Fare i conti col fascismo, ma fare anche i conti con ChatGPT, con Quentin Tarantino, con Adriano Olivetti, con Napoleone III, con Oscar Wilde e con Gene Kelly (e non solo)
Non sono un tipo da “orari da ufficio”: con la scusa che, fino a questo momento della mia vita, mi sono occupato perlopiù di studio e di insegnamento, e che lo studio (e la correzione dei compiti, e la preparazione delle lezioni) te lo puoi organizzare più o meno come vuoi e quando vuoi, i miei giorni della settimana sono più o meno tutti uguali. Cioè: il lunedì, lavorativamente parlando, per me non è affatto diverso dal sabato, così come il martedì non lo è dal venerdì. Gli orari magari sono improbabili, le acrobazie tra un figlio e l’altro forse imprevedibili, ma non si riesce più di tanto a distinguere un giorno dall’altro.
In questi primi vent’anni di lavoro le differenze sono state date, al massimo, dagli impegni familiari: nel weekend si fanno gite o si va a vedere i figli che giocano a calcio o a baseball, in certi giorni ci sono gli allenamenti e in altri il dentista, e così via; ma per studiare e registrare video, di solito, un giorno vale l’altro.
Negli ultimi mesi, però, questo ritmo che aveva retto saldamente la mia vita fino a poco tempo fa, e che mi ha permesso anche di garantirmi una certa elasticità nello svolgere i miei compiti (per cui non è raro che corregga compiti a mezzanotte o che registri video di domenica mattina), è stato messo alla prova dal fatto che il resto del mondo non funziona come me, e che ha ritmi lavorativi molto più scanditi e regolari.
Un esempio, banale: tutte le mail importanti, con inviti a eventi, richieste di riunioni online, progetti da definire, mi arrivano ormai nel 90% dei casi tra il lunedì e il martedì, mentre da giovedì in poi la casella di posta e il telefono rimangono inesorabilmente muti, se non per qualche rara eccezione (in genere da parte di gente giovane, che non è ancora entrata del tutto nel meccanismo della settimana lavorativa). Il che vuol dire che il lunedì impazzisco per trovare spazio per tutto, e il venerdì mi chiedo da dove salti fuori all’improvviso tutto quel tempo libero.
Il guaio è che la newsletter la scrivo proprio di lunedì, quando mi sembra di avere l’acqua alla gola visto che tutto il resto del mondo è dannatamente attivo. A meno che non la riesca a iniziare (come in questo caso) qualche giorno prima. In ogni caso, cominciata in anticipo oppure no, la newsletter arrivo a rivederla sempre il lunedì sera, quando tutti dormono, quindi ha anche un po’ il sapore della notte.
E comincia, come sempre, dai libri.
Quello che ho letto
In lista questa settimana ci sono tre saggi, anche se molto diversi tra loro: uno è una novità in questa newsletter e un altro è assente da molto tempo (ma vale la pena di riprenderlo). Cominciamo.
Adriano Olivetti di Paolo Bricco: di questo libro pubblicato l'anno scorso da Rizzoli vi parlerò anche più avanti in questa stessa mail, in particolare nella rubrica Quello che ho pensato, perché alcune pagine del volume questa settimana mi hanno dato da pensare. Qui vi dirò intanto che sono arrivato ormai ben oltre la metà del volume, un volume che continua ad essere interessante, ben scritto e soprattutto capace di parlare a diversi tipi di persone e quindi si presta ad essere letto a diversi livelli. Da un lato, infatti, c’è la storia dell'Olivetti imprenditore, con la sua attenzione all'organizzazione del lavoro, le sue innovazioni nel campo dei servizi per gli operai, con le sue mosse strategiche sul versante del mercato internazionale e del design; dall'altro, però, c'è anche la storia d'Italia che si inframmezza alle vicende dell'azienda di macchine da scrivere, in un connubio e uno scambio reciproco molto interessante. Inoltre Bricco tiene aperti diversi fronti: riesce, con un linguaggio non troppo tecnico, a parlare di economia, di società, di storia, di design, di psicologia… insomma, un libro davvero ben fatto e non banale, cosa rara quando si parla di libri dedicati ad imprenditori. Lo trovate qui.
