Come Keynes ci insegna che non possiamo conoscere, ma anche come Montaldo ha influito sul cinema, Woody Allen ci ha fatto ridere, Scorsese ci ha fatto sognare, Rovelli ci ha fatto pensare
Allora, siamo pronti per l’inizio dell’anno scolastico? Qui in Veneto le lezioni ripartiranno ufficialmente tra un paio di giorni, mercoledì 13 settembre, ma ovviamente nella mia famiglia è già tutto un preparare zaini, controllare di aver comprato tutti i libri, scaricare orari provvisori.
Io devo dire che ho (abbastanza) voglia di ritornare in aula. Ho voglia di conoscere le due nuove classi, di riprendere il discorso con le mie due vecchie – che ormai sono in quinta – e insomma di riprendere il filo nella normalità delle lezioni, delle spiegazioni, perfino delle verifiche.
Sarà forse uno degli ultimi anni con così tanti studenti che si aggirano nei corridoi. Non vi nascondo che il cosiddetto “inverno demografico” di cui si fa un gran parlare inizia a preoccupare un po’ anche noi: i dati delle nascite in Polesine sono da qualche anno allarmanti e il numero di ragazzi nei prossimi anni potrebbe tranquillamente dimezzarsi; il che, nel caso della scuola, vuol dire perdita di posti di lavoro, chiusura di plessi, accorpamenti. Potrebbe essere l’occasione, si dirà, per una didattica più efficace, con classi meno numerose; ma credo che inizieranno a mancare anche i soldi, e ritengo probabile che arriveranno anche pesanti tagli.
Insomma, non si profilano tempi felici. Avremo, purtroppo, sicuramente occasione di riparlarne. Intanto però distraiamoci almeno con questo anno scolastico che ci si profila davanti e qui, per qualche minuto, coi libri, coi film, coi video e con tante altre questioni.
Quello che ho letto
Cominciamo come al solito dai libri: come vedrete, in elenco ci sono due saggi molto diversi tra loro (uno di politica, l’altro di fisica) e un romanzo classico, che ho iniziato e finito nel giro di poche ore.
Se morisse mio marito di Agatha Christie: come vi ho raccontato più volte, quando affrontiamo un viaggio in auto abbastanza lungo siamo soliti, in famiglia, far partire un audiolibro da ascoltare assieme. Così nel weekend, quando siamo partiti per una due giorni improvvisata sul Lago di Garda, ci è venuto spontaneo aprire l’apposita app e cercare un libro da iniziare (visto che quelli precedenti li avevamo finiti da poco). Ma quale scegliere? Questo è stato il dubbio. Ho provato a lanciare Sostiene Pereira di Tabucchi, che ho letto molti anni fa e mi sembrava potesse essere adatto ai figli, ma la proposta mi è stata bocciata quasi subito; ho tentato con I ragazzi della via Pál, ma il fatto che sia stato scritto a inizio Novecento è sembrato al resto dei viaggianti subito proibitivo; infine ho provato genericamente ad avvicinarmi a Calvino, ma lì è stata la moglie a dirmi di no, perché dello scrittore de I nostri antenati aveva già letto tutto. Alla fine, i figli hanno chiesto Agatha Christie, che in effetti ben si presta per un viaggio in auto (i libri sono anche relativamente corti, e tengono svegli) e così abbiamo fatto partire Se morisse mio marito, uno dei romanzi che non credo di aver mai letto (anche se, ascoltandolo, mi sono reso conto che 13 a tavola, trasposizione televisiva degli anni '80 che ho visto diverse volte da bambino, è ispirato proprio a questo romanzo). Tra viaggio d’andata e di ritorno – a cui bisogna aggiungere qualche spostamento qua e là – siamo riusciti anche a finirlo, e devo dire che la storia si è rivelata simpatica e abbastanza accattivante, pur senza troppi scossoni. I libri della Christie hanno, dalla loro, alcuni elementi positivi che non mancano mai: l’atmosfera anni '20 e '30, tra nobili inglesi e arricchiti americani, che emana sempre un certo fascino; le deduzioni logiche di Poirot, sempre coerenti; un certo gusto per il colpo di scena e per la trama intricata. D’altro canto, non tutti i libri della signora del giallo sono dello stesso livello: alcuni – come Dieci piccoli indiani o L’assassinio di Roger Ackroyd – sono dei veri capolavori; altri sono secondo me poco riusciti, scritti forse un po’ di fretta; e poi ci sono svariati gialli di medio livello che si pongono a metà strada tra l’uno e l’altro estremo, come a mio avviso anche questo Se morisse mio marito, in cui la trama è intricata al punto giusto ma il mistero non è così impenetrabile e qualcosa si inizia ad intuire già prima del finale. Per completezza, vi racconto solo l’inizio della trama: durante una cena a Londra, l’intelligente detective Poirot viene avvicinato da una avvenente attrice americana, che gli chiede di recarsi dal marito per perorare la causa del divorzio, visto che questi sembra non volerlo concedere. Inoltre la donna si lascia andare in pubblico a diversi discorsi compromettenti, arrivando a dire che se il marito non le avesse concesso la libertà lei sarebbe stata capace addirittura d’ucciderlo. Ovviamente il marito muore – poteva andare diversamente? – e la prima sospettata finisce per essere proprio la diva del cinema; ma a questo punto cominciano le indagini di Poirot. Il libro lo potete acquistare qui.
