Dai meme inaccurati a Boris fino ad arrivare all'Italia di oggi, parlando comunque anche di Putin, di Elemental, di Socrate, della Marcia su Roma, dei Cranberries e di Voglio mangiare il tuo pancreas
Il clima sta già cambiando, ve ne siete accorti? Appena ritrovato il corpo di Giulia Cecchettin eravamo tutti femministi: politici che chiedevano scusa per il fatto di essere maschi, donne che condividevano tutto il loro sdegno su ogni social network, manifestazioni importanti nelle più grandi città italiane. È passato appena qualche giorno e già la protesta sta scemando, già qualche consigliere comunale o regionale strampalato comincia a fare dichiarazioni assurde, qualcuno addirittura invoca il “ritorno al patriarcato”, qualcun altro dice che il patriarcato non esiste più da decenni.
Tempo un paio di mesi e rischiamo di tornare alla nostra placida indolenza, a dimenticare la rabbia di questi giorni, i minuti di silenzio e quelli di rumore, i segni rossi sulle guance. Perché è così che funziona, di solito: grande rabbia, grandi lacrime, grandi urla contro il cielo, e poi basta una vittoria in Coppa Davis per farci dimenticare tutto.
Non che vincere la Coppa Davis sia brutto, anzi, e poi vincerla in questo modo quasi eroico (soprattutto considerando la semifinale) è ancora più bello; ma abbiamo questa strana – e malsana – abitudine di lamentarci sempre del paese senza però fare le azioni concrete, anche piccole, che servirebbero per cambiarlo.
Non partiamo però col piede sbagliato: avremo modo, nel procedere della newsletter, di addentrarci anche su questi temi. Adesso cominciamo però dai libri, dai film e dalle nostre solite rubriche.
Quello che ho letto
Iniziamo allora proprio dai libri. Come vedrete, questa settimana ho deciso di cambiare almeno in parte le carte in tavola, dando avvio a qualcosa di nuovo.
Marcia su Roma e dintorni di Emilio Lussu: Emilio Lussu spero lo conosciate, quantomeno di fama, tutti: anche perché la sua vita è stata significativa e rappresentativa dell’Italia della prima metà del Novecento. Nato in Sardegna nel 1890, fece in tempo a laurearsi in giurisprudenza appena prima dell’entrata dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Interventista democratico, si arruolò nella Brigata Sassari e combatté sull’Altopiano di Asiago, consegnandoci quello che è il più bello e vivido resoconto della Grande guerra sul fronte italiano, Un anno sull’Altipiano, di cui abbiamo anche parlato in passato su queste stesse pagine. Dopo la guerra fondò il Partito Sardo d’Azione, che divenne subito il primo partito nell’isola e lo proiettò in Parlamento: da lì assisté quasi impotente all’imporsi del fascismo, di cui fu da subito un fiero oppositore. Venne aggredito più volte dai fascisti e, negli anni successivi, mandato al confino; confino da cui riuscì però ad evadere, rifugiandosi in Francia, dove fu tra i fondatori di Giustizia e Libertà. Combatté poi pure in Spagna, con i repubblicani, per poi girare mezza Europa in fuga dai nazisti; rientrò in Italia per partecipare al CLN e fu tra i ministri del primo governo di unità nazionale nato dopo la fine della guerra. Fu poi anche padre costituente e senatore per altri vent’anni all’interno del Partito Socialista. Insomma, una vita come non ce ne sono molte: forse solo Sandro Pertini poteva vantare un curriculum paragonabile a quello di Lussu per impegno, forza d’animo e dedizione alla causa. Ma Lussu ha avuto, in più, anche la capacità di saper mettere nero su bianco, di tanto in tanto, le sue esperienze. Ho già citato Un anno sull’Altipiano, il suo libro più bello e che consiglio spesso; ma finora non avevo ancora mai letto per intero Marcia su Roma e dintorni, sorta di memoriale scritto nel 1931 mentre si trovava in esilio in Francia e pensato per raccontare la presa del potere fascista ad un pubblico internazionale. Il libro si legge abbastanza in fretta e fa il punto su tante questioni che un buono studioso di storia già conosce in profondità; ma viste dall’ottica di un protagonista, di uno che quelle cose le vedeva accadere vicino a casa e a volte anche sulla propria pelle. L’ho iniziato da poco, ma lo finirò di sicuro in fretta. Intanto il volumetto, facile e accessibile, potete anche voi acquistarlo qui.
