Il rapporto tra l'io e il mondo nelle dichiarazioni di Ferragni e Meloni e ne Il ragazzo e l'airone di Miyazaki, ma parliamo anche dei Goonies, della mafia, di Galeazzo Ciano e di Wittgenstein
Siete tutti ritornati al lavoro, a scuola, all’università? Probabilmente sì: anche per me questa mattina c’è stato il rientro in aula, con già verifiche da programmare, progetti da portare avanti e burocrazia varia da espletare. Per fortuna però non c’è solo questo panorama desolante: ci sono anche i ragazzi, le spiegazioni, qualcosa di bello e di innovativo qua e là.
Per quanto riguarda il nostro progetto di storia e filosofia sul web, vi annuncio che questa pausa natalizia è stata utile a me anche per fare il punto della situazione e programmare qualcosa di nuovo per il futuro. Non è detto che i frutti di queste idee si vedano subito, ma da qui a Pasqua credo che qualche piccola novità – sul canale YouTube e sui social – verrà alla luce, sperando che risulti interessante anche per voi oltre che per me.
Nel frattempo, concentriamoci come sempre su libri, film, video e quant’altro. Cominciamo.
ps.: la sezione Quello che ho pensato l’ho iniziata a scrivere qualche giorno fa, finendola ieri e rivedendola oggi; i fatti del saluto fascista di massa a Roma di cui parlano oggi tutti i giornali sono venuti fuori dopo. Per questa volta, ormai, non faccio più in tempo, ma la settimana prossima parliamo proprio di fascismo in Italia, perché evidentemente è ora.
Quello che ho letto
Partiamo come sempre dai libri: in lista questa volta ce ne sono due completati e uno che si avvia anch’esso verso la fine, segno che già dalla prossima settimana nell’elenco entreranno delle novità.
Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein: tra i libri finiti questa settimana c’è anche uno dei libri tutto sommato più brevi ma sicuramente più intensi della storia della filosofia, il Tractatus di Wittgenstein. Come forse già sapete, l’ho letto per discuterne assieme agli abbonati all’interno del nostro Club del Libro (altre informazioni qui), ma non è stata una rilettura facile. Sono passati infatti molti anni dalla prima volta in cui l’ho affrontato, e nella mia memoria si era cementato il ricordo di un libro certo ostico e oscuro, ma non così tecnico. Evidentemente ricordavo solo quello che volevo ricordare: quando mi sono rimesso a leggerlo, mi sono perso infatti nei passaggi – tutto sommato secondari, ma intriganti – in cui Wittgenstein entra nel dettaglio dell’analisi logica, scrivendo cose tipo: (∃x,y):aRx.xRy.yRb oppure, come nell’enunciato 5.531, Perciò, io non scrivo “f(a,b).a = b”, bensì “f(a,a)” (oppure “f(b,b)”). E non “f(a,b).~a = b”, bensì “f(a,b)”. C’è abbastanza materiale per averne dei capogiri. Poi, rimanendoci sopra e, soprattutto, decifrando le notazioni di Wittgenstein si riesce a capire dove vuole andare a parare, ma ci vuole un po’. E ci si finisce per chiedere anche il perché di tutto questo, come dicevo in parte anche la settimana scorsa: perché un libro del genere, che ovviamente è scritto per una ristrettissima cerchia di persone, per degli specialisti della logica, ha avuto un tale successo? Com’è stato possibile che un volumetto oscuro, che normalmente verrebbe pubblicato da una casa editrice universitaria e stampato sì e no in cinquecento copie (vendendone solo un centinaio e venendo letto da trenta o quaranta persone al massimo), sia diventato uno dei capolavori del Novecento, uno dei libri più commentati e studiati del secolo? Certo, è un libro molto intelligente, e questo non lo metto affatto in dubbio; ma molto spesso i libri intelligenti, soprattutto in ambito filosofico, non “sfondano” davvero. Secondo me, però, ha un altro pregio: che può essere frainteso. Che, cioè, presenta delle frasi così brevi che, a volte, possono essere interpretate in una maniera che va al di là di quelle che erano le reali intenzioni dell’autore; non travisandone del tutto il pensiero, quello no, ma semplificandolo molto. Ad esempio, prendiamo la celeberrima frase che conclude l’opera, l’enunciato 7: Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere. Per chi ha letto tutto il libro e ha faticato sui suoi vari passaggi, il significato di questa frase è piuttosto evidente: si può parlare solo dei fatti, cioè degli stati di cose, e ciò che non è un fatto non è esprimibile (anche se rimane mostrabile, ricadendo nella sfera del mistico); il che implica che tutta la metafisica e tutta l’etica vengono escluse