Etica dell’intelligenza artificiale di Luciano Floridi: la settimana scorsa, come forse già sapete, ho fatto una diretta streaming su YouTube dedicata a ChatGPT, nuova intelligenza artificiale discorsiva a cui si possono porre domande e da cui si possono avere risposte più valide di quanto uno si aspetterebbe. In realtà, come abbiamo visto proprio in quel video, i limiti di questi sistemi sono ancora piuttosto evidenti, ma è innegabile che si stiano facendo dei passi avanti importanti, anno dopo anno, verso l'automazione di certi processi anche nel campo della scrittura e del lavoro (per così dire) intellettuale. Proprio questi passi in avanti hanno riportato in questa settimana l'attenzione dei giornali e dell'opinione pubblica però anche sulle varie problematiche etiche che queste innovazioni possono creare e, proprio parlandone in live su YouTube, mi è venuta voglia di riprendere in mano un libro che avevo iniziato qualche mese fa e poi stancamente abbandonato: Etica dell'intelligenza artificiale di Luciano Floridi. Al di là della mia stanchezza (come vi sarete resi conto, comincio tanti libri ma non riesco a portarli a termine tutti), il volume è interessante, perché si occupa di questioni estremamente attuali e con cui dobbiamo cominciare a fare seriamente i conti, anche se finisce ovviamente per essere abbastanza settoriale e specifico (problema comune a tutte le etiche applicate, che perdono un po' di mordente per chi si occupa di altri settori). In ogni caso il libro di Floridi, che è una vera autorità nel campo, sarebbe da consigliare a chiunque si occupi di legislazione, internet e problemi connessi agli accavallamenti tra questi due settori e quindi ho intenzione di provare a finirlo. Tra l'altro, Floridi è persona intelligente e sa arrivare al cuore delle questioni. Lo potete comprare qui.
Come avere più tempo? di Oliver Burkeman: a dire la verità questa settimana mi sono dedicato soprattutto agli altri due libri della lista, che sono anche abbastanza impegnativi e richiedono una certa attenzione; Come avere più tempo?, quindi, l'ho letto veramente di sfuggita, quasi solo per sfizio, per dare un po' di svago alla mente e “staccare” dopo le ore dedicate a Bricco e Floridi. E però, mentre tanti si rilassano leggendo storie d'amore o gialli appassionanti, io evidentemente mi rilasso leggendo libri su come trovare il tempo di fare tutte le cose che mi trovo spesso a fare. Non che ne abbia veramente bisogno: penso di avere un sistema che è già molto valido e mi permette di fare davvero tante cose, sfruttando al meglio il tempo a mia disposizione; però il tema finisce inevitabilmente per interessarmi e così quando incappo in un libro che tratta questi argomenti almeno un'occhiata gliela voglio dare. Così è anche per questo saggio di Burkeman, pubblicato in Italia da Vallardi. Un libro che in realtà sposa, almeno stando alle prime pagine, la mia stessa filosofia: sostiene infatti che per avere più tempo non si debba lavorare più intensamente o in maniera più produttiva, ma si debba piuttosto smettere di fare tante cose inutili che normalmente ci riempiono la vita. Si tratta cioè di un problema di scelta, non di velocità lavorativa, e su questo sono perfettamente in sintonia con l'autore. Vedremo, andando avanti con la lettura, se poi questa premessa viene mantenuta fino in fondo o se si tratta solo di una captatio benevolentiae utile esclusivamente ad ingraziarsi il lettore nelle prime pagine del volume. Il libro, se vi interessa, potete intanto comprarlo qui.
Quello che ho visto
E passiamo ora, invece, ai film. Nessuna nuova uscita, questa settimana, ma in elenco ci sono classici più o meno recenti (e più o meno riusciti).
Dorian Gray (2009), di Oliver Parker, con Ben Barnes, Colin Firth, Ben Chaplin: la storia di Dorian Gray, il celebre personaggio di Oscar Wilde, credo la conosciate più o meno tutti: racconta di un giovane inglese che sul finire dell'Ottocento, nel pieno periodo del decadentismo, fa una sorta di patto col diavolo che gli permette di rimanere per sempre giovane e bello, mentre ad invecchiare è il ritratto che è inizialmente appeso in salotto. Questo patto finisce però per macerare Dorian dall'interno, perché il giovane ragazzo, all'inizio ingenuo, pian piano si avvia sulla strada della perdizione, concedendosi ad ogni vizio, ad ogni passione e desiderio, diventando moralmente marcio ed orribile, anche se la sua apparenza esteriore rimane perfetta ed immacolata. Il film che ho visto nei giorni scorsi riprende chiaramente questa storia che Wilde mise per iscritto nel celebre romanzo Il ritratto di Dorian Gray del 1890; ed è in realtà solo uno dei vari film che sono stati tratti da quel libro. Essendo il più recente, mi aspettavo però fosse anche quello più intrigante o quantomeno quello con un ritmo più adatto ai nostri tempi. In realtà il film funziona solo a metà: certo, la storia è interessante, ma questo lo si deve soprattutto a Wilde; inoltre c'è anche qualche attore di un certo rilievo, come ad esempio Colin Firth nel ruolo di Lord Henry Wotton; però in generale mi sembra che la pellicola non riesca veramente a catturare, perdendosi in troppe scene vacue ed inutili, che non aggiungono nulla alla storia. Al momento lo trovate sia su Prime Video che su Sky.