Putin storico in capo di Nicolas Werth: di questo libro ho parlato qualche settimana fa sui social network, nella rubrica in cui presento le uscite più interessanti che scorgo in libreria. Come ho più volte raccontato, quella rubrica è una sorta di wishlist, perché lì, in pratica, ci metto i libri che, se avessi abbastanza tempo e abbastanza soldi, mi piacerebbe comprare e leggere. Ovviamente non ho modo di affrontare tutti quei volumi, ma qualcuno di tanto in tanto attira particolarmente la mia attenzione e quindi finisco per leggerlo. Uno di questi è stato, questa settimana, il saggio Putin storico in capo di Nicolas Werth, appena pubblicato da Einaudi. Più che di un libro vero e proprio bisognerebbe però forse parlare di un articolo, perché il saggio di Werth si legge davvero in pochissime decine di minuti e forse avrebbe avuto più senso se abbinato a qualche altro scritto, in modo da dare un po’ più di sostanza al volume e giustificarne il prezzo. Ad ogni modo, questo discorso editoriale non inficia la validità di quanto scritto all’interno di quel volume: anzi, direi che il messaggio di Werth è una delle cose più interessanti che ho letto nell'ultimo anno e mezzo sulla guerra in Ucraina. Anche perché, in effetti, non parla tanto di quella guerra, quanto piuttosto cerca di delineare il progetto di Putin imbastito anche tramite l'uso politico della storia. I più attenti, infatti, hanno già capito da tempo che il piano di invasione dell'Ucraina non aveva tanto a che fare con la NATO, e men che meno con la presunta presenza nazista in quel territorio, quanto piuttosto con un progetto di più ampio respiro messo in piedi (platealmente, senza mascheramenti) negli ultimi vent’anni: quello di un imperialismo russo che si collega a propositi panslavisti ottocenteschi che gli studiosi di storia contemporanea conoscono già piuttosto bene. Da anni, infatti, Putin presenta la Russia come l'ultimo baluardo contro la decadenza del consumismo occidentale, come un paese in cui gli antichi (e sacri) valori religiosi, slavi, nazionali dovrebbero tornare a convivere, basandosi su presupposti etnici. Il progetto, in più, viene sostenuto tramite un utilizzo spregiudicato della storia che ha portato più volte Putin a rivalutare gli antichi Zar, sostanzialmente beatificati con l'appoggio della chiesa ortodossa, ma allo stesso tempo a rivalutare ampiamente Stalin e invece a criticare fortemente Lenin. Per chi non conosce bene la storia e come essa possa diventare strumento politico, tutto questo può sembrare abbastanza assurdo, perché sembra strano che si possa esaltare Stalin, un dittatore totalitario autore di alcune tra le più pesanti repressioni del Novecento, e invece criticare Lenin, che certo può avere delle importanti colpe ma che rispetto a Stalin può sembrare in genere ben più mite. Ma il progetto di Putin è un progetto di stampo sostanzialmente nazionalistico: e in questo senso, Stalin e Breznev sono quelli che hanno esaltato il nazionalismo russo opponendolo ai nemici esterni, che fossero i nazisti come nel caso di Stalin o gli americani come nel caso di Breznev, mentre Lenin era un internazionalista, uno che mirava alla fine delle frontiere e dei confini e quindi, nell'ottica di Putin, un traditore della patria. Capite bene che in tutto questo, i concetti di comunismo, zarismo o capitalismo finiscono per non contare quasi nulla; l’ideologia politica viene completamente cancellata, in favore di un sincretismo che serve unicamente a rafforzare il potere di Putin. Emerge, piuttosto, un richiamo quasi mitico a figure leggendarie della storia russa, nel tentativo perenne di individuare un nemico esterno che minaccia il popolo, popolo che poi inevitabilmente deve essere difeso da una figura forte, sia essa uno Zar o un dittatore. Insomma, in tutti questi anni Putin ha sempre mirato a trovare una legittimazione storica per il proprio potere e per le proprie mire, operazione che, come è facile comprendere, ha comportato la progressiva cancellazione (o oblio) di tutti i crimini commessi dai dittatori precedenti. In questo senso, il libro di Werth è interessantissimo anche per l'analisi che fa dei manuali di storia delle scuole russe, manuali che fino agli anni '90 raccontavano con larga dovizia di particolari i crimini del periodo staliniano, ma che oggi, dopo le successive revisioni operate dai governi di Putin, dedicano all'argomento appena un paio di pagine, riducendo le repressioni a piccoli eccessi, senza riportare mai le dimensioni del fenomeno. Questo ovviamente porta a due riflessioni: da un lato, dovrebbe farci capire quanto la storia, libera dal potere politico, sia necessaria per un sistema democratico e libero, perché tutti i regimi hanno sempre usato la storia, regolandola molto più dell'arte o della letteratura, per radicare il loro potere; dall'altro, rende ancora più imbarazzante il fatto che alcuni storici italiani, anche di una certa fama, non siano stati in grado nell’ultimo anno e mezzo di esercitare un po’ di spirito critico verso il progetto putiniano, che invece, da questo punto di vista, è molto chiaro e molto simile ad altri progetti che abbiamo visto in passato. Se vi interessa, il libro può essere acquistato qui.
