Da Navalny al perché consideriamo tutto come se fosse una partita di calcio, dai genocidi a Luigi Pirandello, da don Lorenzo Milani alle Olimpiadi di Berlino, da Immanuel Casto a Dungeons & Dragons
Non so dirvene esattamente il perché, visto che non l'ho capito nemmeno io, ma in queste settimane i podcast (“Dentro alla storia” e “Dentro alla filosofia”) stanno riscuotendo un certo successo, o risvegliando, meglio ancora, un certo interesse. Non che prima andassero male, anzi: in questi due anni di trasmissione sono stati protagonisti di una lenta ma graduale crescita, di un aumento costante degli ascoltatori, settimana dopo settimana, mese dopo mese. Però proprio in questi ultimi giorni vari sono i segnali positivi attorno ad essi, tra email, contatti, interessamento anche da parte di persone dalle storie più variegate.
Segno, da un lato, che quello che è stato un lavoro costante e anche faticoso sta iniziando a dare sempre più i propri frutti, ma anche del fatto che, forse, i podcast, tra tutti gli altri e i bassi di cui sono stati protagonisti in questi ultimi mesi, stanno iniziando davvero un po' alla volta a prendere piede.
D'altra parte, se ci pensate, negli ultimi quindici o vent’anni il panorama dell'intrattenimento e dell'offerta culturale si è modificato notevolmente: i programmi TV li guardiamo sempre più spesso tramite internet, o perché usiamo le piattaforme di streaming o perché li cerchiamo direttamente su YouTube; i libri addirittura li ascoltiamo letti da qualche attore professionista oppure li scorriamo direttamente sulle pagine del nostro tablet, del nostro Kindle o, per i più giovani, del nostro cellulare; le radio stanno un po' alla volta cedendo il posto anch'esse al web, o almeno vengono sempre più affiancate da esso, tramite podcast di tutti i generi, che spaziano dal true crime appunto alla storia.
E chissà dove saremo tra altri dieci o vent’anni, quante altre nuove tecnologie ci permetteranno sempre di conoscere cose nuove o di riflettere su quelle vecchie.
Noi per il momento contribuiamo, nel nostro piccolo, anche questa settimana con una nuova newsletter, dedicata a libri, film e riflessioni varie. Cominciamo subito.
Quello che ho letto
Iniziamo come al solito dai libri, con almeno una novità importante nel nostro elenco rispetto alla settimana scorsa.
Le sette morti di Evelyn Hardcastle di Stuart Turton: sono molti mesi ormai che vi parlo di questo romanzo, cominciato dietro consiglio di un mio studente e ancora non portato a termine. Devo dire che questa settimana per una serie di circostanze sono riuscito a portare abbastanza avanti la lettura e arrivare quasi alla fine: mi mancano ormai giusto una ventina di pagine, tanto è vero che forse, se la palpebra regge, potrei forse riuscire ad arrivare a concluderlo stasera a letto. D'altra parte, dopo una parte centrale del romanzo che si era fatta inutilmente astrusa e confusa, siamo ormai arrivati al punto decisivo della trama e le vicende sono tornate ad essere abbastanza appassionanti; quando si vuole sapere come va a finire la storia, la lettura inevitabilmente si accelera. In generale non credo di poter dire che il romanzo finora mi sia piaciuto: l'ho trovato eccessivamente complicato e confuso per un thriller, e soprattutto non sono mai del tutto riuscito a focalizzare bene i personaggi, che mi sono sembrati fin troppo ondivaghi nella loro descrizione. Certo, l'intento dello scrittore era quello in effetti di dare un certo senso di smarrimento e confusione, ma mi sembra che la ricetta non sia stata dosata perfettamente. Ciò nonostante, qualche motivo di interesse sicuramente rimane, soprattutto dal punto di vista filosofico. La storia, senza rivelarvi troppo, è quella di un misterioso omicidio, quello appunto di Evelyn Hardcastle, che viene citata anche nel titolo; non si tratta però di un omicidio semplice da risolvere, sia per una fitta rete di misteri che avvolge la vittima, sia perché il detective (ovvero il protagonista) è in realtà una sorta di anima che si incarna in diversi personaggi che si trovano sulla scena del delitto; questo personaggio si trova così ad assistere a tutte le vicende della morte di Evelyn per sette giorni, rivivendo la stessa giornata dentro i corpi di diversi personaggi. Lo scopo di tutto questo strano succedersi di accadimenti viene in parte svelato nel finale, ma appunto sono proprio in queste ore al momento decisivo e quindi non vorrei ancora sbilanciarmi troppo (la spiegazione è incompleta, al momento). Se queste poche righe vi hanno comunque incuriosito, potete comprare il romanzo qui.
Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani: sono passati molti anni dalla prima volta in cui ho letto Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani e dai ragazzi della Scuola di Barbiana, un classico della saggistica incentrata sul mondo della scuola. E forse non mi sarebbe neppure venuta troppa voglia di riprenderlo in mano se non fossi incappato, qualche giorno fa, in un articolo che mi ha abbastanza indispettito e sul quale ci sarebbe anche da discutere, magari tra qualche settimana, anche nella rubrica Quello che ho pensato. Qualche giorno fa, a Firenze, si è svolto un convegno promosso dall'Associazione Nazionale Presidi incentrato sul tema del disagio giovanile e sul ruolo che la scuola deve avere nel contrastarlo (ne trovate la cronaca qui). A fianco, a quanto si legge, agli interventi di vari esperti, sul palco dell'evento sono intervenuti anche Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, moglie e marito che da anni portano avanti una lettura sulla scuola che a mio modo di vedere è molto problematica. La tesi dei due è che la scuola sia stata in buona misura rovinata proprio dal libro di don Lorenzo Milani: quel volumetto, scritto negli anni Sessanta, avrebbe trasformato la scuola italiana, facendola investire da una ventata di buonismo che sarebbe la causa di tutti i problemi dei giovani italiani di oggi. Ovviamente, a leggerlo con attenzione, il loro discorso è spesso infarcito di fallacie logiche non indifferenti: ammesso e non concesso che la scuola italiana sia diventata buonista e promuova tutti (cosa tutta da dimostrare, visto che siamo forse il paese occidentale col più alto tasso di abbandono scolastico), non si capisce infatti perché debba essere questa la causa dell'ansia e dei suicidi tra gli studenti. Mastrocola, a quanto si legge nella cronaca, sembra sostenere che i suicidi siano dovuti al fatto che i ragazzi arrivino all'età adulta non pronti alle difficoltà della vita; come a dire che se fossero stati bastonati abbastanza alle scuole elementari non si sarebbero poi buttati dal balcone alle superiori o all'università. Purtroppo, il discorso è molto più complesso di quanto Mastrocola e marito provino a sostenere: i suicidi – che sono sicuramente un dramma, ma non l’unico problema dei nostri tempi per i giovani – non derivano da una mancanza di stress ma, com’è ovvio, da un eccesso di stress a cui i giovani sono sottoposti, eccesso che deriva a volte anche dalla stessa scuola (che non è meno stressante di una volta, ma lo è in modo diverso). Quella scuola che Mastrocola trova estremamente permissiva, che lei ritiene promuova tutti, in realtà fa ancora molta selezione, lavorando magari non più sulla bocciatura, ma sul voto, sui test selettivi all’ingresso dell’università e così via. Migliaia e migliaia di studi condotti in maniera scientifica sulla scuola in tutto il mondo, d'altra parte la smentiscono: proprio nei paesi in cui non si boccia e addirittura non si danno voti, si ottengono i migliori risultati quando si vanno a misurare gli apprendimenti e le competenze. Segno che forse non c’è affatto una correlazione tra i due fenomeni, come Mastrocola e soprattutto Ricolfi (che è un sociologo, e forse qualche analisi un po’ più approfondita dovrebbe farla), sostengono. Tornare a leggere don Milani, quindi, è un modo per capire cosa davvero voleva quel prete così strano, che cinquant’anni fa si scagliava, durissimo, contro le professoresse italiane. E quello che voleva, se si legge davvero il libro, non è certo la promozione facile: è una scuola più giusta. L’accusa non è tanto di bocciare, ma di bocciare il figlio del contadino, cioè lo svantaggiato, senza avergli offerto nessuna reale possibilità di uscire dalla propria condizione. L’accusa di don Milani non è tanto che la scuola selezioni, quanto che selezioni privilegiando il ricco, il figlio del notaio e del farmacista, del dottore e del professore, e lasciando indietro l’umile. Il suo è un invito – durissimo, perfino cattivo in certe pagine – a una scuola che elevi, che includa, che dia a tutti, ma davvero, le stesse possibilità. Non c’entra nulla il “buonismo”, e chi tira in ballo questi argomenti lo fa solo per non affrontare il nocciolo della questione, che è ben altro. Il libro, se vi interessa, può essere acquistato qui.
