scientifica; che non si potesse far filosofia senza aver prima capito come funziona la fisica, come funziona la chimica, come funziona la biologia.
Sono stati gli idealisti e in particolare Hegel a rompere questo incantesimo, a svalutare pesantemente ogni forma di scienza perché contraria a quelle concezioni puramente astratte che dovevano secondo loro guidare la riflessione filosofica. Da Hegel, in Italia, si è arrivati poi al neoidealismo di Croce e Gentile, con tutto il suo astio verso le discipline scientifiche e con l'idea, che plasma ancora molti filosofi italiani formatisi nei nostri vecchi licei classici e nelle nostre vecchie università, secondo cui la conoscenza di un po' di scienza sia quasi un peccato capitale.
Purtroppo, invece, la tecnica non è qualcosa che da fuori ci è piombato addosso e ci ha fatti perdere la nostra purezza originaria; non è qualcosa di cui possiamo facilmente liberarci per tornare a farci “pastori dell'essere” e a poetare tutto il giorno come sognava Heidegger. No, la tecnica è parte di noi, la tecnica è parte del nostro modo di essere e di ragionare. Anche i poeti, contrariamente a quanto pensava Heidegger, usano una tecnica: la metrica è infatti anch’essa una forma di tecnica.
Dovremmo, piuttosto, iniziare ad accettare che l'uomo ha sempre avuto una componente tecnica, che l'uomo si è sempre mescolato alle cose e che l'uomo ha sempre sfruttato la natura per i propri scopi, a volte in modo più rispettoso e a volte in modo più traumatico. Anche i greci costruivano frantoi, anche i greci sfruttavano le correnti e i venti, anche i greci realizzavano strumenti, cercando di farli nel modo più efficiente possibile.
Chi vuole vedere la tecnica solo nel Novecento ha dunque una visione parziale, che ha anche un fondamento di verità ma che non esaurisce il discorso; e ha una visione che, soprattutto, scappa dalle nostre responsabilità, perché tende a dare la colpa di tutti i nostri mali non a noi stessi, ma a questo mostro a noi estraneo (e che forse possiamo ancora debellare) che è lo spirito tecnico.
Questa è una bugia consolatoria ed è tra l'altro anche una bugia molto rischiosa da raccontare. È vero che la tecnica, in quell'ottica efficientista, può giustificare i peggiori crimini, perché rischia di non porsi troppe domande su quello che si sta facendo; ma allo stesso tempo anche un pensiero slegato completamente dalla tecnica, ovvero un pensiero indipendente dalla scienza e dalla realtà effettuale del mondo, rischia di essere altrettanto pericoloso. Hegel giustificava guerre e tragedie in favore delle sue idee, Heidegger appoggiò senza troppe remore il nazismo in favore di questa ricerca del senso dell'essere. Se la tecnica può portarci fuori strada, anche il pensiero teoretico può farlo in maniera altrettanto grave.
Il fatto, poi, è che non si può veramente vivere senza tecnica, non tanto perché la tecnica ci circondi, quanto piuttosto perché noi siamo tecnica. Solo una volta accettato ciò che siamo davvero, cioè una commistione di pensiero teoretico e pratico, di riflessioni sull'essere e di attività finalizzate al raggiungimento di uno scopo, potremo accettarci realmente. L'etica non può prescindere da questo, non può prescindere dal confronto con le macchine che non sono altro che estensioni di noi; perché solo con un reciproco controllo delle diverse forme di pensiero che ci abitano, solo con una loro fusione seria e completa si può arrivare forse a qualcosa di sensato, si può arrivare ad un compromesso ad esempio tra lo sfruttamento dell'ambiente e il senso dell'esistenza.
Altrimenti rischiamo solo di non capire perché ci comportiamo in certi modi, di rifiutare la realtà che ci circonda e di incolpare molteplici mostri, senza renderci conto che almeno in certa misura quel mostro siamo in realtà noi.