Le sette morti di Evelyn Hardcastle di Stuart Turton: l’unico romanzo, l’unica opera di fiction presente questa settimana in lista è questo libro di Stuart Turton, campione di vendite qualche mese fa di cui vi ho già parlato nelle settimane scorse. La trama è complicata: ambientato in un tempo non meglio definito che assomiglia comunque all’inizio del Novecento, si concentra su un omicidio (o forse un suicidio) che si svolge all’interno di una villa di campagna semi-abbandonata, tra membri dell’alta società britannica. Ciò che lo differenzia però da un classico giallo alla Agatha Christie è il fatto che il detective non è una vera e propria persona, ma piuttosto una coscienza, uno spirito che si incarna di giorno in giorno in un diverso protagonista della vicenda, avendo così modo di esaminare l’accaduto da diverse prospettive. Detta così, la trama potrebbe sembrare interessante: un’idea del genere potrebbe infatti offrire lo spazio per riflessioni sul punto di vista, sul soggettivismo e perfino su Nietzsche, ma mi sembra che Turton sfrutti l’occasione sempre e solo fino ad un certo punto. Non c’è, cioè, nel romanzo l’intenzione di elevare il discorso al di sopra della trama e dei meccanismi puri e semplici della suspense; il che non è un male di per sé, ma lascia un po’ di amaro in bocca per quello che l’opera potrebbe essere e invece non è (ancora). Certo, sono solo a metà del romanzo, quindi di strada da fare ce n’è ancora parecchia, e la mia opinione potrebbe anche cambiare con lo scorrere delle pagine. Intanto, se vi interessa, il libro lo potete comprare qui.
Quello che ho visto
Passiamo ora ai film, anche se, come vedrete, in lista ci sono due cartoni animati e un concerto, quindi nulla di troppo tradizionale.
The Cranberries: NPR Music Tiny Desk Concert: YouTube a volte mi spaventa: io non so esattamente quanti video possa contenere, ma con un po’ di fortuna ci si può imbattere in un pertugio che ti porta ad aprire una porta a cui non avevi mai pensato, e che ti permette così di arrivare ad un intero mondo per te inedito, ma pieno di video e di possibilità. Prendiamo il settore musicale. È cosa nota che su YouTube si possa trovare qualsiasi canzone, spesso in svariate versioni (videoclip, con il testo delle canzoni, in versione live, coverizzata da aspiranti cantanti in giro per il mondo e così via); ma poi, a saperle trovare, si trovano anche delle chicche che neppure ti sarebbe venuto in mente di cercare tramite la barra di ricerca. Questa settimana, ad esempio, mi sono imbattuto nella serie “NPR Music Tiny Desk Concert”: una serie piuttosto lunga di video, che va avanti da anni, basati su piccoli concerti della durata di solito di una ventina di minuti organizzati dall’emittente radiofonica americana NPR. La particolarità è che i concerti non sono piccoli solo dal punto di vista della durata, ma anche degli spazi: gli artisti si trovano ad esibirsi in una sorta di cubicolo da ufficio, cosa che rende il tutto molto intimo ma anche complesso, perché gli strumenti che si possono portare all’interno di quello spazio minuto non sono certo molti. Vi consiglio di dare un’occhiata a tutto il catalogo (molto corposo) che comprende il fior fiore della musica degli ultimi vent’anni, ma io questa settimana mi sono gustato particolarmente l’esibizione dei Cranberries, registrata nel 2012, quando la band irlandese era appena tornata assieme dopo qualche anno di stop. Forse anche per questo, Dolores O’Riordan e compagni decisero in quel frangente di mettere in scena alcuni pezzi importanti del loro repertorio, come Linger, Ode to My Family (che fin da quand’ero ragazzo è sempre stata una delle mie preferite) e l’immancabile Zombie. Sapendo della prematura scomparsa della cantante, dotata di una voce e di un’interpretazione così caratteristiche, ascoltare questo concerto è un po’ una staffilata al cuore, ma ne vale la pena. Lo potete trovare qui.