dal campo del dicibile, e arrabattarsi, logicamente, sui loro problemi è tempo perso. Ma chi non ha letto e/o capito il libro interpreta facilmente la frase in modo diverso: o come un banale invito a parlar chiaro (per carità, l’enunciato vuol dire anche quello, ma non solo quello), o come un invito a vivere una vita in cui la metafisica e l’etica non contino più nulla (cosa che non era, invece, negli intenti di Wittgenstein, da quel che par di capire). Questo strano meccanismo ricorda un po’, a mio avviso, quello che è accaduto anche con Nietzsche, uno dei filosofi più citati ma forse non sempre capiti dell’età contemporanea: Instagram è pieno di biografie che riportano la sua celebre frase Bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella danzante, senza che gli autori di quelle “bio” abbiano minimamente contezza di cosa quella frase voglia dire nel pensiero di Nietzsche. Vabbè, il mondo va così, e non ci si può far niente. Comunque, per ritornare al libro di Wittgenstein, devo ammettere che col passare degli anni (quantomeno dei miei anni) le sue qualità rimangono belle evidenti, ma io personalmente inizio a scorgere anche qualche limite; ad esempio il fatto che – per quanto le sue esigenze di limitazione e chiarezza del linguaggio mi sembrino sempre interessanti – finisce per non occuparsi (o per non volersi occupare) di tante cose di cui, per la verità, varrebbe la pena di occuparsi. Per dirla più o meno con Popper: ridurre la filosofia a una mera critica del linguaggio mi sembra, appunto, riduttivo. Il libro, se vi interessa, potete comprarlo qui.
Il ducetto di Alessandro De Nicola: questo romanzo, se mi seguite sui social, ve l’ho già presentato poco prima di Natale, ma ora l’ho anche cominciato a leggere (pure con un certo interesse) e proprio ieri sera addirittura finito, quindi vale la pena di parlarne anche qui. Si tratta, in primo luogo, di un romanzo di fantapolitica, o, per essere più precisi, di un romanzo ucronico: i testi di questo tipo, come forse sapete, partono da una semplice ipotesi, ovvero «Cosa sarebbe successo se i fatti storici fossero andati diversamente?». Ad esempio, a questo filone appartengono La svastica sul sole (o L’uomo nell’alto castello, che è l’altro titolo con cui viene a volte pubblicato) di Philip K. Dick e Fatherland di Robert Harris, che provano ad immaginare un mondo in cui i nazisti non abbiano perso la Seconda guerra mondiale. Anche in Italia, in anni recenti, si è tentato qualcosa del genere, con un Mussolini ancora al suo posto, magari grazie alla decisione di non entrare, nel 1940, nel conflitto mondiale. De Nicola – che insegna diritto commerciale avanzato alla Bocconi ed è editorialista di Repubblica e La Stampa – prova a fare un’operazione lievemente diversa: la storia è ambientata infatti nel 1952, anno XXX dell’Era Fascista, e in effetti Mussolini è stato fuori dalla Seconda guerra mondiale, mantenendo il fascismo al potere; ma lo stesso Mussolini nel frattempo è morto di cause naturali, e il suo posto come dittatore è stato preso dal genero, Galeazzo Ciano, appunto soprannominato il “ducetto”, per il tono minore con cui governa rispetto al suocero. Su questa premessa, s’instaura poi una trama un po’ thriller e un po’ politica, visto che ben presto si delinea un piano per compiere un attentato contro lo stesso Ciano, proprio nel momento in cui, tra l’altro, il capo del governo sta per presentare delle importanti aperture che permetterebbero di liberalizzare il sistema politico italiano. Sulla scena ci sono svariati personaggi che si contendono l’attenzione del lettore, alcuni di fantasia ed altri invece storici (tra i tanti, gerarchi come Grandi, Farinacci, Bottai; fascisti come Borghese o Evola; ma anche Togliatti e Fanfani), ma in generale la narrazione scorre liscia e appassionante. Non vi voglio fare anticipazioni, ma diciamo che la dinamica dell’attentato che si deve compiere ricorda molto della nostra storia (reale) d’Italia, con servizi segreti deviati, terrorismo di estrema sinistra in rivolta contro il partito e altre particolarità tipiche della storia d’Italia. Insomma, come nei migliori romanzi ucronici si parla di fantapolitica, ma un po’ anche di politica vera. Se vi piace la storia italiana del Novecento e se vi piace anche fantasticare, di tanto in tanto, con i “se” e con i “ma” di questa storia, potrebbe essere proprio il libro che fa per voi, anche perché è scritto in modo appassionante. Lo potete comprare qui.