The Hateful Eight (2015), di Quentin Tarantino, con Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh: confesso: questo film di Quentin Tarantino non l'avevo ancora visto, nonostante sia uscito ormai da diversi anni. L'estrema lunghezza della pellicola e il fatto che ovviamente il film di Tarantino non lo si può guardare facilmente assieme a dei figli piccoli mi aveva finora fatto desistere dall'impresa. L'altra sera, però, sono riuscito a vedermelo da solo con la moglie e devo dire che ne è valsa la pena. Certo, la trama non è particolarmente originale: in fondo pare proprio di essere davanti a una riedizione de Le iene in salsa western (pure il cast lo ricorda molto); nonostante questo, però, il film raggiunge il suo scopo, forse anche perché pure Le iene, in effetti, è un ottimo film a cui ispirarsi. A parte qualche eccesso sia dal punto di vista della violenza che dal punto di vista sessuale, mi è piaciuta la capacità, ormai ben nota, di Tarantino di creare tensione tramite i dialoghi e perfino le pause, ma anche il sottotesto (che mi è sembrato di scorgere) di tutta la trama. La storia, in apparenza, è molto semplice: otto personaggi diversi si trovano rinchiusi per qualche ora, nel Wyoming del 1867, all'interno dello stesso emporio sperduto in mezzo a una bufera di neve. Queste persone, però, non sanno se possono fidarsi l'una dell'altra: uno è un cacciatore di taglie, lì fermo con una donna che deve portare al patibolo; un altro è un ex ufficiale nordista di colore, cacciato dall'esercito con disonore; un altro ancora è un reduce dell'esercito, ma questa volta sudista, a cui si aggiunge pure un vecchio generale in disarmo, sempre sudista; poi ci sono uno strano messicano, un boia, un mandriano. Tra di essi potrebbe nascondersi un complice della detenuta, lì in agguato per far fuori il cacciatore di taglie e scappare con la prigioniera. L'occasione però appare buona soprattutto per fare i conti col passato: nordisti sudisti, nonostante la Guerra di Secessione sia finita, hanno diversi conti da regolare; ma soprattutto la cosa più bella di tutto il film è la questione della lettera di Abramo Lincoln, che forse – o almeno a me piace pensarla così – rappresenta la vera morale del film. In una vita piena di dolore e di morte, in cui tutti possono tradirti e in cui non sai di chi puoi veramente fidarti, ci sono però delle cose che perfino nei momenti di sconforto ti danno fiducia e speranza, anche se magari si tratta di cose false e artefatte: e questo in fondo è quello che fa proprio l'arte, e questo in fondo è quello che fa proprio il cinema. La lettera di Lincoln mi pare rappresenti questo: la finzione dell’arte. A quanto ho capito, ora come ora il film è disponibile praticamente dappertutto: su Netflix, Prime Video, Sky e perfino RaiPlay. Attenzione però che è bello lungo.