Elemental (2023), di Peter Sohn: a proposito di cartoni animati, questa settimana ho visto Elemental, l’ultimo film Pixar uscito al cinema qualche mese fa e già da tempo disponibile anche su Disney+. Mi ha lasciato addosso, a dire il vero, una sensazione strana: da un lato, l’ho trovato infatti un film affascinante, sia per la messa in scena che mi sembra visivamente efficace dei quattro elementi naturali personificati, sia per il messaggio che emerge sotto alla trama; dall’altro, però, mi è sembrato anche un esperimento in parte fallito. Il progetto, a ben guardare, era infatti molto ambizioso: quello di parlare di una storia di integrazione, di convivenza tra diversi, basando la propria trama su un personaggio maschile fatto d’acqua e uno femminile fatto di fuoco; un tema già trito e ritrito, forse, ma qui portato alle sue estreme conseguenze, perché tra acqua e fuoco non si può parlare solo di una convivenza difficile, ma addirittura di una convivenza impossibile, perché l’uno finisce per spegnere l’altro o farlo evaporare, e questa difficoltà è legata alla natura stessa degli elementi, a qualcosa che cioè non si può cambiare né moderare. Quando parliamo di convivenza tra popoli (o perfino tra sessi) diversi, c’è sempre qualcuno che tira in ballo supposte leggi di natura o diversità naturali; ma noi sappiamo bene che la natura si può tranquillamente modificare, o al limite addolcire. Quello che consideriamo naturale, in realtà, è spesso solo il frutto della tradizione o dell’abitudine, e anche aspetti che di solito consideriamo naturali (la sessualità, l’istinto, la violenza ecc.) vengono da sempre plasmati anche dall’interazione e dalle regole sociali. Nel caso dell’acqua e del fuoco, però, non è così: l’impossibile convivenza di questi due elementi è un fatto veramente chimico, intrinseco alla loro stessa natura, e imbarcarsi in una storia del genere può sembrare a prima vista un mezzo suicidio. Quindi certo, il film è ambizioso, e questo mi pare sia il suo più grande pregio (d’altronde, la Pixar, già dai tempi di Inside Out, ci ha dimostrato di non aver paura di buttarsi a capofitto in temi complicati); e però proprio questa forte ambizione mi pare abbia un po’ tarpato le ali alla pellicola. Il film alterna momenti molto azzeccati ed anche divertenti ad altri che a me hanno fatto un effetto soporifero; con una storia che è troppo altalenante, perfino troppo complessa dal punto di vista del messaggio, e in cui i momenti topici finiscono anche per annacquarsi in un ritmo a volte troppo lento. Insomma, un film alla fine dei conti incerto, che poteva essere un capolavoro ma che ha un po’ mancato il tiro, diventando un prodotto discreto e nulla più, almeno dal mio punto di vista. Peccato. Lo trovate, come detto, su Disney+.
Voglio mangiare il tuo pancreas (2018), di Shin'ichirô Ushijima: gli anime giapponesi sono molto particolari, ma potremmo dire che in generale tutta la narrativa nipponica è originale ed estrema: così diverso dal nostro, l’immaginario di quel paese prevede storie cupe e violente alternate a vicende strappalacrime e intense, in un modo che a noi spesso può sembrare esagerato. E questa tendenza a calcare molto la mano, a mio avviso, risalta in maniera molto chiara anche in Voglio mangiare il tuo pancreas, che lascia un po’ interdetti fin dal titolo. Ma non è solo il titolo a stupire: fin da subito, infatti, ci viene detto che la protagonista femminile della vicenda è destinata a morire molto presto, prematuramente, e che la storia che in qualche modo si viene a creare tra i due personaggi è quindi destinata a non durare. Ciononostante, e nonostante anche qualche ulteriore eccesso qua e là, la storia riesce comunque a fare breccia, soprattutto perché i giapponesi hanno dalla loro anche la capacità di raccontare i sentimenti intimi senza remore e censure. Il pancreas, alla fin fine, c’entra poco, ma comunque non guardatelo se non volete rimanerci male. Lo trovate sia su Amazon Prime Video che su Netflix (anche se su quest’ultimo servizio di streaming è in scadenza, quindi dovete guardarlo in fretta).