Argomentare, Watson! di Eugenio Radin: ve ne avevo parlato già la settimana scorsa e vi avevo detto che lo stavo in un certo senso divorando, ma non credevo di finirlo così in fretta: sto parlando di Argomentare, Watson!, bel libro appena edito da Ponte alle Grazie e scritto da Eugenio Radin, che forse conoscete per la sua attività su Instagram: Radin è infatti un giovane vicentino – tra l'altro faccio notare che tra lui, Rick DuFer, il sottoscritto e probabilmente anche alcuni altri che adesso non ricordo, la colonia di divulgatori di filosofia veneti è piuttosto cospicua –, che, col nickname di whitewhalecafe, realizza periodicamente dei brevi video in cui spiega le basi della buona argomentazione filosofica, mostrando anche le fallacie in cui spesso involontariamente cadiamo. È un tema che in passato abbiamo affrontato anche noi sul canale (ad esempio qui), e che in particolare i miei studenti di terza ben conoscono perché a volte faccio fare loro degli approfondimenti con relativa verifica su questo argomento, ma che Radin sviscera in maniera più approfondita. Non pensiate, però, che il libro sia un trattato ipertecnico su logica e fallacie: Radin sceglie invece un approccio molto accattivante, analizzando solo alcune delle principali fallace e spiegandole ogni volta tramite un breve racconto che ha per protagonista Sherlock Holmes. Così, tramite una storia, possiamo comprendere subito la portata e le conseguenze di quegli errori del ragionamento, con poi l'autore che, in chiusura dei capitoli, fa comprendere anche meglio il senso di quello che abbiamo letto. Insomma, il libro mi è piaciuto: è chiaramente un testo introduttivo, pensato per chi non è abituato a lavorare con questi argomenti, ma riesce a trovare una buona formula per parlare di cose complesse e soprattutto molto utili. Se vi interessa, lo potete acquistare qui, ma in generale tenetevi liberi perché domani sera sul canale ospiteremo una diretta con lo stesso Radin come ospite, per parlare più diffusamente di questo volume.
Quello che ho visto
E ora passiamo ai film, o meglio a film e interventi filmati, perché noterete che nell’elenco questa settimana c’è anche una lunga intervista.
Immanuel Casto come non lo avete mai visto (2022), con Alessandro Masala e Immanuel Casto: non so se conoscete la figura di Immanuel Casto, ma se siete appassionati di filosofia, musica, mondo LGBT e/o giochi in scatola, forse sì. È un personaggio molto particolare del nostro mondo intellettuale: inizialmente ha cominciato a farsi conoscere tramite alcune canzoni assai provocatorie, incentrate spesso su tematiche omosessuali ma dai toni sarcastici o comunque forti; poi si è fatto notare più indirettamente come attivista, collaborando a diverse testate giornalistiche e realizzando interi spettacoli teatrali legati ai diritti della comunità LGBT; in parallelo ha sviluppato anche dei giochi da tavolo innovativi ed interessanti, anche perché spesso a loro volta legati a questioni di attualità, e segnati da una ironia di fondo anche piuttosto marcata. Tutto questo, però, è stato anche spesso legato alla filosofia, come in fondo anche il suo nome d'arte un po' suggerisce; e in più, a completare il quadro, dobbiamo aggiungere che Casto è stato a lungo anche il presidente italiano del Mensa, l’associazione di persone dall'alto quoziente intellettivo e dotate soprattutto di forti abilità logiche. Io negli anni l'ho seguito in maniera un po' sporadica, conoscendo la sua storia solo loro a piccoli tratti, ma da qualche tempo lo seguo con maggior costanza sui social network e devo dire che, nonostante i suoi interessi non sempre combacino con i miei (mi sto riferendo in particolare i giochi da tavolo, genere che davvero conosco molto poco), trovo il suo modo di fare e di porre le questioni anche spesso interessante. Forse perché gli algoritmi hanno imparato un poco a conoscermi e a profilarmi, qualche giorno fa su YouTube mi è comparsa, tra i video consigliati, anche la lunga intervista che Casto ha concesso ormai quasi due anni fa ad Alessandro Masala, in arte Shy, all'interno del suo format Breaking Italy Night (di cui parleremo tra l’altro anche più avanti, all'interno del rubrica Quello che ho pensato). Visto che a suo tempo quella puntata forse non l'avevo vista o l'avevo vista distrattamente, me la sono riguardata con calma, trovandola piena di contenuti interessanti. Quel format, mi pare, funziona molto bene quando l'ospite principale è una persona che ha davvero qualcosa di interessante da dire, e Casto – anche per via della sua storia personale – di cose interessanti ne ha davvero molte da tirar fuori dal suo cilindro. Con un modo di spiegare sempre molto lineare e razionale, il cantante ha infatti affrontato temi scottanti, come quello del linguaggio inclusivo e in particolare della schwa (di cui due anni fa parlavano tutti e di cui adesso non parla più nessuno), delle lotte fratricide all'interno dei vari movimenti progressisti, anche della propria adolescenza difficile, per le difficoltà connesse all’intelligenza molto particolare di cui è dotato. Infine si è soffermato perfino sul Mensa, associazione tanto affascinante quanto vituperata. Insomma, mi è sembrata una chiacchierata estremamente proficua anche per chi la stava a sentire: se volete recuperarla, la potete trovare qui.