L’ordine del tempo di Carlo Rovelli: come avevo in parte preannunciato la settimana scorsa, sono riuscito a portare a termine con una certa facilità anche il saggio L'ordine del tempo di Carlo Rovelli, di cui proprio in questi giorni è uscita nei cinema una riduzione cinematografica. In realtà, se si legge il libro ci si rende facilmente conto di come il film possa essere solo vaghissimamente ispirato a quello che è contenuto nel volume pubblicato da Adelphi, ma questo ci interessa solo fino ad un certo punto; sono infatti sempre stato dell'avviso che letteratura e cinema rappresentino due mezzi narrativi molto diversi tra loro e che non ci sia necessariamente bisogno che l'uno tenti di replicare l'altro. Parliamo quindi, qui, solo del libro. Devo dire, per cominciare, che dopo una iniziale titubanza ho trovato il volumetto del fisico veronese molto bello e molto riuscito, anche più convincente delle Sette brevi lezioni di fisica che ho letto ormai vari anni fa. In certe situazioni, infatti, Rovelli è molto bravo ad essere un vero e proprio divulgatore, che sa presentare alcuni concetti importanti della fisica in un modo che anche i profani possano comprendere, ma proprio per questo le idee che vengono espresse a volte sono allo stesso tempo un po’ banali per chi in qualche misura si interessa della materia. Insomma, per essere più esplicito, quando ho letto Sette brevi lezioni di fisica mi sono detto che era carino, ben scritto e tutto quanto, ma per me anche abbastanza scontato. Ne L'ordine del tempo, invece, mi sembra che questa capacità divulgativa, che comunque rimane ben presente, si mescoli anche ad un tentativo di proporre ragionamenti più arditi, non scontati, e di discuterli. Rovelli, in altre parole, mi sembra osare di più, e questo va a suo merito. Quello del tempo, d'altra parte, non è solo un grande problema della fisica, ma anche uno dei fondamentali problemi della filosofia, che, come fa notare lo stesso autore, si è cercato di affrontare fin dai tempi di Eraclito e Parmenide, spesso in maniera dicotomica, tra chi sottolineava che lo scorrere del tempo è la vera essenza del mondo e chi invece arrivava addirittura a negare questo fluire, immobilizzandolo l’essere. Se ci pensate, tutto il platonismo e il corposissimo filone filosofico che ne è derivato è un tentativo di trovare qualcosa che si sottragga al tempo, qualcosa di assoluto, che sfugga al divenire; ma allo stesso modo anche la religione è in un certo senso un rifiuto della caducità della vita, nella speranza che questa caducità sia solo un momento di passaggio verso un’eternità senza tempo; e infine perfino la matematica e la fisica, o quantomeno la fisica newtoniana, sembrano essere costruzioni che sopravvivono al tempo, da un lato perché i teoremi della matematica appaiono eterni, dall'altro perché – come sottolinea ancora una volta sempre Rovelli – il “tempo assoluto” di Newton non è affatto il tempo che scorre della nostra vita terrena. Insomma, pure declinando in maniera tutto sommato abbastanza semplice alcuni complicati concetti della fisica quantistica, Rovelli aggiunge anche parecchio di suo, alcune riflessioni di stampo più propriamente filosofico e – e questo forse mi ha convinto un po' meno – perfino qualche passaggio poetico. In ogni caso il risultato complessivo mi pare molto suggestivo e il libro, leggero e agile, rappresenta probabilmente il miglior punto di partenza oggi disponibile sul mercato italiano per affrontare il problema del tempo da un punto di vista sia fisico che filosofico. Certo poi esistono anche libri più specialistici e più tecnici, che entrano maggiormente nel dettaglio delle varie questioni e che riescono ad approfondire anche i punti che Rovelli sfiora solo di passaggio, ma si tratta quasi sempre di libri per esperti o per chi ha comunque alcune conoscenze di base piuttosto forti; se invece siete semplicemente degli appassionati e dei curiosi, questo è un volume che vi può dare soddisfazione, perché alimenterà la vostra curiosità e vi propone comunque di faticare un po’ sulle sue pagine. Se vi interessa, lo potete acquistare qui.