Quello che ho pensato
Premessa: la riflessione di questa settimana sarà una riflessione da boomer. Mi sento vecchio anche solo ad averla pensata, 'sta cosa, ma in realtà mi pare anche a suo modo interessante, quindi devo scriverla. Se siete giovani, perdonatemi: è che è difficile essere adulti nel mondo di oggi; e noterete che il discorso non è fine a se stesso, visto che poi vorrei arrivare a parlare addirittura del futuro del paese.
Il tema è quello dei meme. Se siete vecchi come me o forse più, probabilmente non sapete benissimo di cosa si tratta. Possiamo definire i meme come quelle immagini virali che si diffondono online – soprattutto sui social network – per prendere in giro qualcosa o qualcuno, spesso con fare dissacrante. Il più delle volte si basano sul prendere un’immagine (sempre la stessa, ripetuta fino allo sfinimento) e riproporla in molte variazioni assurde, aggiungendo didascalie che si adattano alle circostanze più disparate.
Faccio prima a mostrarveli che a spiegarveli, a dire il vero. Ecco solo un paio dei meme più celebri degli ultimi anni:
Forse, visti così, non fanno neppure ridere. Ma quando ne vedi centinaia, uno dopo l’altro, giorno dopo giorno, scatta un effetto particolare: è come se queste piccole cose buffe si andassero a sommare l’una con l’altra, e alla fine il meme ti fa ridere non solo (o non tanto) per quello che ti mostra, ma anche per il carico di storia che si porta dietro, per l’accumulo. Ridi anche per i meme precedenti; e ridi con gli altri che vedono quel meme sui social perché anche loro si ricordano i meme che hai già mostrato loro, e quindi ridi pure per l’intesa che quei meme hanno creato.
Ecco, questi elementi sono indubbiamente la novità comunicativa e comica degli ultimi anni, e a dirla tutta qualcuno ha cominciato pure a studiarli, per capire le dinamiche del loro funzionamento e della loro viralità.
C’è però un problema: a me, nove volte su dieci, non fanno ridere.
Non arrabbiatevi, non offendetevi: lasciate che vi spieghi. Da anni i miei studenti – ed è una cosa a dire il vero anche carina – ogni volta che trovano un meme legato in qualche modo alla storia o alla filosofia se lo mettono da parte per farmelo vedere. «Prof, prof, guardi cosa mi è capitato nel feed di TikTok!», mi fanno, magari all’inizio dell’ora; e poi mi mostrano il loro cellulare, con l’immagine pescata da Instagram o appunto dal social network cinese. Oppure, addirittura, me li inviano, mi taggano sui loro social network o altre cose di questo tipo, così che anche di pomeriggio, all’istante, io possa vederli.
Per molto tempo, il re indiscusso di queste “citazioni” è stato il Superuovo, la celebre pagina di meme filosofici, la prima a mia memoria a creare battute su Nietzsche, Kant o Platone. In pratica, per ogni post che facevano io avevo lo studente che me lo mostrava. Non ho nemmeno mai pensato di cominciare a seguirli sul web, quelli del Superuovo, perché tramite una classe o l’altra i loro post li vedevo sempre, anche più volte al giorno.
Oggi i produttori di meme si sono moltiplicati a dismisura e i miei studenti, in parte, si sono calmati. Ma il copione un po’ si ripete ancora: loro che mi fanno vedere un meme su cui hanno riso, e io che dico: «Be’, ma la cartina geografica è sbagliata», oppure «Non è così che funziona quel paradosso» o altre cose ancora.
Scusate il francesismo, ma sì, faccio il cagacazzi, quello che ti rovina ogni battuta, quello che – mentre tutti ridono – salta fuori con la contestazione, che ha sempre qualcosa da ridire. Perché non solo i meme non mi fanno molto ridere, ma il più delle volte li trovo fastidiosamente imprecisi. Anzi, direi che negli anni si è assistito a un progressivo impoverimento pure del meme: quelli del Superuovo erano in genere ben fatti, quelli di oggi lo sono sempre meno (salvo qualche eccezione, ovviamente).
