Il metodo storico davanti alla guerra in Ucraina e i limiti del neoliberismo secondo Stiglitz, la pace di Kant e l'ateismo di Onfray, Orgoglio, pregiudizio e Superstore
Rieccoci. Siamo di nuovo qui, a parlare ancora una volta di storia, filosofia, attualità, libri e altro ancora. Questa settimana nel menù ci sono alcune cose interessanti. Vi segnalo in particolare un intervento del premio Nobel Joseph Stiglitz, una mia lunga tirata (forse addirittura uno sfogo) sul ruolo degli intellettuali (e degli storici in particolare), qualche bel video ed altro ancora. Partiamo?
Quello che ho letto
Per quanto riguarda i libri, non molte novità all’orizzonte. Ho finito il saggio di Rick Dufer di cui vi ho già parlato nelle settimane scorse e mi sono ributtato anche sul Trattato di ateologia di Michel Onfray.
Seneca tra gli zombie di Rick Dufer: l’ho finito e confermo quanto già detto nelle settimane scorse. Il libro di per sé è interessante, propone spunti magari non inattesi per chi è già avvezzo alla filosofia ma comunque di buon livello; in generale posso dire che mi ha sorpreso in positivo. Poi una cosa è scrivere, una cosa è vivere, ma questo è un problema che attanaglia ciascuno di noi: nel senso che in linea teorica siamo tutti bravi a dirci che dobbiamo aprirci al dubbio, essere critici nei confronti di noi stessi e non “diventare zombie”, come sostiene Dufer, ma credo che ognuno di noi – anche chi l’autore catalogherebbe come “zombie” – è sicuro di essere già nel giusto. Il guaio è che pochi sono davvero nel giusto, pochi applicano questi metodi. È lo stesso paradosso degli stupidi: tutti sono convinti che gli stupidi siano sempre gli altri, ma per forza di cose anche chi crede di non essere stupido molto probabilmente lo è. Insomma, per farla breve: bella la teoria, ma non so quanto un libro del genere riesca davvero a cambiarci la testa. Comunque il volumetto merita una lettura: è qui.
Trattato di ateologia di Michel Onfray: questo libro l’avevo iniziato qualche tempo fa, poi l’avevo messo in pausa, catturato da letture più accattivanti. In questi giorni, terminato il saggio di Dufer, l’ho ripreso. Non è niente di sconvolgente: Onfray mette in fila – con tono di sfida – tutte le incoerenze che già conosciamo delle religioni monoteistiche, dalle origini storiche (e molto umane) di determinate tradizioni alle pratiche irrazionali che in parte ancora dominano la scena. Mi sembra, però, un trattato troppo polemico per convincere; ovvero, è uno di quegli scritti che piacerà enormemente a chi già odia le religioni, mentre non convincerà per nulla chi in qualche misura le apprezza. C’è molto di vero, in quello che scrive Onfray, ma c’è anche molto di parziale, e per ora (ma sono appena a metà) mi sembra che il filosofo francese scelga una via relativamente facile per affrontare il tema. Comunque, per chi è interessato, si può comprare qui (solo nel mercato dell’usato, perché pare fuori produzione).
La fonte meravigliosa di Ayn Rand: continuo, nel frattempo, anche la lettura del romanzo di Ayn Rand di cui ho parlato più e più volte. La continuo perché è un romanzo molto lungo, ma per ora appassionante, al netto di alcuni eccessi (i personaggi, per portare acqua al mulino teorico dell’autrice, mi sembrano infatti poco realistici e troppo “estremi”, in un senso o nell’altro, nei loro caratteri). Per chi è curioso riguardo alla trama, sono al punto in cui Howard Roark è tornato all’architettura e sta avendo una strana relazione d’amore (anche abbastanza violenta e distruttiva) con Dominique Francon. Per comprarlo, andate qui.
Quello che ho visto
Per quanto riguarda l’aspetto visivo, in elenco ci sono una serie comica, una conferenza (in inglese!) e un film che è ormai un classico. Vediamoli.