Discorso della servitù volontaria di Étienne de la Boétie: almeno un paio di libri di questa settimana, in un modo o nell’altro, riguardano il tema della libertà, o sarebbe meglio dire, per essere più precisi, del servilismo. E la cosa strana è che mi sono stati regalati, per motivi diversi; come a dire che il caso ha in qualche modo voluto che questo spazio tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024 fosse, nel mio immaginario, segnato dal tema dell’indipendenza, dell’autonomia, della libertà totale di pensiero e parola. Se Il ducetto, di cui ho parlato sopra, indaga le varie forme di servilismo e di opposizione che si possono generare davanti a un regime dittatoriale contemporaneo, il Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de la Boétie è molto più datato, essendo stato scritto nel Cinquecento pensando ai sovrani rinascimentali. Il panorama che presenta, però, non è troppo diverso da quello novecentesco: segno che cambiano i regimi, cambiano i nomi, cambiano le politiche, ma il servilismo resta. Il che ci potrebbe facilmente portare a pensare che l’uomo sia, nei secoli, sempre lo stesso, e inventi solamente nuovi sistemi politici per dare sfogo (o imbrigliare, a seconda dei sistemi e a seconda dei casi) la sua stessa natura. Non mi voglio addentrare oltre, ma sono riflessioni che prima o poi potremmo fare. Di per sé, il Discorso si legge in pochi minuti; è incisivo, sì, ma come può essere incisiva un’invettiva più che una profonda riflessione filosofica. Come altri scritti del genere – penso ad esempio al Saggio sull'arte di strisciare ad uso dei cortigiani, di Paul Henri Thiry d'Holbach – ha il dono di colpire rapidamente nel segno, convincendo però solo chi già crede nella bontà di quelle idee. Difficile, voglio dire, che chi sia abituato a strisciare, a leccare piedi o a lusingare i potenti di turno possa trarre giovamento e ravvedimento dalla lettura di queste opere; più facile, piuttosto, che chi ha già un’indole “autonoma”, diciamo così, si trovi rafforzato nelle sue idee. Ma a volte serve anche questo, anche solo per non sentirsi soli in un panorama che, da questo punto di vista, non è sempre dei migliori. Se vi interessa, il libro potete acquistarlo qui.
Quello che ho visto
Per quanto riguarda le visioni, questa settimana ci limitiamo espressamente ai film: ho rivisto dei classici e sono andato al cinema a guardarmi quello che diventerà, di sicuro, un altro classico. Eccoli.
I Goonies (1985), di Richard Donner, con Sean Astin, Josh Brolin, Jeff Cohen: credo (spero) che I Goonies non abbia bisogno di troppe presentazioni. Si tratta di uno dei film di culto degli anni '80, forse il più riuscito di quel grosso filone di pellicole pensate per un pubblico giovanile, di ragazzi, e quindi virato su tematiche avventurose. In realtà, a dirla tutta, la pellicola è un mix tra Indiana Jones e Mamma, ho perso l’aereo, e questa sua caratteristica risulta evidente appena si guarda il nome di chi ci lavorò: il soggetto venne infatti firmato da Steven Spielberg (il regista dei vari Indiana Jones, oltre che di una miriade di altri film), la sceneggiatura da Chris Columbus (che ha poi diretto, come regista, proprio Mamma, ho perso l’aereo, oltre ai primi due film di Harry Potter). La trama è celebre: un gruppo di ragazzini che sta per essere sfrattato dalle proprie case si avventura, più che altro per sfuggire ad una banda di malviventi, in un cunicolo che porta i giovani nei sotterranei della loro città, alla ricerca di un fantomatico tesoro di un ancora più fantomatico antico pirata, Willy l’Orbo. Nel cast c’erano dei teenager destinati ad una grande carriera: Sean Astin è poi stato il Sam de Il Signore degli Anelli (e lo si è visto anche in Stranger Things); Josh Brolin il Thanos della Marvel; Corey Feldman ha poi recitato in Stand by Me e Ragazzi perduti; Ke Huy Quan, dopo una rapida carriera da attore-bambino e un’altrettanto rapida scomparsa dalle scene, è recentemente tornato alla ribalta vincendo l’Oscar per Everything Everywhere All at Once. Sarà che io sono prevenuto e che da bambino questo film l’ho visto almeno una decina di volte, ma ogni volta che lo rivedo mi scende quasi una lacrima di commozione per questa storia certo un po’ melensa, certo scontata, ma alla fine appassionante e sincera nel suo cercare di recuperare gli slanci (e le assurdità) della pre-adolescenza. Lo trovate su Sky.