La verità è che non gli piaci abbastanza (2009), di Ken Kwapis, con Ginnifer Goodwin, Justin Long, Scarlett Johansson: cosa si fa di solito a San Valentino? Cosa avete fatto voi? Cenetta romantica? Gita fuori porta? A casa mia, purtroppo, nei giorni delle vacanze di Carnevale (che qui in Veneto sono stati gli scorsi lunedì, martedì e mercoledì), io ho avuto la febbre e quindi i vari progetti di gite e cene sono stati rinviati. L’uscita romantica l'abbiamo poi recuperata nel weekend, ma il giorno di San Valentino, con la febbre in remissione ma non ancora completamente scomparsa, abbiamo dovuto inventarci qualcosa da fare a casa. Essendo ormai vecchi dentro, abbiamo pensato ad un film d'amore, magari facendolo vedere anche ai figli. Scartabellando nel catalogo dei vari servizi di streaming ci siamo imbattuti in La verità è che non gli piaci abbastanza, film di qualche anno fa che io e mia moglie ci ricordavamo di aver visto ma di cui non rammentavamo molto altro. Così lo abbiamo fatto partire, confidando anche nel fatto che nel cast ci fossero attori di livello come Ben Affleck, Scarlett Johansson, Bradley Cooper, Jennifer Aniston, Jennifer Connelly, Drew Barrymore e altri ancora. Non ricordavamo, però, che il film, più che una commedia romantica sui benefici dell'amore, è in realtà una pellicola sulle coppie in crisi, e quindi forse non è del tutto indicato per chi viaggia a grande velocità verso la mezza età e un matrimonio ormai di vecchia data. La trama, in breve: film corale, si concentra in chiave ironica sulle diverse aspettative che in genere hanno le donne e gli uomini riguardo ai rapporti di coppia; ci sono ragazze che vivono con eccessiva ansia i primi appuntamenti, maschi che vengono usati come zerbini dalle bellezze di turno, incomprensioni varie, perfino qualche tradimento qua e là. Alla fine, comunque, un barlume di speranza si accende. Non è tremendo, ma neppure indimenticabile (e difatti me l’ero in buona parte dimenticato). Lo trovate sia su Amazon Prime Video che su Sky, ma non credo ancora per molto.
Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri (2023), di Jonathan Goldstein e John Francis Daley, con Chris Pine, Michelle Rodriguez, Justice Smith: quando è uscito al cinema, pochi mesi fa, come spesso mi accade non sono andato a vederlo, non avendone assolutamente il tempo, facendomene solo raccontare un po' la trama da mio figlio, che invece se l’era visto con qualche amico. Per la verità, però, non è detto che anche se avessi avuto il tempo avrei speso dei soldi per vedere un film tratto da Dungeons & Dragons, il famoso gioco di ruolo che non mi ha mai troppo appassionato. Perdonatemi se siete dei fanatici di titoli del genere, ma io e i miei amici, sia da bambini che poi in età da adolescenti, giochi del genere li abbiamo anche provati ma spesso ce ne siamo anche rapidamente allontanati, mirando ad altro (perlopiù videogiochi o meglio ancora i giochi all'aperto). La mia generazione, almeno qui in provincia, passava tradizionalmente molti pomeriggi, da aprile fino ad ottobre, nei campetti, negli oratori o nei giardinetti all'aria aperta a giocare a pallone, a sporcarsi di polvere e a tornare a casa con qualche botta sugli stinchi. Niente mondi fatati, poca fantasia. Comunque, nonostante questo momento nostalgico che vi chiedo di perdonarmi, questa settimana ho visto che il film in questione – Dungeons & Dragons - L'onore dei ladri – è ormai disponibile sulle piattaforme di streaming e me lo sono guardato con appunto i miei figli, contando sul fatto che fosse abbastanza avventuroso e ricco di colpi di scena da appassionare un pubblico di preadolescenti. In effetti il film non è malaccio: la storia è tratta molto liberamente dal gioco di ruolo e presenta un eroe e un’eroina, due ladri, appena scappati dal carcere, intenti a sconfiggere una terribile maga e a recuperare soprattutto l'affetto della figlia di lui, che non nutre più alcuna fiducia nel padre. C'è molta azione, ci sono vari colpi di scena e soprattutto c'è anche qualche momento comico o semicomico, che dovrebbe alleggerire la tensione. Il risultato è per la verità piuttosto prevedibile e non c'è mai il minimo dubbio che la cattiva di turno verrà sconfitta, ma diciamo che almeno le due ore abbondanti di film scorrono via abbastanza lisce e non ci si pente, alla fine di averle impiegate così. Se vi interessa avere il film può essere visto su Sky.
Quello che ho pensato
Come avrete visto, un paio di giorni fa sul canale ho pubblicato un video incentrato sul caso di Aleksej Navalny, l'oppositore di Putin trovato morto in carcere in circostanze assai misteriose. Ve lo dico fin d'ora: non voglio parlare di lui o del regime di Putin (anche perché quello che c’era da dire l’ho già detto), ma vorrei sfruttare questo particolare caso per riflettere assieme a voi sul modo in cui la discussione pubblica in Italia sia sempre estremamente faziosa e inquinata dalla tifoseria.