Superstore episodio 1.01 (2015), con America Ferrera, Ben Feldman, Lauren Ash: da quando ho finito gli episodi di Brooklyn Nine-Nine, in famiglia siamo alla ricerca di una sitcom leggera da guardare di sfuggita ogni tanto mentre mangiamo. L’ultima che abbiamo provato (con un certo ritardo, visto che è del 2015) è questa Superstore, che sembra discretamente carina. Abbiamo visto per ora solo l’episodio pilota, che presenta qualche buona gag. Ambientata all’interno di un grande magazzino americano, gioca sui cliché del genere e soprattutto sulle particolarità della società americana. La trovate su Netflix.
Freedom and the Economy: Neoliberalism, the Individual and Society: l’Università di Padova sta celebrando i suoi 800 anni e sta ospitando, in questi giorni, una serie di grandi personalità della cultura mondiale. Un paio di giorni fa al Bo ha parlato il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, uomo interessante, fautore di un capitalismo progressista i cui principi sono stati esposti in diversi libri. La conferenza la si può vedere su YouTube ed è molto intrigante, ricca di spunti, ma devo dirvi subito che è in inglese, e questo può sicuramente creare qualche problema a chi non parla o capisce bene questa lingua. Per farvi un veloce riassunto, Stiglitz si interroga sulla questione della libertà in una società sempre più ineguale, sostenendo che il Neoliberismo ha insistito molto sulla libertà in questi ultimi quarant’anni, non rendendosi conto (o non volendo vedere) che la libertà dell’uno è la costrizione dell’altro. Rendere più liberi gli imprenditori, oltre un certo limite, implica rendere meno liberi (più sfruttati, più condizionati) gli altri. E quindi la soluzione proposta da Stiglitz è un nuovo ruolo dello Stato e della società civile, che possano fare da mediatori ed evitare gli agglomerati troppo ampi di potere economico, redistribuendo in una certa misura il potere e il reddito e aumentando le misure democratiche. Interessante anche la (breve) parte di domande e risposte alla fine. Trovate l’incontro, di un’ora e poco più, qui sotto
Orgoglio e pregiudizio (2005), di Joe Wright, con Keira Knightley, Matthew Macfadyen, Donald Sutherland: sarà la terza o quarta volta che vedo questo film, ma il figlio grande ha lavorato a scuola sul libro di Jane Austen e voleva ora gustarsi l’adattamento cinematografico (che forse aveva anche visto da bambino, ma non ricordava più). La pellicola, anche alla quarta visione, risulta ancora bella e apprezzabile, credo perché il libro è straordinario ed è reso con fedeltà (soprattutto nel tono generale).
Quello che ho pensato
Ho riflettuto molto, questa settimana, se affrontare o meno l’argomento di cui oggi vi parlerò. Ci ho pensato perché trovo che ci sia molto rumore di fondo, ultimamente, che si facciano anche molte polemiche inutili e a me tutto questo alla lunga provoca un senso di fastidio e di noia. In questi ultimi due giorni, però, mi sono profondamente indignato per alcune cose sentite e lette, e non riesco a fare a meno di fare questo ragionamento.
Il problema riguarda il ruolo degli intellettuali e la loro fedeltà a certi standard metodologici. Le TV e i giornali, in queste settimane, sono pieni di accademici che dicono la loro sulla guerra in Ucraina. Alcuni sono bravi, alcuni lo sono meno, alcuni argomentano in maniera precisa, altri si lanciano in ragionamenti al limite del delirio, ma non è questo il punto. Le opinioni sono (quasi) sempre legittime e meritano di essere discusse caso per caso. Quello che mi dà invece enormemente fastidio è il tradimento dei metodi della propria professione.
Non parlo dei filosofi, per i quali non esiste un vero e proprio metodo condiviso (e quindi ognuno fa un po' come gli pare, a volte argomentando dialetticamente, altre volte buttandola sull'empatico). Parlo invece degli storici, che hanno a disposizione ormai molti decenni un metodo preciso, solido, efficace per discernere la validità delle fonti e per valutare i fatti. Uno storico, davanti a una guerra come quella dell'Ucraina, dovrebbe essere l’intellettuale maggiormente in grado di fornire al pubblico un'analisi lucida e rigorosa di quello che sta avvenendo, perché le guerre, la propaganda, la politica sono (o dovrebbero essere) il suo campo.