Il ragazzo e l’airone (2023), di Hayao Miyazaki: avrete sicuramente sentito parlare, in questi giorni, del nuovo film del maestro giapponese Hayao Miyazaki, che arriva dopo dieci anni di silenzio. Un film che è stato descritto come il più personale ed intimo della lunga carriera dell’autore nipponico, perché alcuni elementi della storia richiamano simili vicende biografiche vissute dallo stesso Miyazaki. Brevemente, la trama (senza troppi spoiler): nel Giappone in guerra del 1943, un ragazzo che ha appena perso la madre si trasferisce in campagna; lì, infatti, il padre – che lavora nell’industria aeronautica – si è risposato con la sorella minore della moglie e madre del protagonista, e sta per avere un altro figlio. Nei dintorni della dimora, però, si erge anche una strana torre dalla storia misteriosa, attorno alla quale si aggira costantemente un minaccioso airone. La sparizione della zia obbligherà il ragazzo ad avventurarsi dentro alla torre e a fare i conti con l’airone e soprattutto con il mondo che si nasconde dietro quella che pare essere quasi una porta degli inferi. Com’è già piuttosto chiaro da queste poche righe, nel film ritornano alcuni elementi ricorrenti del cinema di Miyazaki, in parte già visti anche in La città incantata, a cui Il ragazzo e l’airone si richiama spesso: l’esistenza di un altro mondo, alternativo e fantastico, che si sovrappone al nostro; la presenza, in questo mondo, di spiriti non necessariamente benigni, ma molto più spesso dai contorni oscuri; l’esigenza, però, di scendere a patti con queste entità e stringere con esse legami di amicizia, anche se complessi e difficili. In più nel film di oggi emerge la forte esigenza di crescita e maturazione: Il ragazzo e l’airone, al di là degli aspetti fantastici tanto cari a Miyazaki, è in pratica un romanzo di formazione, la storia di un ragazzo che esce dal suo egoismo (e dal suo mondo) per aprirsi alla realtà, fatta di tanti compromessi, di tante banalità, ma anche di legami. A me il film è piaciuto: è vero, come ha detto qualcuno, che è piuttosto lento ed è forse perfino troppo carico di simboli e di riferimenti da interpretare, però vi emergono la potenza della fantasia, l’ironia di Miyazaki e anche la capacità di tratteggiare personaggi che non sono mai né buoni né cattivi, ma una costante via di mezzo; e cioè esseri umani, coi loro pregi e i loro difetti. È come se Dante Alighieri, Lewis Carroll, Walt Disney e qualche narratore giapponese si fossero messi d’accordo nel mescolare tutte le loro idee in un mix unico: e quel mix unico è Miyazaki. Lo trovate al cinema.
L’esercito delle 12 scimmie (1995), di Terry Gilliam, con Bruce Willis, Madeleine Stowe, Brad Pitt: per tutta una serie di motivi – scolastici, legati a Brazil, e personali, legati alle vecchie serie televisive dei Monty Python – recentemente sono tornato ad interessarmi nuovamente di Terry Gilliam, regista che i più giovani non conosceranno ma che è stato autore di alcuni dei più interessanti esperimenti cinematografici degli ultimi decenni. Oltre al menzionato Brazil, che è una piccola chicca troppo spesso dimenticata, citerei – perché forse li conoscete – Parnassus, con Heath Ledger (alla sua ultima interpretazione) e Andrew Garfield, e Paura e delirio a Las Vegas con Johnny Depp. Ebbene, il regista americano nella sua carriera ha sempre cercato di sfidare l’immaginario consolidato, a volte riuscendoci e altre volte incappando in mezzi passi falsi; ma quando ci è riuscito ha creato delle opere originalissime e sorprendenti, che poi hanno avuto una certa influenza anche sul cinema successivo. Così è stato appunto per Brazil e Paura e delirio a Las Vegas, forse i suoi film più efficaci, ma lo stesso vale, pur con qualche limite, per L’esercito delle 12 scimmie, blockbuster di metà anni '90 in cui recitavano star di primissimo piano dell’epoca come Bruce Willis e Brad Pitt (che per quest’interpretazione vinse un Golden Globe). La storia è quella di un film di fantascienza e d’azione piuttosto intricato: in un mondo post-apocalittico in cui l’umanità (o quel che ne resta) è costretta a vivere sottoterra per via di un letale virus, un uomo viene inviato in missione speciale nel passato per cercare di capire come questo drammatico virus si sia diffuso, creando così tanti problemi. Una volta giunto nel suo passato, ovvero nei nostri anni '90, viene però preso per pazzo e questo genera una serie di inseguimenti, fughe e minacce, oltre che qualche parziale paradosso temporale. Il film è bello, coinvolgente, anche se magari non originalissimo nel soggetto; e poi presenta anche una serie di rimandi (piuttosto espliciti) al cinema di Hitchcock che lo impreziosiscono. Se vi interessa, lo trovate su Sky.
Quello che ho pensato
Ci sarebbero vari argomenti di cui varrebbe la pena parlare, questa settimana, ma vorrei almeno in parte tornare sul tema del narcisismo di cui parlavo già la settimana scorsa. La newsletter di sette giorni fa, infatti, ha suscitato un certo dibattito, o almeno ho visto che alcuni di voi mi hanno scritto, replicando spesso in senso positivo ma a volte anche in senso negativo alla mia tesi. Ho letto qua e là, velocemente, alcuni commenti, anche se non sono riuscito a rispondere quasi a nessuno.