Come infatti ho detto più volte in quel video, mi aspettavo che il mio intervento su un fatto di estrema attualità avrebbe provocato subito l'arrivo in massa di quelli che solitamente sul web vengono chiamati troll (anche se secondo me questo nome è riduttivo). In effetti, già poche ore dopo la pubblicazione del video sono comparsi sotto ad esso una serie di commenti già previsti, a cui ci sono aggiunte anche delle mail indirizzate direttamente a me ed alcuni messaggi privati dello stesso tenore sui vari social network.
Questi messaggi possono secondo me essere divisi in alcuni grandi gruppi: per comodità, li chiamerò “gruppo del benaltrismo”, “gruppo del complottismo” e “gruppo di quelli che offendono direttamente”.
I benaltristi tendono a scrivere messaggi del tipo: «Sarà pur vero che Putin ammazza la gente, ma non è che noi occidentali siamo meglio, anzi». Uno (un insegnante, tra l’altro, a quanto pare) dopo avermi accusato di traviare i giovani con bieca propaganda anti-russa, mi ha detto ad esempio che durante la presidenza Trump negli Stati Uniti sono deceduti 17 giornalisti, e che quindi ne muoiono più in America che in Russia.
Il più bello dei commenti dei benaltristi, però, è questo che vi copio-incollo qui di seguito, in cui mi si dice che anche noi in Occidente ammazziamo la gente, e mi si cita come esempi Matteotti, Gramsci, Moro, i primi due uccisi dal fascismo (a cui molti accomunano ormai il regime putiniano) e l’ultimo ammazzato dalle Brigate Rosse, che non definirei proprio filo-occidentali:
Assange, poi, è l’apoteosi del benaltrismo. Quello che una volta era il mantra “E allora le foibe?”, ora è diventato “E allora Assange?”. Come se gli eventuali casini di Assange rendessero il regime di Putin meno colpevole. A proposito di fallacie, questi sono classici esempi di fallacie del tu quoque: cosa vuoi parlare di Putin, tu occidentale, ché di scheletri nell’armadio ne hai parecchi? Al che bisognerebbe rispondere: io di armadi nell’armadio posso averne finché vuoi, ma questo non cambia i termini della questione.
I complottisti invece sono ancora più fantasiosi, perché sostengono cose come: «In realtà Navalny si è suicidato per far ricadere la colpa su Putin», oppure «Navalny non era davvero un oppositore del regime, ma solo un corrotto che non ha mai fatto politica», o «Un nazista giustiziato dall’unico paese anti-nazista oggi al giorno», allegandoti a volte perfino dei video che dovrebbero documentare la corruzione di Navalny, ma in cui il personaggio che compare nel video stesso non assomiglia neppure lontanamente a Navalny.
E poi, infine, ci sono anche quelli che direttamente la buttano in caciara, dandoti dell'ipocrita, del venduto, del servitore dell'Occidente, del guerrafondaio e altre amenità del genere.
Ovviamente tutti questi messaggi, da un punto di vista puramente argomentativo e razionale, non hanno nessuna ragion d'essere: anche i più raffinati tra questi, infatti, ricadono in fallacie logiche facilmente smascherabili, presenti perfino nel libro Argomentare, Watson! di cui abbiamo parlato qualche riga più in alto. E, soprattutto, si tratta sempre dei soliti artifici retorici, proposti e riproposti fino allo sfinimento: insomma, dopo tanti anni di presenza sul web non solo non credo siano più in nessun modo efficaci, ma fanno anche un po' sorridere per la loro ingenuità.
Solitamente, molti etichettano questa miriade di interventi sotto l'etichetta dei troll, sospettando addirittura che in una certa misura interventi del genere siano voluti o pagati dal sistema di disinformazione di Putin. Io tendo però, sulla questione, ad avere un certo scetticismo, perché sono convinto che Putin non abbia neppure bisogno di pagare: nel nostro paese, come in parte anche in altri, penso infatti ci sia un discreto numero di persone che è disposto a fare il troll gratis.
Si badi bene: non sono tanti, ma sono molto combattivi, tenaci e con parecchio tempo da perdere. Sono organizzati in gruppi di poche persone e hanno una serie di account a disposizione (più account gestiti da ogni persona), con cui scrivono le loro stupidaggini e poi si mettono like a vicenda, dando l’impressione di essere molti di più di quelli che realmente sono. Il loro peso effettivo lo si vede nelle statistiche: sono davvero una manciata di tizi (quasi sempre maschi, quasi sempre di età abbastanza avanzata); ma se uno legge i commenti, sembrano di più, perché hanno la capacità di “impattare” tutti assieme. Poi, a ben guardare, fanno perlopiù tristezza, perché passano buona parte della propria vita a spargere in giro fandonie a favore di potenti a cui non interessa niente di loro, ma di sicuro hanno appreso qualche basilare tecnica di sfruttamento delle falle dei social network.