Cantando sotto la pioggia (1952), di Stanley Donen e Gene Kelly, con Gene Kelly, Donald O'Connor, Debbie Reynolds: non mi capita spesso, ma ogni tanto riesco a convincere i membri della mia famiglia recuperare qualche classico del cinema, soprattutto quelli che io amo visceralmente. Qualche giorno fa l'operazione mi è riuscita con Cantando sotto la pioggia, forse il più bel musical di tutti i tempi, diretto e interpretato nel 1952 da Gene Kelly. Se conoscete un po' la storia del cinema, di sicuro questo film non vi è nuovo; se invece siete giovani e volete recuperare tutto quello che vi siete persi perché è uscito prima che nasceste, sappiate che questo è un film ancora perfettamente godibile nonostante i suoi settant'anni e più di storia alle spalle. La trama è quella di una commedia: il protagonista è un divo del cinema muto che, assieme alla sua partner cinematografica, viene preso in contropiede dall'avvento del sonoro, nel 1927. L'innovazione tecnologica infatti costringe gli attori a cambiare completamente stile di recitazione, abbandonando la pantomima e dando maggior peso alla voce, alle parole e all'intonazione. Il protagonista dopo un po' di esercizio riesce a rinnovarsi e a risultare tutto sommato convincente sul grande schermo, ma non altrettanto bene va alla sua coprotagonista, donna particolarmente fastidiosa e stupida, oltre che dotata di una voce irritante. Per salvare il film e la carriera, ad ogni modo, il protagonista riesce ad imbastire un complesso sistema di doppiaggio in cui la voce della grande attrice viene in realtà sostituita da quella di una giovane e promettente ragazza. Ne nascono però una serie di equivoci, scene comiche e soprattutto numeri musicali particolarmente azzeccati, ottimamente coreografati ed entrati nella storia del cinema. Per dire, Gene Kelly che balla con l'ombrello sotto la pioggia oppure Donald O'Connor che corre facendo la capriola contro i muri sono stati citati, omaggiati e copiati in centinaia di altri film, anche di tono completamente diverso (i primi che mi vengono in mente: Arancia meccanica e Full Monty). Da vedere. Lo trovate su Sky.
Quello che ho pensato
Quando pensiamo o raccontiamo il fascismo (ma lo stesso vale per ogni fenomeno articolato), facciamo inevitabilmente tutta una serie di approssimazioni che sono forse inevitabili in un discorso storico che deve, in qualche misura, ridurre la complessità a una serie di spiegazioni gestibili e comprensibili. Ad esempio, tendiamo a presentare quel movimento politico come un monolite, segnato da tendenze ben precise, chiare e nette, quando in realtà il fascismo del 1921 è molto diverso da quello del 1923, e a sua volta diverso da quello del 1926 o da quello del 1933 o ancora da quello del 1938.
Allo stesso modo, facciamo delle pesanti approssimazioni anche quando dobbiamo parlare dell'adesione che gli italiani diedero al fascismo nei suoi vent'anni di governo. Tendiamo a mostrare, infatti, che nei primi anni Mussolini e il suo movimento trovavano ancora larga opposizione in varie fasce del paese, opposizione che però andò via via scemando col passare degli anni. E così presentiamo gli anni '30, i cosiddetti anni del consenso, in cui l'Italia si scopriva fascista, per poi passare, poco dopo, agli anni della disillusione, con un'Italia che si smarcava dal regime e lo dimenticava completamente all'alba del 25 aprile del 1945.
Questi, tutto sommato, sono i termini corretti per presentare la questione in tempi ragionevoli, ma non danno troppo conto di un problema che è in fondo il problema fondamentale: il popolo che abitava l'Italia nel 1922 era più o meno lo stesso che abitava il paese nel 1935, ed era sempre più o meno lo stesso che lo abitava nel 1945. In vent'anni gli italiani erano passati dalla paura del fascismo, all'adesione del fascismo, allo smarcamento completo dal regime di Mussolini, spesso in modo molto repentino. Com’era potuto accadere? Come avevano potuto gli italiani passare da un estremo all’altro, professando prima la rivoluzione, poi il fascismo, poi ancora la democrazia?
È chiaro, ovviamente, che anche questa è in parte un'approssimazione, perché ogni storia personale è storia a sé, e perché nel giro di vent'anni la composizione demografica del paese era anche in parte mutata; ma è pur sempre vero, allo stesso tempo, che per una buona parte degli italiani funzionò esattamente così: prima erano socialisti o cattolici, poi si ritrovarono ad essere fascisti, e spesso anche fascisti convinti, e infine si scoprirono partigiani, intenti a lottare (a volte nei fatti, e a volte solo a parole) contro quel fascismo che avevano caldamente approvato fino a pochi mesi prima.
Certo, di mezzo ci sono anche molti altri eventi: c'è una disastrosa guerra mondiale, che spinse necessariamente gli italiani ad aprire gli occhi; ci sono le famigerate leggi razziali e l'avvicinamento ancora più orribile alla Germania di Hitler; ci sono anche le mille magagne di un partito che si era incancrenito, che aveva perso anche parte del suo stesso spirito vitale iniziale, diventando la parodia di sé stesso.