Vorrei approfittare di questo spazio per fare quindi un paio di precisazioni, e passare però ad allargare il campo coinvolgendo nel discorso nientemeno che Giorgia Meloni e Chiara Ferragni. Seguitemi.
Primo: non prendete troppo sul personale quello che si scrive qui (ma non prendete nemmeno troppo sul personale quello che si scrive ovunque). Quando parlavo di narcisismo del nostro presente, mica parlavo di voi nello specifico, né parlavo di qualche persona in particolare che avevo in mente. Parlavo di quella che è una tendenza (che tra l’altro mi pare ben documentata pure dai dati) e con la quale dobbiamo fare i conti: sta a noi capire se ci siamo dentro, e fino a che punto ci siamo dentro. Ed eventualmente cosa possiamo fare per affrontare questo problema, ammesso che sia un problema. Perché badare a sé e al proprio benessere non è ovviamente un male, in sé; comincia ad esserlo quando diventa l’unica (o la principale) cosa che ci riempie la vita.
Secondo: questo ripiegamento su noi stessi mi pare si veda ancora di più e ancora meglio quando dobbiamo fare i conti con la realtà. Cosa che tendiamo sempre meno a voler fare. Il mondo non esiste, se non nella misura in cui è il nostro mondo, è il mio mondo. Ovvero: siamo sempre più portati a perdere contatto con la realtà oggettiva, preferendo una dimensione iper-soggettiva in cui tutto esiste sempre e solo in rapporto a noi.
Prendo due esempi, per sostenere questo punto di vista, tratti dall’estrema attualità nostrana: Giorgia Meloni e Chiara Ferragni. Ne avrei potuti scegliere anche altri, sia chiaro, e il mio non è un attacco ad personam, ma vorrei usare quelle due donne come simboli di un atteggiamento piuttosto diffuso (anche tra gli uomini).
Partiamo da Meloni. Qualche giorno fa la Presidente del Consiglio ha tenuto la consueta conferenza stampa di fine anno (anche se lievemente posticipata per motivi di salute), in cui ha fatto il punto sul 2023 appena concluso e sull’azione di governo. I giornali che ho letto si sono prodigati a mostrare come l’esponente di Fratelli d’Italia abbia detto molte cose inesatte, se non addirittura false; ed è un bene che, finalmente, qualche giornale cominci a fare il pelo e il contropelo a quello che dicono i politici. Al di là dei contenuti, però, a me adesso interessa lo stile.
Meloni, infatti, non ha solo sbagliato a riportare i dati: li ha proprio completamente travisati. Un esempio su tutti (ma ce ne sarebbero anche altri): «La crescita italiana è stimata comunque, e questo è un dato secondo me buono, superiore alla media europea», ha affermato la premier. Il che non è affatto vero: la crescita media dell’UE è stimata all’1,3%, la crescita italiana è stimata allo 0,9%. Siamo tra quelli messi peggio, e uno 0,4% (quando si parla di PIL) non è certo poco.
Ora, anche altri dati sono stati chiaramente falsati, ma questo mi pare molto rilevante. Il PIL è il valore che misura, in maniera sintetica, la ricchezza di un paese; e la sua crescita o decrescita (e il ritmo di tale crescita o di tale decrescita) sono un indicatore importante per capire l’efficacia delle misure del governo. Poi, per carità: ad influire pesantemente sul PIL sono anche le congiunture internazionali, il pregresso e tutto il resto, e bisogna considerare che con il governo Draghi, nel clima post-Covid, c’era stata una ripresa rapida che prima o poi si sarebbe naturalmente esaurita; ma essere sotto la media europea, per un governo che aveva promesso mari e monti, è probabilmente motivo d’imbarazzo; e difatti non lo si ammette tanto facilmente.
Adesso, però, non mi interessa capire se Meloni e il suo governo stiano agendo bene o male; quanto piuttosto mostrare che ormai il contatto con la realtà ce lo siamo giocato. Certo, si dirà: è già da un bel pezzo che funziona così, perché è da molto che i politici (o almeno certi politici) falsificano i dati a loro uso e consumo. E in parte è vero. Ma non del tutto.