La vera domanda è dunque: perché una persona dovrebbe spendere parecchie ore al giorno del suo tempo libero per difendere l'indifendibile, senza riceverne niente in cambio? L'unica risposta che riesco a darmi – allargando l’analisi anche al di fuori dei social network – è che ci sia qualcosa di molto forte e di irrazionale che li smuove, sfidando perfino in certi casi il senso del ridicolo. Questo strano spendersi per Putin, infatti, emerge non solo con persone di bassa cultura, che potrebbero anche essere cadute in buona fede nell'inganno di qualche sistema di propaganda, ma a volte anche con persone di altissima preparazione.
Qualche mese fa, ad esempio, sono rimasto estremamente colpito da alcuni interventi televisivi di Angelo d’Orsi, importante storico italiano che, all'inizio dell'invasione russa dell'Ucraina, sosteneva la tesi secondo cui la guerra fosse stata voluta e provocata dall'Occidente, con Putin veramente intento a denazificare l’Ucraina.
Con tutto il male che si può volere agli Stati Uniti, questa tesi è platealmente assurda, da un lato perché è completamente priva di riscontri sul campo, ma dall'altro anche perché, banalmente, sta danneggiando e anche parecchio l'Occidente stesso, ridando ad esempio fiato a Trump contro Biden, portando a fratture interne all'opinione pubblica occidentale e così via. Che la guerra sia stata voluta e pianificata esclusivamente da Putin, d'altra parte, è stato platealmente ammesso anche da Prigožin, uno dei più potenti uomini di Russia, poco prima di essere fatto fuori nell'ennesimo incidente che è capitato ad un dissidente.
D’Orsi non è l'ultimo degli imbecilli: ha scritto anche dei manuali di metodo storiografico, dove insegna anche come fare a non cadere negli inganni dei documenti antichi. E a me ha lasciato basito vedere come uno che riesce a districarsi tra le menzogne del passato faccia una enorme fatica a districarsi tra le menzogne del presente, cadendo in tranelli pensati per persone di tutt'altra caratura. Certo, d’Orsi ha un passato e forse anche un presente di militanza politica nell’estrema sinistra, ma questo non giustifica il cadere come un allocco davanti a bugie propagandistiche davvero di bassa lega.
Un problema simile, però, affligge anche Carlo Rovelli, il noto fisico teorico, di cui tra l'altro ho letto con grande interesse alcuni libri. Se lo avete mai seguito su Twitter, avrete visto come ogni tanto anche lui esca smaccatamente dal seminato e cada in affermazioni molto discutibili, venendo tra l’altro costantemente rimbrottato da altri grandi fisici internazionali (alcuni esempi recenti li trovate nelle risposte a questo tweet), che gli rimproverano il più delle volte di fare analisi completamente campate per aria (o direttamente faziose) e non rispondenti ai fatti.
Di nuovo, come è possibile che persone che indagano misteri profondi, che sono abituata a lavorare con la mente e che dovrebbero conoscere le regole minime di un buon ragionamento possano incappare in errori così marchiani?
Attenzione, non me la sto prendendo con le loro idee, con un certo anti-americanismo, che ha le sue ragioni e che in molte circostanze ha anche buone frecce al proprio arco, ma col fatto che ci si inventi prove e discorsi. Se vuoi essere antiamericano, devi esserlo portando argomenti validi; se imbrogli, se citi i dati in modo superficiale, se cadi nella propaganda più superficiale allora sei solo un fessacchiotto all’opera.
C’è però un discreto numero di intellettuali, in Italia, che pensa che il fine giustifichi i mezzi: che per difendere i propri ideali politici (che si ritengono validi) sia più o meno lecito falsare un po’ le carte in tavola, usare le parole in senso fraudolento, fare insomma parecchia propaganda e poca spiegazione (neutrale, oggettiva) della realtà. Il che, se ci pensate un attimo, è anche soprattutto un atto di scarsa fiducia verso gli altri: visto che io capisco qual è il tuo bene (o il bene della società) e tu no, ti mostro solo quello che voglio mostrarti, per condurti dove io voglio condurti. Visto che non mi fido della tua capacità di giudizio, non ti dico tutto, ma solo quello che voglio io, o solo nel modo che voglio io.
Insomma, per farla breve, a me pare che nel nostro dibattito pubblico regni spesso molta faziosità e uno scarsissimo interesse per i fatti; anzi, i fatti vengono sempre piegati alla tesi che si vuole sostenere, una tesi che non muta mai, che è la stessa magari di quando si era giovani, cinquant’anni fa, e che si ripropone ad ogni pié sospinto.