Però rimane il fatto di un'Italia che era stata fascista e che di colpo divenne antifascista, quasi dimenticando completamente o comunque rinnegando le proprie idee. Questo salto logico e storico emerge anche nella figura di Adriano Olivetti, il celebre patron dell'omonima ditta che tra la fine del fascismo e i primi anni del dopoguerra fece la storia dell'industria italiana. Come vi ho detto la settimana scorsa e come ho spiegato anche più sopra in questa stessa newsletter, in queste settimane sto leggendo la biografia che il giornalista Paolo Bricco ha dedicato al personaggio, una biografia ben fatta e accurata che non si lascia andare all'esaltazione acritica dell’imprenditore ma ne mostra anche le ombre, oltre che ovviamente le luci.
E tra le ombre c'è proprio anche questo: il passaggio dal fascismo all'antifascismo. Come lo stesso Bricco non esita a sottolineare in maniera molto netta, in Adriano Olivetti, nel 1945 e forse anche un po’ prima (ma non molto prima), avvenne un mutamento tanto repentino da suonare non dico falso ma quantomeno poco coerente. Fino al 1938, cioè fino all'uscita delle leggi razziali, Olivetti, che pure era figlio di un ex socialista turatiano e che aveva manifestato vaghe tendenze socialiste anche in prima persona, aderì pienamente alla linea politica e soprattutto economica del PNF.
Non solo esaltava, nei suoi scritti e nelle sue lettere, la figura di Mussolini, ma tentava anche di applicare i principi del corporativismo nella sua fabbrica. La sua non sembrava una ricerca di facciata, ma una vera e sincera applicazione di alcuni principi del fascismo tramite un’adesione vera e a tratti perfino incondizionata al regime.
È vero che durante la guerra in lui nacque un sentimento diverso, che lo portò a cercare accordi ad esempio con gli inglesi e gli americani e a supportare il CLN, ma la sua parve in quella fase una ragione più che altro patriottica, volta a salvare l'Italia dalla rovina di una guerra che sembrava ormai diretta verso un esito inevitabile e tragico. La sua adesione al fascismo, oltre che al suo dirigismo e al culto del leader, durò quindi fino ai primi anni '40 e crollò del tutto solo nel 1945, quando Olivetti si trovò davanti un'Italia completamente diversa. E allora, nel primo discorso che tenne poco dopo la liberazione ai suoi operai, Adriano operò una svolta che lo stesso Bricco descrive con un certo imbarazzo.
Invece di fare un mea culpa, di ammettere di essersi sbagliato o anche solo di voltare chiaramente pagina, Olivetti in quel discorso scaricò di fatto la colpa degli errori dell’azienda su quelli che erano stati fino ad allora i suoi principali collaboratori, su quelli che a dirla tutta erano stati in realtà davvero antifascisti e avevano cercato di salvare il salvabile durante il periodo di guerra, esponendosi in prima persona. Nelle sue parole fredde e ingenerose, Bricco vede un atto d'accusa contro in particolare Giovanni Enriques, Gino Martinoli (cioè Gino Levi, sotto falso nome per scampare alle leggi razziali) e Giuseppe Pero, i tre che avevano portato avanti la fabbrica mentre Olivetti era al sicuro in Svizzera. I tre dirigenti – due dei quali antifascisti della prima ora – vennero quasi accusati da Olivetti stesso di essere scesi a patti con i nazisti che occupavano l'Italia, quando è piuttosto evidente che i dirigenti l’avevano fatto semplicemente per salvare la fabbrica e gli operai, mentre il padrone – che le responsabilità le aveva a monte, avendo appoggiato per anni il regime – aveva gioco facile a dire di non essersi compromesso visto che era riparato per tempo oltralpe, ben lontano dalle fucilazioni e dal rischio della morte.