Purtroppo però molti storici – per la verità non tanto i contemporaneisti, che mi sembra se la stiano cavando globalmente molto bene, quanto i medievisti e gli antichisti, che evidentemente questo metodo non l’hanno completamente assimilato – paiono tradire in queste settimane lo stesso metodo che hanno insegnato per anni all'università.
Facciamo un esempio concreto, per intenderci. Una delle prime cose che si imparano quando si fa il lavoro dello storico è l’esigenza di sottoporre a critica le fonti, cioè sostanzialmente di non fidarsi mai troppo di quello che c'è scritto in un documento antico. Più questo documento è stato infatti preparato da una cancelleria di un certo potente di turno, più questo documento probabilmente sarà falsato dal tentativo di quel potente di far passare per vera una propria visione parziale (o perfino inventata) delle cose. Chi è parte in causa in una questione e scrive, soprattutto se lo fa per essere letto da un pubblico, non ha di mira la verità, ma la difesa dei propri interessi. Napoleone non emanava scritti per fare un’analisi pacata del proprio operato, ma per esaltare la propria figura agli occhi dei francesi.
I documenti ufficiali, in questo senso, sono dunque le fonti meno attendibili di tutte: vanno confrontate con le fonti interne, con le fonti riservate, con documenti di osservatori indipendenti, che in genere sono molto più valide, in modo da trovare cosa di vero ci possa essere all'interno di questi documenti e cosa, molto più spesso, invece sia falsificato, consapevolmente o meno.
Questo lo sa benissimo qualsiasi storico, ma soprattutto lo storico contemporaneo, ben conscio del fatto che le guerre contemporanee si combattono a colpi anche di informazione e disinformazione. Ogni fonte governativa o comunque faziosa, dunque, va trattata come una fonte di tipo propagandistico, che può avere comunque un certo interesse, ma che non può essere presa per oro colato. Per farla breve, oggi uno storico che volesse ricostruire la storia dell'Olocausto e si basasse solo sui comunicati stampa del partito nazista sarebbe uno storico inetto, incompetente e pericoloso.
Eppure in queste settimane abbiamo visto storici andare in TV e sostenere che la Nato sta combattendo una guerra contro la Russia che ha voluto a tutti i costi provocare, che la Svezia e la Finlandia sono state annesse sempre dalla Nato, che le immagini dei massacri di Bucha non sono reali e sono state artefatte, che tra Russia e Ucraina non si può parlare di aggressore e aggredito, che il governo ucraino non è stato eletto democraticamente, che al potere a Kiev ci sono i nazisti e altre amenità del genere. E lo dicono non perché abbiano fonti da portare al vaglio dell’opinione pubblica, documenti inediti da mettere sul tavolo, prove di un qualche tipo, ma semplicemente perché così dice la propaganda di Putin. Putin ha detto che in Ucraina dominano i nazisti, e basta questo; Putin ha detto che la Nato stava per invadere la Russia, e basta questo; Putin ha detto che nel Donbass è in atto un genocidio e basta questo.
Ci sono molte prove che smentiscono le dichiarazioni del governo russo: da anni in Donbass sono presenti osservatori internazionali e organizzazioni non-governative che stilano rapporti molto diversi da quelli russi, ma che vengono ignorati da questi storici; su Bucha e simili sono presenti immagini di svariate fonti terze, ma vengono ignorate; sui crimini di guerra ci sono perfino le prime ammissioni degli stessi russi, ma pure queste non vengono considerate; c’è il marchiano fatto di un esercito che invade un territorio, ne distrugge intere città radendole al suolo, e si continua a non volerlo chiamare un esercito d’occupazione. Si dà credito, anche solo in forma dubitativa, a una propaganda e non si dà uguale credito alle prove fattuali, terze, documentate.
La cosa che più mi infastidisce, però, è il costante richiamo alla complessità. «Non ci sono buoni e cattivi, è più complesso di così», si sente dire di continuo da queste persone. Il che è anche vero: nessuno storico ha mai considerato la storia in termini di buoni e cattivi, per fortuna. Ma non è questo il punto: tirare in ballo categorie morali è un modo per sviare la questione.