Da un lato questo mi preoccupa: una volta io ero dalla parte di quelli che ridevano, e quando qualcuno voleva a tutti i costi fare il puntiglioso davanti ad una battuta mi veniva voglia di scappare. Detta in altri termini: una volta ero giovane e pensavo che i puntigliosi fossero tutti vecchi; solo che adesso il puntiglioso sono io. Dall’altro, però, mi dico anche che: a) faccio il puntiglioso solo con i miei studenti e i miei figli, e ormai anche questa è quasi una posa comica, un meme (il meme del prof che non ride ai meme); b) la colpa non è solo mia, è anche dei meme stessi. E quest’ultimo è forse il punto più interessante di tutta la faccenda.
Seguitemi un attimo sulla questione. Io sono sempre stato uno a cui piace ridere; penso anzi che la filosofia dovrebbe imparare a prendersi un po’ meno sul serio, a ridere un po’ di se stessa, anche perché solo l’autoironia può davvero aiutare a non uscire con le ossa rotte da questo mondo. I miei studenti sanno bene, ad esempio, quanto si possa scherzare con me sul tal filosofo o sul tal re, senza troppi problemi (prendono in giro perfino Kant, quegli scriteriati!); e anzi sanno che si può scherzare anche su noi stessi, io su di loro e loro su di me (entro certi limiti, ovviamente).
Quindi l’ironia, in questo campo, dev’essere sacrosanta, e in fondo io in passato ci ho costruito sopra anche dei libri. Però l’ironia deve essere anche fatta bene. Deve essere precisa, per essere davvero efficace.
Voglio dire: a fare una battuta su Platone mettendo in bocca al filosofo cose che non ha mai detto son capaci tutti; più difficile è fare una battuta sfruttando le sue reali parole. A creare un meme su un fatto storico riportandolo con degli errori o delle forzature son capaci tutti; a farlo preciso invece bisogna esser bravi. E purtroppo la qualità dei meme storici e filosofici si è mediamente piuttosto abbassata negli ultimi anni.
So che può sembrare una occupazione piuttosto oziosa, ma nelle settimane scorse ho provato a chiedermene il perché. Credo ci siano almeno tre motivi che possono aiutarci a comprendere quella che a me pare una tendenza piuttosto chiara:
le battute valide sulla storia e la filosofia sono ormai state già dette più o meno tutte, i meme su Nietzsche e Parmenide sono già stati fatti, quelli su Cesare e Napoleone pure, e quindi, se non ci si vuole ripetere, si è costretti a forzare la mano, buttandosi su temi più complessi e meno efficaci;
molti meme arrivano ormai sempre più spesso dagli Stati Uniti, dove la conoscenza – a livello giovanile, quantomeno – della storia e della filosofia è molto più approssimativa, ed è quindi più facile cadere in pesanti imprecisioni;
tendiamo ad essere sempre meno rigorosi con noi stessi e con gli altri, sempre meno esigenti, e quindi ci accontentiamo di buttar fuori meme anche bruttini o, appunto, pieni di imprecisioni, contando che pochi se ne accorgeranno.
È quest’ultimo punto, in particolare, a preoccuparmi. Ripeto: sarò un po’ boomer, ma a me sembra – allargando il tiro – di scorgere sempre più spesso segnali di “svacco” nella nostra società, di gente che si lascia fin troppo andare. Dopo il Covid mi sembra che si sia diffusa, nella nostra Italia, una stanchezza, una svogliatezza, una voglia di “mollare” che prima non c’era, o che prima era meno evidente.
Pensate, ad esempio, alla politica. Le recenti elezioni hanno fatto registrare il minimo storico riguardo al numero dei votanti: nel 2018 aveva votato quasi il 73% degli italiani, nel 2022 meno del 64%. Il 9% in meno in solo 4 anni è un crollo verticale, non certo un calo fisiologico; eppure di questo crollo si è parlato pochissimo. Sfiducia? Certo. Ma anche, a mio avviso, la rinuncia, l’idea che forse non ne valga più la pena di darsi da fare per migliorare le cose.