Svolta a destra? di ITANES: come forse avete notato, da qualche settimana ho iniziato a segnalare sui social network e poi velocemente anche qui nella newsletter settimanale le principali novità librarie che a mio avviso riguardano la storia, la filosofia e gli argomenti affini. Si tratta di libri usciti nelle ultimissime settimane, che affrontano i temi più disparati ma che, al di là delle diverse posizioni, li affrontano – o meglio sembrano affrontarli – con una certa scientificità. Ovviamente quei libri non li ho letti: quella che stendo è infatti una sorta di wishlist, di lista dei desideri in cui inserisco quello che più mi incuriosisce e che mi sembra a prima vista valido. D'altronde, segnalandone quasi uno al giorno, farei davvero molta fatica anche solo a permettermi di acquistarli tutti. Uno però di quelli che ho indicato negli ultimi giorni mi ha incuriosito più degli altri e alla fine ho deciso di prenderlo: si tratta di Svolta a destra?, realizzato dagli studiosi del gruppo ITANES, una sorta di collettivo di docenti universitari che da molti anni si occupa di analizzare i risultati delle elezioni e di tutto ciò che è ad esse collegato, in modo da dare una lettura più profonda e probabilmente veritiera dei risultati elettorali. Lo spunto di quest’ultimo volume, che segue quelli usciti negli anni scorsi, viene dalle recenti elezioni politiche che hanno portato alla vittoria netta del centrodestra e al governo ancora attualmente in carica di Giorgia Meloni. Un risultato per molti versi sorprendente, sia perché c'è stata la novità del primo premier donna della storia d'Italia, ma anche e soprattutto per l'affermazione del partito più nettamente di destra presente nel nostro Parlamento, che è risultato il vero vincitore delle consultazioni. Fratelli d’Italia, d’altra parte, proviene da una tradizione controversa, e finora non era mai neppure lontanamente andato vicino ad un risultato così significativo. Ho quindi iniziato a leggere il volume con una certa curiosità: certo sono ancora agli inizi, ma mi pare evidente che le analisi del gruppo rivelino una realtà più complessa di quella che può apparire a prima vista. Ovvero: che la vittoria dell'estrema destra non sia per forza l'indicazione di un cambiamento radicale dei gusti degli italiani, quanto il prodotto di una serie complessa di fattori, tra cui bisogna dare un certo peso al grande astensionismo. Leggerò e vi saprò dire meglio. Intanto, se vi interessa e volete anticiparmi, il libro potete comprarlo qui.
Quello che ho visto
Parliamo ora dei film e delle serie TV che ho visto questa settimana.
Il dittatore dello stato libero di Bananas (1971), di Woody Allen, con Woody Allen, Louise Lasser, Carlos Montalbán: qualche giorno fa, come spesso mi succede, mi sono messo alla ricerca di un film classico da vedere su una qualche piattaforma di streaming a cui sono abbonato. Impresa non sempre facile, perché molti di quei film già li conosco fin troppo bene, e in genere queste piattaforme non aggiornano poi così spesso il loro catalogo. Per un certo momento sono stato tentato dal buttarmi su un lavoro di Giuliano Montaldo, regista appena scomparso, ma il fatto di aver appena visto il documentario a lui dedicato (di cui vi parlerò meglio tra qualche riga) mi ha fatto desistere, per paura che questa newsletter diventasse quasi monotematica. Per fortuna, scartabellando tra i vari film in catalogo mi sono imbattuto in Il dittatore dello stato libero di Bananas, uno dei classici – oltre che dei primi film – di Woody Allen. Ricordo di averlo visto per la prima volta attorno ai 16 anni, quando per me Allen era ancora un autore quasi ignoto, e di essere rimasto stupito da questa commedia slapstick con però elementi fortissimi di satira politica. A rivederla oggi, con lo sguardo dell’adulto e a più di cinquant’anni dalla sua realizzazione, la pellicola rimane molto interessante: certo ci sono delle ingenuità, soprattutto a livello di recitazione e di regia oltre che di costruzione della sceneggiatura, ma il film è incredibilmente coraggioso e audace e certe battute colpiscono ancora oggi nel segno. Brevemente, la trama: un newyorkese nevrotico si trova, per una serie di circostanze anche sentimentali, a compiere un viaggio nel fittizio stato di Bananas, in America Latina, dove si è da poco instaurata una dittatura militare. Lì proprio il dittatore locale pensa di far fuori questo imbranato turista americano e di far cadere la colpa sui rivoluzionari locali che gli si oppongono, in modo da ottenere l’appoggio degli Stati Uniti; solo che il personaggio interpretato da Allen si salva e viene arruolato proprio tra i rivoluzionari, diventandone ad un certo punto il leader. Dopo l’avvenuta rivoluzione, Allen torna poi negli States, in cerca di finanziamenti, e lì, nonostante la barba posticcia, viene smascherato e processato per sedizione. Alcuni momenti sono memorabili e anticipano anche i film più maturi degli anni successivi (ad esempio la discussione tra yoga e Kierkegaard), altri costituiscono una satira molto riuscita della politica estera americana e del ruolo della televisione (il primo rapporto sessuale del protagonista con la moglie viene trasmesso in diretta televisiva con tanto di commento che fa la parodia agli incontri di boxe). Insomma, incompleto e discontinuo, ma un film ancora oggi estremamente sagace. Lo trovate su Amazon Prime Video.