Ho letto storici rifiutarsi risolutamente di dire che in questa guerra c’è un aggredito e un aggressore, e non riesco a capire come si possa arrivare a tanto. Certo, le motivazioni della guerra possono essere molte: la Russia aspira da sempre a un politica di potenza che negli ultimi anni – anche per le ingerenze europee e americane – non è riuscita a perseguire; certo, c’è la questione della minoranza russofona in Ucraina; certo, ci sono le imprevedibili oscillazioni che hanno segnato gli ultimi vent’anni della politica di Kiev. Ma c’è qualcosa che non si può ignorare: la Russia ha invaso l’Ucraina. È un fatto. E l’ha invasa non per liberare il Donbass, ma per conquistarla (più o meno velatamente), come dimostra il lungo attacco a Kiev.
L’ha invasa senza che ci fosse alcuna nuova reale minaccia alla sicurezza e al territorio russo. Certo, da anni la Nato si è allargata ad est e, certo, la Nato ha i suoi missili; ma questa è una situazione che dura da 15 anni (senza contare che pure la Russia ha, da molto tempo, i suoi missili). Certo, l’Ucraina mirava ad entrare nell’orbita occidentale, ma ogni paese – nel diritto internazionale – ha diritto di scegliere dove stare, né glielo si può impedire a colpi di cannone.
Insomma, che quella russa sia una guerra imperialista a me pare, francamente, lapalissiano. Se gli USA avessero fatto lo stesso con un altro paese (che ne so, l’Iraq?) questi stessi intellettuali si sarebbero stracciati le vesti, sarebbero scesi in piazza, avrebbero protestato davanti alle ambasciate a stelle e strisce. Lo diceva qualche giorno fa anche Luca Casarini, l’ex leader del movimento no-global: quindici anni fa protestavamo contro gli USA, oggi dovremmo protestare contro la Russia. Perché la dinamica è la stessa, pur nelle differenze. Ma una certa parte della sinistra di allora fa esattamente il contrario oggi, tradendo, a me pare, non solo il proprio metodo, ma anche in realtà i propri ideali.
Le incoerenze, però, non si fermano qui. Ho sentito storici affermare che in fondo non bisogna “fare il tifo” per l’Ucraina, perché l’Ucraina non ha fatto i conti col proprio passato, tirando fuori il solito argomento (putiniano) dei nazisti. Certo, è vero: l’Ucraina non ha fatto i conti col proprio passato filo-nazista. Mi chiedo se la Russia, allo stesso modo, abbia fatto i conti col proprio passato filo-stalinista, visto che proprio Putin ha ricominciato negli ultimi anni sempre più spesso a celebrare Stalin (la stessa Volgograd ha ricominciato, per volere del leader russo, a farsi chiamare Stalingrado in certe occasioni patriottiche). Mi chiedo anche se l’Italia, allo stesso modo, abbia fatto i conti col proprio passato fascista, visto che ci sono ancora numerosi comuni in Italia che si fregiano di aver dato la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini e di non volergliela togliere. Fare i conti col proprio passato è difficile, non tutti ci riescono. Mi chiedo se questo giustifichi un’invasione che ti rade al suolo mezzo paese: a me parrebbe di no.
Insomma, l’argomento del nazismo è risibile, e lo sanno tutti. Lo sa anche Putin, che lo usa con più parsimonia di quanto non lo si usi in Italia. È propaganda. Che esistano dei personaggi che abboccano alla propaganda, è plausibile; ma che siano gli storici a cadere in certi abbagli, mi fa tristezza. Anche tra i partigiani italiani c’erano tantissimi ex fascisti, come c’erano anche alcuni delinquenti, per dire: eppure questo non inficia il valore della loro lotta, perché era una lotta giusta per la liberazione del proprio paese da un invasore violento; perché adesso la resistenza ucraina dovrebbe essere diversa? Perché usare due pesi e due misure? Quando sono i nostri a combattere (nonostante ci siano anche dei sadici tra di loro) va bene ed è giusto chiamarli eroi; quando sono gli altri, invece, dobbiamo fare a meno anche solo di simpatizzare per loro?
L’unica spiegazione che riesco a dare per questo palese e continuativo tradimento – non riesco a chiamarlo altrimenti – del proprio ruolo e della coerenza delle proprie idee è l’eccesso di ideologia. Sono convinto che se questi storici vivessero duecento anni avanti nel futuro e potessero giudicare i fatti di oggi, ragionerebbero in maniera più serena e onesta. Quando svolgono le loro analisi sul Medioevo o l’Età moderna, infatti, sanno come lavorare. È la contemporaneità che li manda in tilt, perché sulla contemporaneità riversano le loro passioni politiche.