Altro esempio: il calo demografico. I dati dell’ISTAT (il report può essere scaricato qui) ci dicono che nel 2022 in Italia sono nati 393.000 bambini circa. Dieci anni prima, nel 2012, ne erano nati 534.000. In dieci anni, è un crollo del 26%, quasi 150mila bambini in meno. Da cosa dipende? Sicuramente da moltissimi fattori, ma penso che la sfiducia, l’idea che non ne valga la pena rimanga uno dei fattori principali.
Ecco, tra i meme fatti male e il calo demografico c’è un abisso, ovviamente: sono due fenomeni diversissimi, che hanno anche un impatto ben differente sulla nostra vita. Ma mi sembra che, almeno in parte, siano due facce della stessa medaglia: non vale più la pena di impegnarsi a fare battute fatte bene, basta buttar lì, velocemente, la prima cosa che viene in mente, tanto la gente ride comunque. Il mondo non ti chiede più di questo, e non sa darti più di questo, e allora tanto vale accontentarsi.
In questo senso, Boris è stata una serie profetica. Se non la conoscete, dovreste vederla (la trovate ancora, credo, su Disney+). Uscita addirittura nel 2007, raccontava la produzione di una fiction televisiva fatta letteralmente coi piedi; “a cazzo di cane”, come ci ricordava più volte il regista. Era una serie ironica, dissacrante, che però fotografava un pezzo d’Italia che già allora era presente, e che però temo abbia preso sempre più piede: un’Italia che non ce la fa più, che non ne può più, che non ha più la forza o la fibra per impegnarsi davvero.
Il protagonista delle vicende era il regista René Ferretti (un mio quasi omonimo, ed è per questo forse che lo sento così vicino); un regista che voleva anche provare a realizzare qualcosa di valido, ma che poi – costretto dai tagli al budget, dalla fretta della produzione, dagli attori indecenti che gli venivano imposti tramite raccomandazione – cedeva al mercato, con scelte al ribasso che lui stesso trova imbarazzanti. Fino a quando lui stesso, ormai impotente, non decideva di abbracciare lo squallore, urlando: «La qualità ci ha rotto il cazzo». Su Boris, tra l’altro, esistono innumerevoli meme.
Ecco, a me pare che assomigliamo sempre di più a René Ferretti: ci abbiamo provato, ad essere migliori, ma ci siamo accorti di combattere contro i mulini a vento. E un po’ alla volta ci siamo adagiati, un po’ alla volta abbiamo rinunciato. Non andiamo più a votare, non ci impegniamo più nelle cause sociali, non facciamo nemmeno più figli (non che far figli sia necessario, sia chiaro: ma è comunque un segno di fiducia nel futuro). I nostri giovani, quando possono, emigrano, spesso perché pensano che questo paese ormai sia un caso disperato.
E così ci siamo adagiati in questa imprecisione perenne, in questo timor panico davanti a qualsiasi cosa che ci chieda uno sforzo in più, uno sforzo nuovo. Avrete letto della decisione dell’attuale maggioranza di vietare ogni possibile produzione e commercializzazione di carne coltivata (impropriamente chiamata “carne sintetica”): una decisione a dir poco controversa, per non dire stupida. La carne coltivata è forse, o comunque potrebbe essere, la nuova frontiera della ricerca e – a patto che i risultati siano quelli sperati – potrebbe avere un impatto incredibilmente positivo sull’ambiente e perfino sul benessere degli animali; eppure da noi, per la solita paura di dover pensare a qualcosa di nuovo, per la solita poca voglia anche solo di capire le novità, si è chiusa ogni porta, prematuramente, preventivamente. Non ci vogliamo neppure pensare, se sia una soluzione valida o meno. Non vogliamo nemmeno porci il problema.
Si dirà: la decisione è stata richiesta da Coldiretti, che ha lavorato come una lobby a cui il governo si è prostrato; ed è vero. Però, ancora una volta: le lobby di potere, la chiusura pregiudizievole, l’incapacità di mettersi in gioco non sono ulteriori prove di questo “svacco” diffuso che regna in Italia?
I meme sono una stupidaggine, al confronto di queste ultime cose di cui abbiamo parlato, e sulle quali si misura il futuro del nostro paese. Ma forse si parte anche dai meme, forse si parte anche dalla scuola, forse si parte anche dal modo che hanno i giovani di ridere e di scherzare. Mi verrebbe da dire: dovremmo esigere di più, da noi stessi e dagli altri; dovremmo essere in grado di rimboccarci le maniche, mettere da parte questa sfiducia e ricominciare a lavorare, convinti che serva a qualcosa. Dovremmo imparare ad aver fiducia che l’impegno serva, che venga ricompensato e che possa contribuire a lasciare il segno, a cambiare le cose. Che anche un meme più accurato magari lo capiscano in quattro gatti, ma che valga la pena di spendere un po’ di fatica e di tempo per quei quattro gatti.