Giuliano Montaldo - Quattro volte vent'anni (2012), di Marco Spagnoli, con Giuliano Montaldo, Carlo Lizzani, Ennio Morricone: avrete forse sentito che nei giorni scorsi è venuto a mancare Giuliano Montaldo, uno dei registi più importanti e però anche meno noti della nostra cinematografia. Montaldo, infatti, è stato uno di quei professionisti che fanno anche film importanti, a volte anche di buon successo, ma non riescono mai pienamente a sfondare, rimanendo un po’ in ombra, un po’ offuscati da colleghi più fortunati. Montaldo, infatti, lo conoscevano ormai solo gli intenditori: non ha avuto un successo internazionale paragonabile a quello di un Fellini, né ha incontrato le sperticate lodi della critica di un Visconti o di un Pontecorvo. Eppure, a scorrere la sua filmografia, ci si imbatte comunque in film importanti come Sacco e Vanzetti o L'Agnese va a morire. Così, anche la sua morte è stata, mi pare, un lutto a metà: ne hanno parlato un po’ tutti per mezza giornata, e ventiquattr’ore dopo era tutto dimenticato. Per fortuna, su RaiPlay è stato rapidamente aggiunto (o quantomeno pubblicizzato) qualche contenuto a lui dedicato, tra cui il documentario di cui vi parlo oggi, uscito una decina d'anni fa in occasione degli ottant’anni del regista. Tramite quella che è sostanzialmente una lunga intervista all’autore e ai suoi amici e colleghi, si ripercorre così la carriera di un solido professionista, che ha attraversato le diverse stagioni del cinema italiano, da quella magica del dopoguerra a quella attuale. Forse in questo documentario non emerge nulla di eclatante o di così importante da diventare memorabile, ma l’ora di durata scorre via sciolta, tra storie vissute e menzioni di tutta una serie di personaggi e autori che hanno fatto la storia del nostro cinema. Il documentario lo trovate, come anticipato, su RaiPlay.
Only Murders in the Building, episodi 3.04-3.05 (2023), di Steve Martin e John Hoffman, con Steve Martin, Martin Short, Selena Gomez: sono passate alcune settimane dall'ultima volta in cui vi ho parlato di Only Murders in the Building. D'altronde, la scelta di Disney+ di proporre solo una puntata a settimana, invece che tutti gli episodi della nuova stagione in una sola volta, mi ha preso un po' alla sprovvista: non sono più abituato a dover aspettare una settimana prima di poter vedere il seguito dell'episodio che magari in quel momento mi ha molto appassionato; e così, non potendo dare immediatamente continuità allo slancio narrativo, finisco per dimenticarmene e rimanere indietro. Questa settimana, però, sono riuscito a recuperare almeno un paio di episodi, portando avanti la trama di questa terza stagione che vede tra l'altro la presenza di una serie di importanti guest star. Su tutti, brilla indubbiamente la stella di Meryl Streep, abilissima nel tratteggiare un’attrice che sembra essere arrivata molto tardi al successo nel mondo del teatro; ma ancora più bravo, almeno in queste ultime due puntate che ho visto, è addirittura Steve Martin, che è riuscito a strapparmi diverse risate nelle scene in cui entra in trance, in quella specie di “stanza bianca” che compare ripetutamente. Come forse già sapete, lo show si concentra su tre strani detective, due vecchietti piuttosto arzilli e una giovane ma imprevedibile ragazza, che indagano su inspiegabili omicidi, l'ultimo dei quali avvenuto a teatro durante l'esordio sul palcoscenico di un nuovo dramma diretto da uno dei tre e interpretato dall'alto. Interessante e divertente, la serie (come nelle stagioni precedenti) vi regala qualche momento leggero ma non stupido ed è una buona fonte di intrattenimento. La trovate su Disney+.