Bricco scrive così: «Adriano rimuove in una maniera completa e totale ogni contestualizzazione all'economia, alla società, e alla cultura italiana fascista: il suo discorso è pieno di salti logici e di vuoti d'aria concettuali. […] Adriano Olivetti per tutti gli anni '30 non è un soggetto pericoloso per il regime. Partecipa alla vita pubblica nelle associazioni degli industriali. Scrive elaborati teorici sul corporativismo e sulla via fascista al fordismo. Con le leggi razziali fa di tutto per allontanare da sé e dalla sua impresa il sospetto di una ascendenza ebraica. Ha un rapporto stretto e strutturato con i vertici del regime e mantiene un dialogo diretto con la cerchia ristretta del duce, a cui pochi giorni prima dell'entrata in guerra chiede un incontro per presentare i suoi nuovi prodotti. Tutto questo viene fatto cadere nell'oblio e la memoria subisce una accelerazione con l'inizio della Seconda guerra mondiale. Questa accelerazione ha una natura distorcente: quegli anni sono definiti da Adriano, di fronte agli operai e agli impiegati, una “falsa direzione” e una “falsa vita”».
La parola chiave qui è “oblio”, rimozione: Olivetti rimosse il suo passato fascista e si presentò ai suoi stessi operai, che pure lo conoscevano bene, come un paladino della giustizia sociale e del nuovo clima democratico che si respirava in quel momento in Italia. Sia chiaro, Olivetti non era insincero, il suo non era bieco opportunismo: piuttosto era omissivo. Anche quando lavorava al corporativismo fascista, l'industriale piemontese aveva effettivamente in mente la giustizia sociale, interpretava il corporativismo in una chiave tutto sommato progressista. Quello davanti agli operai, quindi, non era un voltafaccia ideologico (tanto è vero che le sue riflessioni del dopoguerra possono anche essere lette in continuità con quelle dell'anteguerra): in fondo si trattava pur sempre di trovare il modo di far convivere in fabbrica capitale e lavoro, in una maniera rispettosa dell'uomo, dei diritti e però anche dell'efficienza e della tecnica. Questo è il filo comune che legò tutta la vita di Adriano Olivetti, sia durante il fascismo che dopo la caduta del regime; e questa continuità fa sì che lo stesso Adriano Olivetti non si sentisse, probabilmente, incoerente nel proprio intimo.
Quello che però mancava in Olivetti era la riflessione sui propri errori, il comprendere cioè che questi ideali che possono essere anche alti e nobili erano stati messi a servizio, prima della guerra, di una dittatura che non aveva certo liberato l'uomo ma lo aveva anzi ancora di più imbrigliato e sottomesso. Su questo Olivetti stese un velo, un velo non del tutto inconsapevole visto anche il modo in cui scaricò la responsabilità di certe scelte sui suoi sottoposti, che invece non avevano mai ceduto alle lusinghe di Mussolini e del suo regime. Da questo punto di vista, Olivetti doveva sembrare un uomo molto più debole del suo amico Gino Levi, che politicamente mostrava una maturità nettamente superiore a quella di Adriano. Politicamente Olivetti era un bambino, cosa che gli permetteva forse anche di essere geniale in altri ambiti, sotto altri aspetti.
Olivetti, semplicemente, dimenticò, rimosse. Fece scendere tutto nell’inconscio, in modo anzi da non doversene più ricordare; come un’esperienza traumatica che si vuole dimenticare in fretta. Del fascismo non si parlava nemmeno più, si guardava solo in avanti e non indietro.
La questione, però, si badi bene, non riguarda solo Adriano Olivetti. Perché in questa parabola mi sembra ci sia un po' la storia di mezza Italia: come Olivetti, anche buona parte degli italiani, che magari proveniva da una storia politica diversa, durante gli anni '20 si adeguò al fascismo; addirittura forse si innamorò del fascismo o quantomeno del suo capo carismatico, si allineò e divenne fervente nell'attuazione delle politiche fasciste. Lo fece in modo superficiale, appunto fanciullesco e bambinesco, per l'incapacità di maturare una critica seria ed adulta al regime.
Eppure lo fece. E proprio quella parte che tanto aveva adorato il duce si scoprì, all'alba del 25 aprile 1945 o forse anche prima, all'improvviso svegliata come da un lungo sonno, all’improvviso consapevole di aver commesso un errore, ma allo stesso tempo anche incapace di ammetterlo.
L'Italia, col fascismo, non ho mai fatto pienamente i conti. Non perché non abbia ammesso gli errori del fascismo e di Mussolini, che sono macroscopici, ma perché non ha mai completamente ammesso di essere stata complice di quegli errori, di aver applaudito davanti a quegli errori. L'Italia non ha fatto i conti col proprio passato perché ha agito spesso alla maniera di Olivetti: nell'aprile 1945 ha cominciato ad affermare di essere sempre stata antifascista, anche se non era vero; di essere anzi più antifascista dei partigiani, visto che questi ultimi qualche compromesso con la realtà avevano pure dovuto farlo, mentre gli altri, la maggioranza, non si erano mai dovuti sporcare le mani in alcun modo.