Fino a pochi mesi (o forse anni) fa, i politici lavoravano sulla percezione della realtà, non sulla diretta falsificazione della realtà. Ad esempio, non contestavano il dato sul PIL (o non lo falsificavano), ma semplicemente dicevano qualcosa del tipo: «Anche se il PIL va male, i ristoranti sono pieni», o «Anche se le agenzie di rating ci penalizzano, i luoghi di villeggiatura sono pieni». Cercavano cioè di nascondere (o di non far pensare a) quei dati più difficili da comprendere, provando allo stesso tempo ad infondere fiducia – a fini propagandistici – cavalcando le impressioni personali, o le congiunture di breve periodo. In fondo, quello è lo scopo di ogni propaganda politica da quando esiste la democrazia: far vedere ai propri elettori solo quello che si vuol far vedere, nascondendo il resto. Non è una bella pratica, ma è anche comprensibile; ed è poi compito dell’elettore cercare di farsi furbo e di guardarsi attorno, anche e soprattutto al di là di quello che il politico di turno vuole fargli vedere.
Adesso però l’azione è più spregiudicata: non si tratta più di far volgere lo sguardo altrove; si tratta proprio di mettere i paraocchi davanti all’elettore, e sussurrargli contemporaneamente nell’orecchio una serie di fandonie.
Ora, in un mondo normale questo sarebbe un comportamento controproducente per qualsiasi politico: uno che va in conferenza stampa a riportare dati economici falsi verrebbe guardato anche dai suoi elettori come un personaggio assai discutibile. Gli elettori, teoricamente, ti votano perché tu mantenga le promesse; e se tu menti su quelle promesse, ma perfino lo fai con la nonchalance di un bugiardo navigato, la cosa inizia a farsi preoccupante. Ti posso concedere che tu possa indorarmi la pillola, ma non puoi dirmi che la pillola non c’è nel momento stesso in cui me la infili in gola (o in altri posti): perché puoi dirmi tutte le bugie che vuoi, ma prima o poi la mazzata dalla realtà arriva.
Che c’entra tutto questo con il narcisismo – o, meglio, col ripiegamento su se stessi – di cui parlavo la settimana scorsa? C’entra eccome. Perché Meloni è ancora saldamente al suo posto e non perde elettori né popolarità nonostante le bugie (non è la prima che dice, e si è accorta che può dirle, e continuerà a dirne): e questo avviene perché nessuno ha più voglia di fare i conti con la realtà.
Lo stesso discorso che ho fatto per Meloni l’avrei potuto fare per Schlein, Conte, Renzi, Salvini e tanti altri (anche se magari con accenti diversi): perché quello che interessa agli elettori è spesso – anche se non sempre – trovare qualcuno che confermi solo la propria visione delle cose, il proprio mondo interiore.
Chi vota Meloni, spesso, non lo fa perché pensa che Meloni davvero salverà l’Italia, né che risolleverà il PIL o chissà cos’altro; ma la vota perché vuole sentirsi dire quello che Meloni dice. Così come chi vota Schlein non lo fa perché convinto che il PD cambierà le cose in Italia, ma perché ama quella narrazione. E la ama perché conferma i valori di cui quella persona è portatrice.
Qui non voglio, ovviamente, negare l’importanza dei valori o di certe visioni del mondo; ma voglio dire che questi valori e queste visioni dovrebbero essere sempre negoziati con la realtà. Cioè: con questa realtà dovremmo pur farci i conti, prima o poi. Con l’andamento del PIL, con l’andamento del debito pubblico, col tasso di disoccupazione, col numero di migranti, con l’età media degli italiani e via discorrendo. Possiamo trincerarci finché vogliamo dietro a slogan come “Prima gli italiani” o “Dobbiamo fare più figli” o perfino “Abbasso il fascismo” (cosa sacrosanta, tra l’altro), ma prima o poi ci dovremo anche accorgere che gli slogan non bastano, che questa sensazione di autocompiacimento che proviamo quando qualcuno conferma le nostre idee non basta. Che, detta in altri termini, non ci siamo solo noi e il nostro ego da soddisfare.
Secondo esempio: Chiara Ferragni. O, meglio, la chiaraferragnizzazione dell’Italia e in particolare dei social network. Avrete letto, forse, che l’influencer più seguita del paese è tornata in questi giorni a postare contenuti su Instagram, dopo un lungo silenzio (oddio, lungo fino ad un certo punto: qualche giorno) seguito all’affaire Balocco. E subito sembrano essere tornate, all’orizzonte, altre polemiche e forse altre inchieste giudiziarie.
Ma rimaniamo su Ferragni. Per prima cosa, una volta rientrata sui social, ha scritto che i suoi follower le sono mancati. E io mi sono fermato un attimo a pensare a questa cosa: si è trattato di una dichiarazione sincera oppure no? Davvero i follower le sono mancati? Oppure il suo è stato un semplice atto di piacioneria, una captatio benevolentiae, una di quelle frasi che si dicono tanto per compiacere il pubblico? Tipo salire sul palcoscenico e per prima cosa affermare: «Siete un pubblico meraviglioso!», anche se il pubblico non ha ancora aperto bocca e sta semplicemente applaudendo per cortesia?