Quello che ho pensato
Non è raro che, in questa rubrica, mi lamenti del dibattito pubblico, o quantomeno della sua qualità. Mi sembra infatti che molto spesso le questioni che vengono discusse sui giornali o nei talk show televisivi (per quel poco che ne sono a conoscenza) siano affrontate in modo superficiale, che questo benedetto dibattito pubblico si sia cioè negli anni molto impoverito. E questo, a volte, anche per colpa degli intellettuali stessi, che non aiutano ad elevarlo.
Questa consapevolezza, tra l’altro, non può che portarci a riflettere anche sul ruolo della cultura e, nello specifico, della filosofia nell'età contemporanea, nel mondo che cambia. Si tratta in fondo di un quesito che spesso mi viene posto anche degli stessi studenti: a cosa serve, oggi, la filosofia? A darci una guida, una direzione? E, se sì, perché non ci riesce? Perché anche i filosofi che vanno in TV o che scrivono sui giornali spesso sembrano incapaci di aiutarci a comprendere a fondo le questioni?
Ci sarebbe molto da discutere su questo tema. Un primo problema è quello relativo ai campi del sapere: mi sembra che si dia troppo per scontato che una persona molto esperta in un campo sia automaticamente esperta in tutti i campi dello scibile; e così si chiede al metafisico un’opinione sulla pandemia, al sociologo un’opinione sull’andamento dei mercati e all’economista un’opinione sull’etica dell’intelligenza artificiale. Cosa che porta a cadere inevitabilmente nella banalità o, nei casi peggiori, nell’assurdità: tanto varrebbe, a quel punto, chiedere al passante per strada. L’autorevolezza ognuno la ha nel proprio campo di lavoro e di studio, non certo in tutto lo scibile umano; e sarebbe bene, di tanto in tanto, che gli esperti, interrogati dai giornalisti, dicessero anche: «Ah, su questo argomento non so, non l’ho studiato» (invece rispondono sempre, non si tirano mai indietro).
Un secondo problema – e l’abbiamo accennato qualche volta, qua e là – è che le persone, anche quelle più intelligenti, tendono ad innamorarsi delle loro idee, a subire una fascinazione quasi estetica per certe teorie. Determinate visioni del mondo ci piacciono, indipendentemente dal fatto che siano vere o false; ci piacciono perché ci fanno tornare i conti, perché sono lineari e affascinanti, perché magari confermano certe nostre speranze o aspettative. E quindi desideriamo che siano vere; e se mancano inoppugnabili prove contrarie (e, nella vita vissuta, mancano sempre) le assumiamo direttamente come vere.
È il caso, quest’ultimo, di certi esperti in campi molto specifici e scientifici, che sono abituati a lavorare – almeno in teoria – con prove ed esperimenti oggettivi, che però quando si tratta di politica attuale si lanciano in teorie abbastanza discutibili e soprattutto non suffragate da prove. A prima vista ci si può stupire: ma come, uno scienziato famoso per i suoi studi lenti e approfonditi, per i suoi esperimenti intersoggettivi e verificabili, che si prodiga a difendere teorie assurde e al limite del complottismo appena si mette a parlare di politica estera? Com’è possibile questa dicotomia?
In realtà non c’è tutta questa contraddizione, a guardare bene: anche la scienza si basa su suggestioni, innamoramenti, passioni forti. Ci si innamora di una teoria in maniera quasi irrazionale: e solo dopo, una volta averla formulata, ci si mette a cercare le prove (o le smentite) per difenderla. Poi, ovviamente, se di smentite ne arrivano tante la teoria viene abbandonata a malincuore, ma la prima spinta era stata una spinta sentimentale, come ci hanno fatto notare, con accenti diversi, vari filosofi della scienza del '900, da Kuhn a Feyerabend. Ebbene, se la scienza esige prove ed esperimenti, la politica no; e quindi se nel primo campo le teorie “sentimentali” devono poi fare i conti con la realtà ed essere eventualmente ad un certo punto scartate, in politica questo non avviene, o avviene molto più di rado. In politica abbiamo ancora nostalgici dello stalinismo e del nazismo, mentre in fisica non abbiamo più nostalgici delle teorie aristoteliche: ma i sentimenti in gioco sono stati, in certe fasi storiche, gli stessi.
