La fragilità della conoscenza a scuola, senza dimenticare Giacomo Leopardi, la serie di Boris, Enola Holmes, Napoleone III, Slavoj Zizek, Baruch Spinoza e Luigi Meneghello
Come ve la state cavando, in questo novembre che pare ancora pienamente ottobre? Qui dalle parti di Rovigo il clima è piuttosto mite e le classiche nebbie a cui siamo di solito abituati si sono fatte vedere poco. Il che, a pensarci bene, è un po’ un guaio: se togli la nebbia, Rovigo diventa una cittadina senza arte né parte. La nebbia è il nostro punto d’eccellenza, una delle poche cose in cui primeggiamo a livello nazionale e forse internazionale. Senza la nebbia siamo solo un paio di piazze e un campanile.
Da parte mia, questi ultimi giorni sono stati molto intensi. La scuola sta facendo entrare nel vivo alcuni dei suoi progetti – e in particolare quello dell’orientamento in ingresso – a cui collaboro; allo stesso tempo sto lavorando sui nostri archivi, sulla preparazione dei viaggi d’istruzione, sui compiti da correggere e i consigli di classe da svolgere. Se a tutto questo aggiungete qualche inevitabile impegno familiare (a volte anche imprevisto), ne esce un calendario fittissimo.
Bisogna dire, però, che alcune di queste cose avranno presto ricadute anche sulla nostra newsletter e sul nostro canale YouTube. Ad esempio questo sabato sono intervenuto ad un incontro, qui in città, sul tema della fragilità, e qualche spunto di quell’iniziativa ho cercato di riportarvelo (ed ampliarlo) nella sezione Quello che ho pensato che trovate qui di seguito. Inoltre, da tempo lavoro (assieme ad un gruppo di studenti, che inizia per la verità ad essere anche relativamente ampio) ad una piccola ricerca sulla storia della mia scuola e potrebbe venirne fuori qualcosa di interessante anche per chi di solito non si occupa di queste cose. Ve ne darò conto a tempo debito.
Ma ora bando alle ciance: abbiamo come al solito libri, film e riflessioni varie di cui parlare. Cominciamo.
Quello che ho letto
Iniziamo come sempre con i libri. Un paio di volumi nell’elenco qui di seguito vi staranno ormai andando un po’ a noia, perché ce li portiamo dietro da varie settimane; uno è però nuovo e presto credo che fornirà anche un po’ di materiale per una riflessione più ampia.
Libera nos a Malo di Luigi Meneghello: ve ne ho già parlato varie volte e forse non vale la pena ripetere quello che vi ho già scritto nelle settimane scorse. Del resoconto di Meneghello – che con questo libro tracciò la storia della sua infanzia a Malo, in provincia di Vicenza – la cosa più significativa è la capacità di cogliere cose che chi è cresciuto in Veneto (e forse anche in altre parti d’Italia) conosce fin troppo bene, ma che non è mai riuscito del tutto ad esprimere. Ad esempio, l’importanza del dialetto, lingua prettamente orale che non si può scrivere, che cambia non solo da paese a paese, ma addirittura da quartiere a quartiere, da famiglia a famiglia e da anno ad anno, tanto che chi emigra e poi ritorna per una vacanza in paese pare ormai un “foresto”, perché nel frattempo il dialetto si è evoluto e quella persona è rimasta indietro rispetto al fluire della lingua. Oppure la peculiarità delle bestemmie, ancora oggi spesso menzionata a livello popolare come una delle grandi particolarità del Veneto, eppure già negli anni '30 così caratteristica di un rapporto particolare con la divinità, con la Chiesa, col potere. Oppure ancora le relazioni tra i signori (anzi, i siori) e i contadini, tra una classe sociale e l’altra, segnate non tanto da lingue diverse (tutti parlano il dialetto) o da costumi diversi (tutti vivono la vita in maniera simile, almeno dal punto di vista dei valori), ma da un tono diverso che si dà alle cose, da una sfumatura. Insomma, c’è molto, in questo libro, del Veneto che è stato, ma anche del Veneto che c’è ancora oggi, perché questa regione, nonostante l’industrializzazione, la ricchezza e tutto il resto, tende a rimanere sempre uguale a se stessa. E domenica, quando sono andato a fare un giro sull’altopiano di Asiago e quindi non troppo distante da Malo, mi veniva da sorridere a sentire i ventenni locali parlare in dialetto con la classica inflessione vicentina che sarà stata anche quella di Meneghello, circa un secolo fa. Se il libro vi interessa, lo potete comprare qui.