Non so dare risposta: bisognerebbe essere nella testa di Chiara Ferragni per sapere dove stia la verità. Ma poniamo che sia vero, che davvero per una ventina di giorni l’influencer più nota d’Italia abbia sofferto nel non leggere i commenti dei suoi seguaci. In fondo non ci sarebbe nulla di strano: è questo il meccanismo dei social. Un meccanismo che vive di reciproco scambio emotivo.
Ci si sofferma molto, e giustamente, sull’effetto che i social network hanno sul pubblico, sui follower; ma bisognerebbe guardare anche all’effetto che hanno sui creatori di contenuti, come li si chiama oggi. Perché un effetto abbastanza perverso tendono ad averlo anche lì.
Me ne rendo ben conto anch’io, che pure cerco di stare il più possibile fuori da queste dinamiche. Instagram mi manda una notifica quando la gente mette un “cuore” alle mie foto e, una volta che apro le storie, mi mostra altri cuoricini per farmi sapere a chi (e soprattutto a quanti) sono piaciute. Facebook, che è stato forse il primo a creare tutto questo, fa lo stesso; Twitter idem. Inoltre, se sei appunto un “creatore”, questi social ti forniscono diversi strumenti (gli analytics) per sapere come “vanno” i tuoi post.
Certo, per chi su queste cose ci campa sono strumenti molto utili per capire cosa funziona e cosa no, su cosa vale la pena impegnarsi e su cosa meno. Però sono anche vincolanti: perché c’è il rischio che cominci a dipendere da essi. Che cominci a produrre solo ciò che la piattaforma (o, meglio, gli utenti medi della piattaforma) ti richiedono.
È per questo che i nove decimi di quello che trovate sui social network è praticamente identico, sembra uscire dalla stessa mano: gli analytics portano ad un appiattimento generale dell’offerta, verso ciò che “rende” di più. Vanno per la maggiore ragazze che fanno un balletto scemo? E allora tutti inizieranno a fare balletti scemi, un po’ per spirito di emulazione, un po’ perché l’algoritmo “premia” il balletto. Vuoi emergere, sembra chiederti il social network di turno? E allora balla anche tu!
È proprio per non incappare troppo in queste dinamiche che a volte rifiuto i vostri inviti ad occuparmi di “ciò che va per la maggiore” (questioni di attualità, nel mio caso): perché poi si entra in un vortice, e non sei più tu a decidere di cosa parlare, ma è l’algoritmo a deciderlo per te.
Ma questa, per la verità, è una questione collaterale rispetto a quello che volevo dire. Perché i social network, nati con l’idea (almeno sulla carta) di condividere, di regalare qualcosa a qualcuno (una battuta, una riflessione, una segnalazione, una cosa bella) sono diventati strumenti che servono anche per alimentare il proprio ego.
Il rapporto tra influencer e “influenzati” può essere perverso: io ti mostro la mia vita a patto che tu mi dica che è meravigliosa. Io ti mostro la mia ironia a patto che tu mi dica che è fantastica. Nei casi peggiori: io ti mostro il mio corpo a patto che poi tu mi dica che mi desideri.
Ed è una cosa che, nel mio piccolo, pur con numeri infinitamente più bassi di quelli di Chiara Ferragni, sento anch’io. L’ho detto già altre volte: vi ringrazio dei complimenti, ma sono quasi sempre esagerati (come sono esagerate le critiche, che rappresentano l’altra faccia della medaglia). Soprattutto i complimenti che vanno al di là di quello che si vede nei miei video. Quando qualcuno mi scrive “Che fortunati i tuoi studenti!”, mi verrebbe da rispondere che in realtà non lo sa: magari sono un professore cattivissimo, che umilia i ragazzi, che li fa star male. O un menefreghista, un disinteressato, uno pieno di sé. Sullo schermo si vede solo un piccolo pezzo di quello che sono; anzi, si vede solo quello che io voglio più o meno far vedere.
Bisogna cercare con tutte le forze di sfuggire a queste dinamiche, che non dipendono ovviamente dai follower ma dal sistema in sé. Sono i social network che alimentano tutto questo, che funzionano da casse di risonanza dell’ego. E però ci portano così ad un esito paradossale: tu dirami al mondo delle cose, e invece che parlare delle cose vorresti che la gente parlasse di te.
In questo modo diventa inevitabile che i ragazzini (almeno quelli più indifesi e ingenui) crescano con l’idea che l’obiettivo della vita sia diventare popolari, e che non sia importante come si raggiunge questo traguardo. Si finisce insomma per invertire le cose: noi dovremmo fare qualcosa di buono per gli altri, e se poi facendolo riceviamo dei complimenti tanto meglio; invece puntiamo a ricevere complimenti, e il fare qualcosa di buono per gli altri diventa (quando c’è!) il mezzo, non il fine. Così si fa beneficienza solo per accrescere la stima di cui si gode presso il pubblico, molto più per se stessi che per gli altri.