Come si può fare ad ottenere tutto questo, a invertire la tendenza? Non c’è la ricetta magica, ovviamente, ma ci sono paesi in cui la partecipazione è più alta, in cui l’impegno sociale è più alto, da cui dovremmo e potremmo imparare qualcosa. Magari nelle prossime settimane proveremo a parlarne. Per oggi abbiamo già detto fin troppo. Intanto cominciate nel vostro piccolo: e se siete giovani, fate meme più accurati.
Quello che ho registrato e pubblicato
Vediamo ora, come al solito, anche i video che sono usciti questa settimana:
Tutto Socrate in un’ora di lezione: una (relativamente) veloce panoramica sul pensiero di uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi
Fare educazione affettiva a scuola?: dopo i recenti casi di cronaca legati ai femminicidi, si è tornati a parlare di scuola e di educazione
Corso di logica 12 - Le regole di addizione e del sillogismo disgiuntivo: altre due nuove regole di inferenze su cui impratichirsi
L'uomo, il corpo e la ghiandola pineale per Cartesio (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Le guerre boere in Sudafrica (per il podcast “Dentro alla storia”)
La conquista europea dell'Asia (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
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Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Storia culturale del clima di Wolfgang Behringer: si parla tanto di clima e cambiamento climatico, ultimamente, e lo si fa ovviamente con ottime ragioni. Ma per discuterne in modo serio forse può essere utile anche scoprire la storia del clima e di come esso abbia influenzato gli uomini e le donne delle diverse epoche. In questo senso, questo saggio è uno dei classici sull’argomento e vale assolutamente la pena di recuperarlo, anche perché costa solo 14 euro. Lo si può comprare qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
Per concludere, ecco come al solito anche un elenco dei video che spero (ma non assicuro) di realizzare nei prossimi giorni:
domani dovrebbe arrivare un video di storia dedicato alla Babilonia di Hammurabi;
venerdì invece sarà la volta, se tutto va bene, di un video di filosofia su Saul Kripke, pensatore e logico statunitense venuto a mancare circa un anno fa;
sabato potrebbe poi arrivare un video della serie Grandi eventi storici in un’ora, incentrato sulle lotte medievali tra papato e impero;
domenica prossima – ma questo è ancora incerto – forse arriverà un video sulla filosofia dei grandi scrittori, in particolare sul pensiero di Italo Calvino;
e nei giorni che non ho citato ci sarà spazio per i podcast, in particolare per la conclusione di Cartesio e per un’altra pagina dedicata all’imperialismo.
E questo è di nuovo tutto. Questa settimana per me ci saranno molti impegni scolastici (abbiamo in programma due pomeriggi coi ricevimenti scuola-famiglia di metà trimestre, più l’Open Day di sabato, più il PCTO del mio Archivio Storico, più la Consulta Provinciale Studentesca… muoio!), ma poi, la settimana successiva, arriverà il ponte dell’8 dicembre e non vedo già l’ora. Qui c’è molto bisogno di una pausa, e magari il discorso vale anche per voi. Ne riparliamo comunque tra sette giorni, sperando di sopravvivere. Ciao!
A proposito del crollo dei votanti alle elezioni , vorrei dire che una giustificazione .
Due partiti che si dicono sovranisti , che hanno come priorita il bene degli italiani hanno tolto a fiducia al Presidente del Consiglio , Draghi , che sta facendo arrivare il denaro necessario alla ripresa economica condannando il paese e non ricevere piu' 200 Miliardi Euro ( era facile prevedere l enorme differenza di credibilita' in Europa tra Draghi e Salvini-Meloni).
Quella fu la premessa della crisi di overno che porto' alle elezioni politiche.
Scrissi a un amico " In questa situazione come dar torto a chi non va a votare"?
E prevedevo anche una ripresa forte di giovani che vanno via dall Italia nella quale non vedono
piu' futuro . Io sembro essere l unco a scrivere commenti , ma sarebbe meglio leggere anche qualche altro commento .....