Make It Stick di Peter C. Brown, Henry L. Roediger III, Mark A. McDaniel: di solito, come sicuramente sapete, i libri hanno un solo autore; di tanto in tanto nel ramo della saggistica però ci si può imbattere in volumi scritti a quattro mani, o addirittura in opere collettanee, composte cioè del contributo (spesso in saggi separati tra loro) di più autori. Più raro è però trovare libri scritti a sei mani, anche da persone che si firmano – come in questo caso – pure con l’iniziale del secondo nome o altri segni che servono a farci capire che siamo di fronte a degli accademici. Già questo è indice del fatto che con questo secondo titolo siamo di fronte ad un libro strano. Make It Stick, il cui titolo in realtà è molto più pop di quanto tutto questo lascerebbe pensare, è infatti un testo pubblicato dalla Harvard University Press (tramite la sua controllata Belknap Press) ed è disponibile solo in inglese; si tratta infatti di un saggio di livello universitario che cerca di informare riguardo a tutta una serie di ricerche sperimentali. L’aspetto più interessante, però, è che queste ricerche riguardano il campo dell’apprendimento. Il titolo, infatti, potremmo tradurlo come Fallo rimanere, Fallo durare, Fallo attaccare, o, un po’ più liberamente, Non dimenticarlo: lo scopo è infatti indagare i modi più efficaci non solo per apprendere nuove competenze e nuove nozioni, ma anche farle durare nel tempo. Il tema, dal mio punto di vista, è estremamente interessante: non solo perché, in quanto insegnante, devo sempre fare i conti con gli apprendimenti dei miei studenti, ma anche perché non è raro imbattersi in allievi che imparano tutto per filo e per segno in vista delle verifiche, ma poi tendono a dimenticare una parte di quello che hanno studiato. O, caso ancora più grave, fanno una fatica tremenda a studiare i contenuti, accumulando uno stress che a me pare, a volte, eccessivo. Sono temi di cui, almeno di striscio, parleremo anche dopo, nella sezione Quello che pensato, ma su cui con calma mi piacerebbe ritornare. Per ora del libro ho letto solo la parte iniziale e, visto che appunto è in inglese, ci metterò un po’ a procedere, ma mi pare già che le prime conclusioni a cui gli autori arrivano siano interessanti. Il libro come detto è solo in inglese e anche un po’ caro, ma, se siete del settore, credo ne valga la pena. Lo trovate qui.
Il buon soldato Sc’vèik di Jaroslav Hasek: anche di Sc’vèik vi ho parlato parecchie volte. Il libro per la verità lo sto quasi divorando, ma è davvero molto lungo e pertanto mi sta tenendo compagnia da diverse settimane (anche se ormai comincio a vederne la fine). Al soldato boemo arruolato a forza nell’esercito austro-ungarico durante la Prima guerra mondiale continuano a capitarne di tutti i colori: dopo esser stato sospettato di essere una spia russa è stato finalmente spedito al fronte, solo per finire di nuovo agli arresti. Poi, per una serie di vicissitudini, ha fatto amicizia con un volontario in ferma breve anche lui in arresto ed entrambi sono finiti su un vagone ferroviario, imbattendosi in un cappellano militare ubriacone (diverso però da quello incontrato nei capitoli precedenti: evidentemente i cappellani militari, nell’esercito austro-ungarico, durante la Grande Guerra non dovevano godere di buona fama). In compenso, nelle ultimissime pagine che ho letto Sc’vèik sembra aver fatto colpo anche con questo nuovo sacerdote e ora, entrato nelle sue grazie, pare in procinto di diventarne attendente: vedremo se però l’affare si concretizzerà e se lo stupido soldato boemo riuscirà così a risparmiarsi la prima linea. In ogni caso, se vi piace la satira anti-militaresca, questo può essere decisamente il libro che fa per voi. Lo potete comprare qui.
Quello che ho visto
E parliamo anche di film, come sempre. Due sono le pellicole “lunghe”, una la serie TV presenti questa settimana in lista. Vediamole.