È un problema che la storiografia italiana – ma direi anche in generale il mondo intellettuale italiano – ha da molti anni: quello dell’iper-politicizzazione. È chiaro che ogni intellettuale ha le sue visioni politiche, le sue speranze, le sue passioni; ma è altrettanto chiaro, a mio avviso, che dovrebbe cercare di metterle tra parentesi, quando lavora, cioè quando svolge anche la sua professione pubblica di intellettuale. In questo, io sono estremamente weberiano: lo studioso di scienze storico-sociali deve cercare l’oggettività. Magari non la raggiungerà mai, ma deve quantomeno provarci. E quindi deve studiare i fatti con distacco, senza farsi condizionare dalle sue speranze, dalle sue paure, dai suoi rancori.
A me pare che ci siano molti intellettuali – soprattutto delle vecchie generazioni, di quelli formatisi negli anni '70 – che continuano ad analizzare il presente in termini di speranze da realizzare. Non vogliono che gli USA escano rafforzati da quello che sta accadendo in Ucraina, e quindi portano avanti le ragioni di Putin o mettono Putin e Zelensky sullo stesso piano.
Questo, però, non è fare storia; è fare politica (e propaganda). Immaginatevi uno storico che descrivesse la Seconda guerra mondiale non per come realmente è avvenuta, ma riportando solo la propaganda fascista o quella nazista, perché anti-staliniano. Immaginatevi, altrimenti, uno storico che prendesse per vere le bugie messe in giro su Maria Antonietta al tempo della rivoluzione francese, solo perché di animo anti-monarchico. Quello storico farebbe un cattivo servizio alla storia, perché non permetterebbe al pubblico di farsi una propria opinione, una volta chiariti – nei limiti del possibile – i fatti.
A me pare che l’intento di certi storici (forse inconscio, forse inconsapevole, ma presente) sia proprio questo, oggi: incidere sull’opinione pubblica in modo da portare avanti un progetto politico più che storico. Perché gli ideali, per loro, contano più dei fatti.
Un giusto modo di procedere, nelle scienze, è che quando i fatti smentiscono la teoria, tu devi cercare di cambiare la teoria, in modo da trovarne una migliore; in questi casi, molto spesso, avviene invece il contrario: quando i fatti smentiscono la tua visione delle cose, tenti di cambiare i fatti. Ed è quello che purtroppo mi pare stia avvenendo.
Quello che ho registrato e pubblicato
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Per la pace perpetua di Immanuel Kant: qualche settimana fa ho preparato un video su questa breve ma vitale opera di Kant, estremamente attuale in queste settimane. È un’opera che ha dimostrato, per una volta, che i filosofi non pensano solo a mondi astratti e lontani dalla realtà, ma in certi casi sanno studiare il presente e addirittura anticipare il futuro. Lo si compra qui.
Creazione di video professionali da smartphone per social media: per molto tempo i miei video li ho realizzati con lo smartphone. Non ero particolarmente esperto e in effetti non venivano particolarmente bene dal punto di vista tecnico (non che oggi siano perfetti, ma allora erano a volte addirittura tragici). Avrei voluto, al tempo, un bel videocorso per imparare. Se voi vi trovate nella mia stessa situazione, vi consiglio questo bel corso introduttivo al tema; costa quasi 24 euro, ma li vale. Lo trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né fare corsi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Cosa c’è in arrivo
Chiudiamo, come ogni settimana, con un elenco dei video e dei podcast in preparazione. Eccoli:
domani dovrebbe uscire una nuova puntata della rubrica Video Club storico-filosofico, ma non vi rivelo ancora su quale classico del cinema;
nel giro di qualche giorno arriverà anche un video di Educazione civica sui referendum sulla giustizia su cui si voterà prossimamente;
è in lavorazione anche il video su Kant in un’ora, anche se lo sto rimandando già da un po’;
infine ci sarà spazio anche per un video della serie sulle città, con la città industriale;
per quanto riguarda i podcast, poi, spazio ad Agostino e al giusnaturalismo.
Ecco, questo è tutto. Ci rivediamo, sempre qui, tra una settimana esatta. Ciao!