Questo ci rivela quello che, a mio avviso, è uno dei difetti storici – e oggi forse più che mai forte – del modo di intendere la filosofia, ma in generale anche altre scienze umane: quello di non dover necessariamente fare i conti col mondo. Attenzione, non è un difetto diffuso dappertutto e in ogni ambito; anzi, mi pare una tendenza soprattutto europea, dell’Europa continentale, dove il pragmatismo e l’approccio scientifico hanno sempre attecchito solo fino ad un certo punto. Ma è un difetto, appunto, che non riguarda solo la filosofia: paradossalmente si sposta anche verso la sociologia (che invece dovrebbe essere la più concreta delle scienze umane), la pedagogia, la psicologia.
Sarà bene, però, prima di tutto definire meglio cosa intendo. Non sto dicendo che i pensatori italiani vivano in una torre d'avorio e non si interessino all’attualità; anzi, forse lo fanno perfino troppo. Quello che intendo dire è che i filosofi italiani sono convinti, in massima parte e credo anche a causa della loro formazione, che i grandi problemi dell'umanità si possano risolvere con la forza del pensiero, anzi meglio ancora con la forza della parola.
Hanno una fiducia spropositata nel logos, di cui si ritengono i nuovi portatori, e quindi sono capaci di elaborare interi sistemi filosofici o analisi delle varie situazioni sempre e solo “a priori”, ragionando sui termini (giuridici, logici, ontologici) dei problemi. Un approccio che, a ben guardare, può risultare molto pericoloso, soprattutto quando poi si scende a parlare della realtà concreta, della filosofia pratica, cioè appunto dell'etica e della politica. È un approccio sostanzialmente platonico, che continua a tormentarci da secoli, di cui buona parte della filosofia italiana è figlia: l'idea cioè che si possa delineare un modello di Stato (o di società, o di scienza, o di economia) in via puramente ideale, semplicemente ragionando su ciò che sarebbe giusto e su ciò che sarebbe perfetto, senza tener conto neppure in minima parte della contingenza, della realtà concreta, di come poi le cose vanno al di là delle idee.
Rimane insomma il preconcetto diffusissimo – ed hegeliano! – secondo cui la realtà debba sempre rispondere alla logica, che la struttura del pensiero possa ricalcare e delineare bene la struttura del mondo; che, insomma, un bel pensiero, razionalmente coerente, sia sempre migliore di una bella analisi fattuale.
Questa mancanza di concretezza, o quantomeno di esperienza pratica, la si vede proprio quando si trovano, questi pensatori, ad affrontare temi concreti, temi che richiedono risposte immediate, fattibili, attuabili. L’abbiamo visto durante la pandemia, l’abbiamo visto durante la guerra in Ucraina, lo vediamo perfino quando si parla di intelligenza artificiale (senza aver capito del tutto che cosa sia): tante idee, poche soluzioni realmente applicabili.
Quello che manca ai pensatori nostrani, infatti, è secondo me una certa conoscenza storica. Non tanto dei fatti (chi sa per filo e per segno i fatti, infatti, non è detto abbia una vera conoscenza della storia), quanto per la mancanza di un “sentire storico”, cioè della comprensione di come l'uomo nella storia sia sempre differente, sempre imprevedibile. Anzi, diciamo meglio: quello che manca è la comprensione che non si possa fare alcuna teoria ideale senza tener conto dell’uomo nella storia.
Per far capire cosa intendo vorrei richiamarmi a un celebre esperimento di economia comportamentale che ci aiuta a capire come funzionano le cose. L'esperimento è ispirato a un celebre esempio di John Maynard Keynes, che nel suo capolavoro Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta del 1936 introdusse l’idea del concorso di bellezza (Beauty contest, in lingua originale). Per far capire come funzionano i mercati e soprattutto l’allocazione delle risorse, Keynes propose al lettore di immaginare cosa sarebbe successo se un quotidiano avesse lanciato un concorso chiedendo ai suoi acquirenti di scegliere le foto delle 6 ragazze più carine tra un centinaio di immagini; anzi, non le 6 ragazze più carine, ma le 6 che la maggioranza dei lettori avesse giudicato come le più carine.
Keynes faceva notare che a quel punto il lettore non avrebbe scelto sulla base dei suoi gusti personali, ma avrebbe cercato di individuare il gusto collettivo e votato di conseguenza. Anzi, dopo aver pensato al gusto collettivo, si sarebbe chiesto: «Ma forse non sono l’unico a pensarla così, e devo pensare a come la maggior parte della gente intende il gusto collettivo». In questo modo i ragionamenti del partecipante al concorso si sarebbero elevati di diversi livelli: prima avrebbe pensato ai suoi gusti, poi avrebbe pensato al pensiero dei gusti altri; infine avrebbe pensato al pensiero del pensiero dei gusti altrui.