Quello che ho registrato e pubblicato
E ora, spazio ai video e ai podcast usciti in settimana:
Il pensiero debole di Gianni Vattimo: un doveroso omaggio al grande filosofo da poco scomparso, con una panoramica del suo pensiero
Aumentare i reati e inasprire le pene risolve i problemi sociali?: una diretta riservata a un tema di grande attualità, affrontato però con teorie sociologiche e qualche dato
L’età dei metalli e le prime città: ritorna la storia della preistoria, anche se ormai ci avviamo verso le prime civiltà
La politica rinascimentale e Machiavelli (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
La Prussia tra la Francia e l’Austria (per il podcast “Dentro alla storia”)
La Guerra franco-prussiana e la Comune di Parigi (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
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Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Aut-aut di Søren Kierkegaard: in questo momento dell’anno, a scuola alle mie due quinte sto spiegando Kierkegaard. E soffermandomi sul grande pensatore danese, il pensiero non può non andare a quel suo grande e complesso capolavoro che è Aut-aut, un libro intelligente e sorprendente, ancora oggi. Come forse ricorderete, qui il filosofo presenta i primi due stadi dell’esistenza, la vita estetica (di chi sceglie di non scegliere) e la vita etica (di chi invece si impegna, finendo comunque sconfitto). Una lettura immancabile. Lo potete acquistare qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi:
La legge del desiderio di Nicola Bruno: ne ho parlato qui;
Il senso della sofferenza di Max Scheler: ne ho parlato qui;
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
Chiudiamo con una veloce panoramica su quello che dovrei riuscire a proporvi nei prossimi giorni:
domani o dopodomani vorrei riuscire a realizzare un video sulla storia di Giorgio Napolitano, ma non so ancora quando ci riuscirò davvero;
poi, sicuramente, uscirà un video della serie “Storia dei consumi”, dedicato agli elettrodomestici;
quasi sicuramente giovedì, poi, sarà la volta della diretta mensile riservata agli abbonati;
tra domenica e lunedì prossimi, infine, arriveranno il terzo e ultimo video su Dante e il quarto video dedicato alla mia anti-filosofia;
e poi ovviamente ci saranno anche i podcast, con la conclusione di Machiavelli e la nascita dei Reich tedesco.
E questo è quanto. Ci vediamo qui tra sette giorni esatti, come al solito. Passate una buona settimana!
E pensiamo anche a Platone, ad esempio, il pensatore delle idee, uno dei padri dell’ontologia e della metafisica. Si direbbe: un filosofo che con la tecnica non vuole avere niente a che fare, che ripudia la manualità, la concretezza, la materia. Eppure anche Platone esalta qualcosa di estremamente tecnico come la matematica.
Che cos’è la matematica, se non un sapere tecnico? Badate bene: intendo la geometria in particolare, che si sviluppa tramite passaggi, procedure improntate all’efficienza, all’economia del linguaggio, alla dimostrazione oggettiva. La geometria è, da questo punto di vista, un sapere tecnico e ben poco umanistico, no?
E´ vero , ma bisognerebbe anche dire che in realta´ Platone aveva della matematica
una concezione che risente del pitagorismo , un idea quindi abbastanza fuori dal normale rispetto alla matematica come la scienza che intendiamo noi oggi e che i greci concepivano la matematica in una maniera pura , distaccata dalle applicazioni
pratiche , anche il piu´ grande matematico antico , Pitagora , si dedico´ sopratutto
alla geometria e meno alle applicazioni pratiche , nonostante l invenzione degli specchi ustori . A proposito di Pitagora , non posso trattenermi dal ripetere le parole di
Whitehead sull episodio che causo´ la morte di Pitagora . Durante l assedio di Siracusa , il console Marcello aveva dato l ordine di catturare Pitagora vivo .
Un soldato romano entro´ nella casa di Pitagora e trovo´ lo scienziato immerso nello studio della geometria , gli bercio´ di venire con lui . Pitagora rispose di lasciarlo in pace e il soldato lo trafisse con la lancia . Whitehead osservava "nessun romano
ha mai perso la vita distratto dallo studio di un problema geometrico "
Per parlare dei filosofi recenti , Pascal invento´ la teoria della probabilita´
su commissione di un ricco nobiluomo accanito giocatore di carte !
Scienza e filosofia sono sempre state intrecciate, così come sono sempre stati intrecciati pensiero teoretico e pratico . E´ vero : in questi giorni sto studiando il greco e ho visto una parola
che mi ha fatto sobbalzare , la parola " τεκνᾐ" , la tecnica . Quando l ho vista , ho pensato con ironia che cosa avrebbe detto Heidegger , lui che sosteneva che il mondo moderno e´dominato dalla tecnica e che bisogna tornare ai greci , a Parmenide , ma i greci gia´ conoscevano la tecnica!