Ecco, se devo fare un paragone, questo atteggiamento a me ricorda pesantemente quelle discussioni che si fanno dopo le partite di calcio. Probabilmente tutti voi, che siate appassionati o meno di questo sport, avete assistito spesso a confronti di questo tipo, o forse ne siete stati addirittura protagonisti.
Immaginate una situazione di questo tipo: si svolge una partita importante, magari decisiva per lo scudetto; una partita molto tesa, che vede contrapporsi due tifoserie che si odiano da sempre, come ad esempio quella dell'Inter e quella della Juventus. Poniamo che una delle due squadre, ad esempio l'Inter, sia più in forma e giochi nettamente meglio dell'altra, ma non riesca a segnare nonostante svariate occasioni da gol. E poniamo che nel finale della gara, magari addirittura durante un lungo recupero concesso dall'arbitro, l'altra squadra, cioè nel nostro esempio la Juventus, ottenga un controverso rigore, che magari viene pure revisionato al VAR ma che alla fine viene assegnato; e poniamo, per completare l'esempio, che la Juventus segni quel rigore, vincendo così la partita ed ottenendo tre punti decisivi per la classifica finale.
Le discussioni che si scatenerebbero subito dopo il fischio finale dell'arbitro possiamo già prevederle, punto per punto. Da un lato gli interisti accuserebbero la Juventus di aver comprato la partita, o di aver quantomeno beneficiato della cosiddetta sudditanza psicologica che investirebbe gli arbitri italiani; dall'altro gli juventini accuserebbero gli interisti di aver giocato male, non riuscendo mai a finalizzare le loro azioni, e si esalterebbero invece per il cinismo dei propri giocatori, capaci di attendere il momento migliore per colpire.
A nessuno, se non ad una sparuta minoranza di persone, interesserebbe davvero valutare la qualità del gioco delle due squadre in campo; e ad ancora meno appassionati interesserebbe valutare oggettivamente e onestamente la presenza o meno di quel calcio di rigore incriminato.
Se voi foste una persona che non ha visto quella partita, sapreste bene che – se chiedeste in giro, per ricostruire com’è stata la gara – non potreste fidarvi dei commenti degli interisti, né di quelli degli juventini, perché sarebbero sempre commenti faziosi. Per la verità sapreste anche di non potervi fidare neppure dei commenti dei milanisti, che magari speravano invece in un pareggio, né di quelli dei tifosi del Napoli o della Roma, che hanno anche loro delle vecchie faide con l'una o con l'altra squadra.
Per cercare un commento che potreste forse ritenere abbastanza onesto dovreste andare in cerca di qualcuno che ha visto la partita senza tifare per nessuna squadra: quando si parla di calcio in Italia, infatti, gli unici ad essere obbiettivi sono in genere quelli che odiano il calcio e che non vi riversano sopra dunque nessun sentimento irrazionale, nessun amore da stadio, nessuna speranza o spirito di vendetta.
Ecco, purtroppo tutto questo accade anche nel campo della politica, nel campo addirittura del diritto e dell'opinione pubblica in generale. Siamo sempre abituati a pensare che la faziosità sia il sale della politica e così non si trova nessuno (o quasi) che si esprima in modo più o meno obiettivo sui vari problemi, perché tutti si fanno trascinare da odii, speranze, paure, nostalgie di carattere estremamente personale.
Perché alcuni importanti intellettuali difendono Putin? Io credo che a spingerli in quella direzione sia quasi un ricordo della loro gioventù, di quando lanciavano strali contro gli Stati Uniti di Nixon e di Kissinger, paese che allora conduceva la guerra in Vietnam o provocava colpi di stato in Cile; e adesso, per un supposto spirito di coerenza, continuano ad avercela a morte con gli Stati Uniti. Poco importa che da giovani così finissero per difendere Mao, che si è rivelato poi essere un dittatore, o che oggi difendano Putin, che oggettivamente è molto più pericoloso di Biden; l’importante è ritrovare un po' di quello scatto giovanile, delle lotte che hanno segnato i loro anni migliori, e sentirsi coerenti con quelli che erano un tempo.
Purtroppo però dobbiamo anche imparare a capire che le nostre questioni personali, le nostre speranze, le nostre paure, non dovrebbero allungare troppo le mani sui nostri pensieri; che dovremmo anche imparare a riconoscere quali sono i nostri pregiudizi e arginarli, addirittura magari ogni tanto liberarcene, per capire un po’ meglio la realtà. Rischiamo di fare della nostra vita una partita di calcio e non incidere veramente su una realtà che avrebbe bisogno di contributi più seri; perché, se ci pensate bene, il calcio, soprattutto quando viene vissuto con faziosità, è una pura fonte di distrazione dai veri problemi, ci permette di azzuffarci tra noi senza capire come agire e come migliorare le cose. E purtroppo anche la politica, vissuta sulla base solo di slogan faziosi, finisce per produrre sterili contrapposizioni: il confronto anche aspro ha senso se si è onesti intellettualmente, perché solo in quel caso le nostre idee possono far breccia nelle menti altrui; altrimenti è solo un litigare come appunto si litiga per un rigore o per un fuorigioco.