Un’applicazione forse più comprensibile di questo meccanismo lo troviamo in certi esperimenti condotti da Rosemarie Nagel, altra economista, vivente. La studiosa ha provato a sottoporre a una serie di cavie il seguente quesito: devi cercare di indovinare i due terzi del numero medio scelto da tutti gli utenti che parteciperanno a questo gioco in una scala da 0 a 100.
È più difficile difficile da spiegare che da capire. Poniamo che al gioco partecipino 4 giocatori, che devono scegliere un numero compreso tra 0 e 100. Poniamo che il primo scelga il numero 25, il secondo scelga il numero 50, il terzo scelga il numero 75 e il quarto scelga di nuovo il numero 50. A questo punto la media dei quattro numeri sarà esattamente 50; i due terzi di 50 è 33. Quindi in questo caso, con quei quattro giocatori, a risultare vincitore sarebbe il primo giocatore, quello che ha scelto il numero 25, perché è il numero che più si avvicina al numero uguale ai due terzi della media di tutti i numeri scelti.
Questo, insomma, è il meccanismo. Ora provate a pensare a cosa accadrebbe se il numero di partecipanti fosse alto. Ovviamente per vincere si dovrebbe provare a mettere in campo una strategia. Vediamo le varie possibilità.
Si può ad esempio, in primo luogo, puntare su un numero a caso, sperando di avere fortuna, visto che in realtà non si può completamente prevedere quello che faranno gli altri: potrebbero infatti tutti puntare sul numero 100, come potrebbero tutti puntare sul numero 0; oppure ancora le scelte potrebbero disperdersi. Non potendo prevedere quello che fanno gli altri, tanto vale sparare un numero a caso.
Si può però adottare anche un’altra strategia, forse più intelligente. Visto che i partecipanti al gioco potrebbero essere tanti e quindi ci saranno tantissime “puntate”, per la legge dei grandi numeri è probabile che il numero medio si aggiri attorno a 50, e che quindi i due terzi di quel numero siano probabilmente attorno a 33; pertanto potrebbe sembrare logico puntale effettivamente sul 33.
Allo stesso modo, però, è anche vero che se tutti i partecipanti fossero particolarmente intelligenti, farebbero tutti lo stesso ragionamento che abbiamo appena fatto noi. E punterebbero quindi sul 33, alterando e abbassando la media. In questo modo, puntare sul 33 potrebbe diventare svantaggioso, e potrebbe essere conveniente puntare sui ⅔ di 33, cioè su 22.
Ancora una volta, però, gli altri partecipanti potrebbero aver fatto lo stesso ragionamento che stiamo facendo noi qui ora, e puntare non sul 33 ma sul 22. A quel punto la media si abbasserebbe ancora, e potrebbe essere conveniente puntare su un numero più basso, tipo 15.
È chiaro però che a questo punto si potrebbe andare avanti all'infinito, e il numero su cui puntare potrebbe diminuire progressivamente tendendo verso lo 0. Ma allora, su quale numero puntare?
Ebbene, Rosemarie Nagel fece diversi esperimenti di questo tipo con persone più o meno istruite, con americani ed europei, in condizioni diversificate. In alcuni casi, il numero effettivamente vincente fu 13 (ad esempio tra alcuni partecipanti esperti), in altri 23 (tra gli studenti). Segno che alcuni avevano capito il meccanismo, altri no.
In un mondo ideale, cioè in un mondo in cui tutti ragionano e in cui tutti usano le loro potenzialità al massimo grado, il numero perfetto su cui puntare sarebbe stato un numero bassissimo come 1 oppure 0, perché effettivamente il ragionamento sarebbe andato avanti all'infinito. Probabilmente dei computer a cui fosse stato posto il quesito avrebbero infatti risposto 0. Ma un computer avrebbe perso contro un umano che avesse puntato sul 20.
Dunque la risposta ideale – quella che teoricamente potrebbe perseguire anche un filosofo che ragiona correttamente – è ben diversa da quella che emerge in realtà. Il mondo non va come i filosofi o i computer immaginano, neppure quando questi filosofi o questi computer ragionano bene. E questo perché il mondo non viene influenzato solo da ciò che è giusto e da ciò che è corretto idealmente, ma viene influenzato (e parecchio) anche dei comportamenti, a volte imprevedibili, a volte irrazionali, delle altre persone. E immaginate di non essere tra studenti o tra esperti, ma di ripetere il test in mezzo a una gran massa di persone impulsive e poco propense al ragionamento: il risultato non sarebbe probabilmente né 13 né 23, ma forse 33, forse 40, forse addirittura di più.