L'Adriano Olivetti del 1945, insomma, rappresenta un po' anche gli italiani di quegli anni, politicamente infantili, incapaci di assumersi appieno le loro responsabilità, ma anche allo stesso tempo non obbligati veramente a farlo. Le responsabilità se le era già prese qualcun altro, e ora che il lavoro era stato fatto si trattava solo di raccoglierne i frutti.
Non tutti gli italiani furono così, ovviamente. Ma quanti lo furono?
Quello che ho registrato e pubblicato
Dopo tanti discorsi, ecco anche il consueto riassunto di tutto quello che ho pubblicato negli ultimi sette giorni. Come vedrete, rispetto alle settimane scorse mancano i video di TikTok, perché in realtà in questi giorni ho avuto un po’ da fare con altri progetti di cui vi parlerò presto; in ogni caso, spero di ripartire coi video brevi già la settimana prossima.
Interrogo ChatGPT in storia e filosofia: la diretta di cui vi parlavo anche sopra, in cui ho provato a interrogare la nuova intelligenza artificiale
Dopoguerra e dittatura in Brasile: il Brasile dalla fine della Seconda guerra mondiale fino ai primi anni '80
Napoleone III: il crollo e la fine: l’ultima puntata del percorso dedicato a Napoleone III
Protagora ed i sofisti [Filosofia per ragazzi 10]: il pensiero dei sofisti presentato ad un pubblico di giovanissimi
L'autunno del Medioevo - Audiolibro spiegato parte 19: un altro (lungo) capitolo sulla fine del Medioevo, parlando anche di caccia alle streghe
Il Rinascimento in generale (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Il cattolicesimo politico nell’Ottocento (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Visto che ci siamo (e come sta diventando abitudine) vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
Il canale YouTube | Instagram | Facebook | Twitter | TikTok
Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono i nuovi abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri e videocorsi che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Italiani, brava gente? di Angelo Del Boca: visto che nella riflessione settimanale ho parlato soprattutto del fascismo e dei conti che gli italiani non hanno fatto con il regime, mi sembra d'obbligo questa settimana proporvi, come lettura, il classico saggio di Del Boca che mette insieme tutti i fatti che a noi non piace ricordare, ovvero i diversi crimini che gli italiani, o meglio una parte degli italiani, hanno compiuto lungo gli anni in giro per il mondo e soprattutto in zone coloniali o d’occupazione. Una lunga pagina del libro è ovviamente dedicata al fascismo, ma i problemi con la nostra coscienza storica vanno anche al di là di quel famigerato ventennio. Insomma, un libro da leggere e scoprire. Lo potete acquistare qui.
Creazione di un mondo immaginario per fumetti: se vi piace la narrativa a fumetti e vi piace anche disegnare, questo è probabilmente il corso che fa per voi: in 18 lezioni il fumettista Liam Sharp vi insegna a creare ambientazioni fantastiche, sia con la scrittura che col disegno, spingendovi a realizzare veri e propri mondi da popolare poi coi vostri personaggi. Il corso è originale e apprezzatissimo, e merita una prova. Lo trovate qui, a 14,99 euro.
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né fare corsi, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
Infine, chiudiamo come sempre con le anticipazioni su quello che dovrebbe uscire la settimana prossima:
arriverà in primo luogo un video atteso da tempo, cioè il primo capitolo di una serie di video dedicati esclusivamente alle prove su Dio (nell’ambito del nostro Dizionario di filosofia);
sarà poi la volta di una nuova puntata, l’ultima, della storia del Brasile, in cui parleremo dei tempi recentissimi;
se tutto va bene (ma è ancora incerto), vorrei anche realizzare un video sulla guerra in Siria degli ultimi anni;
spero poi di riuscire a lanciare almeno uno o due nuovi TikTok: i temi potrebbero essere Franco Battiato e il Multiverso della Marvel;
infine, ci sarà molto spazio anche per i podcast, addentrandoci nel Rinascimento (per filosofia) e nel socialismo (per storia).
E questo è tutto. Varie novità sono in arrivo anche in versione offline, cioè dal vivo, ma ne parliamo meglio la prossima volta, lunedì 13. Per il momento, state bene, siate sereni e divertitevi il giusto. A presto!