Aggiungo un ultimo dettaglio, per inimicarmi qualcun altro (visto che non bastano quelli che ho già citato). Qualche settimana fa Alessandro Masala di Breaking Italy, di cui ho parlato anche qualche riga sopra, ha ospitato nel suo Night – trasmissione dedicata a una lunga intervista a un personaggio famoso – il noto giornalista Marco Travaglio. La trasmissione non l’ho vista, e non me ne importa granché, perché non amo Travaglio e il modo che ha di esprimere le sue idee (che è un modo da molto tempo non fattuale: sono finiti da molto i tempi in cui faceva libri su Berlusconi citando sentenze su sentenze; ora ha capito che in TV si può dire quasi tutto, e va a ruota libera, incurante dei riscontri). Tra l’altro, molte delle affermazioni di Travaglio sono smentite da una miriade di dati, e uno storico come Mirko Campochiari si è anche impegnato a metterli in fila.
Quello che però mi ha colpito di più sono i commenti sotto al video di Shy (li potete leggere qui, se vi interessa). È tutto un “ti ha asfaltato”, “ti ha sovrastato”, “ha vinto 4-2”, “che stile”, “un gigante”. Spostateli sotto una partita di calcio e starebbero bene allo stesso modo. A molti di noi non interessa che le cose che vengono dette siano vere o false, ci portino a ridefinire le nostre idee o ad approfondirle: ci interessa che il personaggio per cui facciamo il tifo vinca. Se per farlo deve urlare più forte, parlare a ruota libera senza un minimo di riscontro o usare diverse fallacie, non ci interessa. L’importante è vincere, come quando nel calcio si vince “rubando” la gara, e si orgogliosi di avercela comunque fatta.
Quello che ho registrato e pubblicato
Facciamo come al solito anche il punto sui video e sui podcast che sono usciti questa settimana:
La morte di Navalny e dei dissidenti russi: un video che mette in fila le morti sospette (solo le principali) avvenute in Russia negli ultimi anni
Il pensiero di Luigi Pirandello: secondo e ultimo video sull’importante scrittore italiano, premio Nobel per la letteratura
Olimpiadi tra le due guerre mondiali (e Berlino 1936): continua la storia delle Olimpiadi, arrivando a quelle tenute nella Germania nazista
Introduzione all'Etica di Spinoza (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
I moti del 1898 e le loro conseguenze (per il podcast “Dentro alla storia”)
Micromega e la nostra vanità
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
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Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Il secolo dei genocidi di Bernard Bruneteau: questa settimana in Italia si è parlato tanto di genocidi, spesso a caso, usando la parola “genocidio” come sinonimo di “strage”. Il genocidio è, però, storicamente e giuridicamente, qualcosa di particolare, ben più circoscritto di una semplice strage; ha delle peculiarità che lo rendono diverso dagli altri eventi terribili e luttuosi che purtroppo ci circondano. Per capire di cosa si tratta, un classico è Il secolo dei genocidi, bello studio di Bernard Bruneteau che prima o poi nella vita conviene leggere (anche se non è facilissimo). Il volume, che tra l’altro costa anche abbastanza poco, può essere acquistato qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
E chiudiamo come sempre anche con una panoramica su quello che ci attende nei prossimi giorni:
domani, come già annunciato, tenetevi pronti per la diretta con Eugenio Radin di Argomentare, Watson!;
mercoledì e giovedì sarà la volta dei podcast, rispettivamente con Spinoza e Giolitti;
venerdì pubblicherò credo un video che ho già pronto da qualche giorno, una specie di “FAQ - Risposta alle domande più frequenti” del canale;
sabato vorrei riuscire a far uscire l’ultimo video dedicato a Guglielmo di Ockham;
domenica infine sarà la volta di nuovo del podcast filosofico, con Spinoza, mentre lunedì prossimo ci sarà il Simposio mensile per gli abbonati (il tema è impegnativo: Cosa rimane della realtà, tra realtà virtuale, realtà "reale" e realtà AI-generated?)
E questo è tutto. Ci vediamo sempre qui lunedì prossimo, ormai verso la fine del mese di febbraio, per fare il punto sulla situazione. Non mancate!
Professore , dato che lei legge molti libri condividendone la trama , le vorrei consigliare
la lettura di "L assassino di Pitagora" di Marcus Chacot , pubblicato da TEA .
Nel 6 secolo a.c. nella comunita' pitagorica di Crotone avvengono degli omicidi che scuotono
il futuro della citta' . Un modo per apprendere la matematica e riflettere su di essa .