Il mondo dei social è falso, illusorio, lo diciamo tutti da molto tempo. Ma è falso e illusorio perché vive di queste dinamiche narcisistiche ed egocentriche, a cui molti di noi più o meno inconsapevolmente si prestano.
Il che non vuol dire che i social siano il male assoluto: con molte cautele, li si può usare comunque bene, o proficuamente, a mio avviso. Ma bisogna aver sempre presente dove si vuole andare e dove si vuole arrivare.
Chiudo con un piccolo, ulteriore motivo di riflessione. Ho cercato di condurvi assieme a me, in queste due settimane, nel cercare di capire meglio come il rapporto tra l’io (o l’ego) e il mondo mi sembri sempre più sbilanciato sul primo ramo e sempre meno sul secondo: il mondo conta sempre meno, mentre contiamo sempre di più noi. E questo secondo me è un problema bello grosso: perché da un mondo virato sempre e solo sull’ego non si esce vivi. È inevitabile, infatti, che in una realtà del genere saltino i vincoli di solidarietà, l’accomodamento e il compromesso, l’impegno civile e tanto altro ancora.
Ebbene, a me pare che questo tema emerga pesantemente anche nel film Il ragazzo e l’airone, di cui vi ho parlato qualche paragrafo più sopra. Miyazaki ha voluto lasciarci quasi un testamento spirituale: un invito a non chiuderci nella nostra torre d’avorio (e proprio una torre è al centro del film), a non crearci mondi illusori che aspirano alla perfezione, ma a sporcarci le mani con la realtà vera, difficile, dolorosa. Il ragazzo che esce dalla torre fa quello che dovremmo fare tutti noi, vivendo un po’ meno per noi stessi e un po’ più anche per gli altri.
Quello che ho registrato e pubblicato
Passiamo ora ai video e ai podcast che ho pubblicato questa settimana:
Pirandello: vita, opere e storia: iniziamo ad analizzare l’opera di Luigi Pirandello, partendo però dai suoi legami con l’Italia del suo tempo
India e Cina alle origini della storia: le prime civiltà della storia non sorsero solo nel Vicino Oriente, ma anche molto più ad est
Storia delle Olimpiadi antiche: diamo avvio a un nuovo percorso che lega la storia allo sport, partendo però da lontano
Corso di logica 13 - Sillogismo ipotetico e dilemma costruttivo: presentiamo le ultime due regole di inferenza che ancora ci mancavano
Il problema del senso della vita in Pascal (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
La Cina diventa repubblicana (per il podcast “Dentro alla storia”)
L’America a inizio Novecento (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
Il canale YouTube | Instagram | Facebook | Twitter/X | TikTok
Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Cosa nostra di John Dickie: un buon modo per capire i fenomeni umani è studiarne la storia. Questo vale anche per la mafia, uno dei fenomeni più problematici della storia d’Italia. Questo libro, firmato dallo storico britannico John Dickie, aiuta a far luce su una storia complessa e ramificata. Va letto, anche perché non ha solo un valore storico, ma anche di impegno civile. Tra l’altro, costa appena 15 euro e potete acquistarlo qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
Chiudiamo con qualche anticipazione di quello che potrebbe arrivare nei prossimi sette giorni:
già domani dovrebbe uscire, dopo tanto tempo, uno short/reel/tiktok, cioè un video breve pensato per i social network: il tema sarà il film Il ragazzo e l’airone, che già vi ho presentato sopra;
mercoledì si svolgerà online la riunione del Club del Libro per gli abbonati, destinata a parlare del Tractatus di Wittgenstein (siete ancora in tempo per abbonarvi e partecipare: e se si vuole si può anche solo ascoltare);
giovedì e venerdì, poi, torneranno i podcast, con Pascal sul versante filosofico e la Rivoluzione messicana su quello storico;
sabato dovrei riuscire a fare un video su Guglielmo di Ockham, di cui abbiamo già parlato tempo fa ma sul quale manca qualche discorso di contorno;
domenica, infine, mi piacerebbe pubblicare un video della serie “La filosofia dei grandi registi”, incentrato su Charlie Chaplin;
e lunedì prossimo, infine, forse arriverà un nuovo short/reel.
E questo è tutto anche per questa settimana. Ci ritroviamo come sempre qui tra sette giorni. Non mancate!
A proposito dell osservazione sul Tracatus , che lessi da adolescente .
Ci sono molti aspetti dell esistenza che vengono lasciati fuori da quell approccio .
Ma come sapra' bene , professore , Wittgenstein ha poi cambiato approccio con il
cosidetto "secondo Wittgenstein" delle "Ricerche filosofiche".