Il mondo non è logico perché una parte delle persone che vi vive non agisce logicamente, e anche chi decide di seguire la logica lo fa solo fino ad un certo punto, trovando un compromesso tra pensiero e sentimento. Possiamo pensare fino al secondo, terzo o quarto livello, ma poi la maggior parte di noi si stufa e smette.
E allora arriviamo a un punto di non ritorno. Perché il panorama che abbiamo davanti, dal punto di vista intellettuale, non è certo roseo: molti esperti si lanciano a disquisire di cose che non conoscono, e già questo fa prendere dei granchi; altri si lasciano affascinare da teorie belle e piacevoli, che però non sono vere solo per il fatto di esser belle; e chi anche si salva da questi due primi problemi, può facilmente incappare in un errore involontario, quello di fidarsi troppo di una ragione che non può prevedere tutto, che sbaglia anche quando formalmente non sbaglia. L’esito a me pare piuttosto chiaro: non si può mai essere sicuri in assoluto delle teorie che si sostiene.
E allora serve un po’ di modestia, un po’ più di accettazione della nostra stoltezza, la consapevolezza che i nostri mezzi conoscitivi arrivano solo fino ad un certo punto: e che per il resto bisogna incrociare le dita, e sperare che le nostre supposizioni ci avvicinino al numero magico che costituisce i ⅔ della media determinata in qualche modo da chi ci sta attorno.
Quello che ho registrato e pubblicato
Vediamo ora insieme quello che è uscito questa settimana sul canale:
Un progetto di educazione permanente - Arriva la stagione 2023-24: in una lunga diretta ho presentato la nuova stagione del canale YouTube, con tutte le novità all’orizzonte
La filosofia di Martin Scorsese: cerchiamo di analizzare i film di un grande maestro del cinema alla luce della filosofia e del cristianesimo
Storia dei consumi 8: il mito della casa di proprietà: nuova puntata per la nostra serie sul consumismo, incentrata sull’idea della casa di proprietà
Dante: il cosmo, i vizi e le virtù: seconda puntata dedicata all’autore della Divina Commedia, concentrandoci sulla sua astronomia e la sua morale
I poveri mangiano meglio?: vediamo se è vero quanto affermato da alcuni politici, secondo cui i poveri in Italia mangerebbero meglio dei ricchi
La gravitazione universale di Newton (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Il ritorno dell'irrazionale e le nuove scienze sociali (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
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Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Al di là del bene e del male di Friedrich Nietzsche: se siete abbonati al livello da Roosevelt in su, sapete che a breve prenderà il via il nostro Club del Libro virtuale. Il primo volume da cui abbiamo deciso di partire, a inizio ottobre, è un classico di Nietzsche, Al di là del bene e del male, che vi consiglio assolutamente anche se non doveste partecipare alla nostra iniziativa. È un libro non facilissimo, ma immancabile nella biblioteca di un appassionato. Lo potete comprare, a prezzo anche abbastanza basso, qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi:
Sutra dal soglio del sesto patriarca di Huìnéng: ne ho parlato qui;
A War Made in Russia di Sergei Medvedev: ne ho parlato qui;
Ebreo giudeo naso adunco di David Parenzo: ne ho parlato qui;
Libertà, una malattia incurabile di Slavoj Zizek: ne ho parlato qui;
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
Concludiamo come sempre anche con qualche anticipazione su quello che uscirà di nuovo questa settimana:
domani pubblicherò insieme due video un po’ tecnici: il nuovo (e primo) trailer del canale e il nuovo video di spiegazione sui vari livelli di abbonamento;
mercoledì e giovedì sarà la volta dei podcast: per filosofia arriverà la dinamica newtoniana mentre per storia ricominceremo a parlare di politica nell’Europa di fine Ottocento; il lunedì successivo, inoltre, sempre coi podcast sarà di nuovo la volta di Newton;
venerdì quindi sarà il turno del nuovo capitolo della mia anti-filosofia, dedicato al “pensiero critico” (e a cosa significa davvero);
sabato, se tutto va bene, parleremo invece di amanti e re dal punto di vista storico, soprattutto nella Francia del '700;
domenica, infine, arriverà la nuova puntata del corso di logica, in cui parleremo di modus ponens e modus tollens, oltre che di dimostrazioni.
E questo è tutto. Se siete studenti, buon rientro in classe; se siete insegnanti, idem (tenete duro, colleghi!) e se invece il vostro tran tran è già da tempo ritornato alla normalità cercate di ritagliarvi come sempre un po’ di spazio per lo studio e la cultura. Ci si rivede qui tra sette giorni!