Guida perversa all’ideologia (2012), di Sophie Fiennes, con Slavoj Zizek: Zizek, il celebre filosofo sloveno che è in un certo senso una specie di rockstar della filosofia, forse lo conoscete già. Qualche tempo fa, sempre qui, vi avevo parlato di Guida perversa al cinema, il suo primo documentario filosofico dedicato all’analisi di diversi film hollywoodiani; e quello di oggi è in un certo senso il suo sequel, anche perché di fatto continua a fare la stessa cosa che aveva cominciato nel primo, cioè ad analizzare film in chiave filosofica (e, ancora di più, psicanalitica). Gli spunti sono interessanti, anche perché Zizek sa come si provoca lo spettatore; quello che casomai manca è un quadro più generale, una proposta di lettura che vada oltre il lato dissacrante e distruttivo. Il pregio e il difetto del film, infatti, mi sembrano essere gli stessi che si possono muovere a tutta l’opera filosofica di Zizek, anche quella nei libri: ad un’indubbia capacità di stupire e di porre domande nel lettore, Zizek infatti non sempre contrappone un’altrettanto valida capacità di costruire. Detta in altri termini: è bravissimo a mostrare i limiti delle società occidentali e del consumismo, ma si ingarbuglia un po’ nella pars construens della sua filosofia, quando cioè deve provare a mostrare come questi limiti possano essere superati. Come ha scritto già qualcuno, a me pare che Zizek sia, insomma, soprattutto un provocatore; estremamente interessante, ma pur sempre un provocatore che si divertente di tanto in tanto anche a stupire con effetti speciali. Il film lo trovate su Amazon Prime Video.
Enola Holmes 2 (2022), di Harry Bradbeer, con Millie Bobby Brown, Henry Cavill, Louis Partridge: con una figlia che è stata (e forse è ancora, non so) fan di Millie Bobby Brown, questa settimana non potevamo esimerci dal guardare Enola Holmes 2, la nuova produzione di Netflix dedicata alla fantomatica sorella minore di Sherlock Holmes. Il film non è niente di che: la protagonista è anche brava a mettere del dinamismo nel personaggio, ma è proprio la storia a livello di sceneggiatura a convincere poco, tra complotti esageratamente complessi, ritmo poco coeso e inutili flashback e flash-forward creati solo per stupire e non per una precisa funzione narrativa. Insomma, a parte qualche momento simpatico, una pellicola piuttosto mediocre, considerando che perfino mia figlia non ne è stata particolarmente presa. Ad ogni modo, se siete fan della Brown (quella che interpreta Undici in Stranger Things) o di Henry Cavill, potete guardarvela tranquillamente. Prima di passare oltre, però, vorrei sottolineare una cosa che mi pare in parte preoccupante: ultimamente la tendenza (soprattutto di Netflix) pare essere quella di riscrivere gli eventi del passato dando maggior peso alle minoranze o agli emarginati. Solo per fare un esempio, in questo film abbiamo gruppi di donne che organizzano evasioni, lottano con gli uomini e tengono testa a poliziotti e ministri, mentre persone di colore hanno ruoli di primo piano nella società. Ora, è encomiabile che finalmente Hollywood stia scoprendo le donne e i neri, ma non è affatto encomiabile, e anzi mi pare pericoloso, che li rivaluti addirittura a posteriori, nell’Ottocento. A fine Ottocento è implausibile che le donne combattessero a pugni e con colpi di karate contro i polziotti, ed è impossibile che donne di colore parlassero da pari a pari con i membri dell’aristocrazia. Detta in altri termini, la rivalutazione delle minoranze non può certo passare tramite una riscrittura all’insegna del politicamente corretto della storia. Altrimenti, se la tendenza continua ad essere questa, a lungo andare avremo delle generazioni convinte che nell’Ottocento i neri godessero degli stessi diritti dei bianchi o che le donne non avessero grandi problemi a farsi rispettare dagli uomini, cosa che è indubbiamente falsa. Non si capiscono le lotte delle donne e dei neri, se non ammettendo che in passato erano pesantemente discriminate e discriminati. Se vogliamo fare – e giustamente – film che diano una nuova attenzione a queste categorie, per favore ambientiamoli nel presente, senza inventare un passato che in realtà non c’è mai stato.
Boris episodio 4.02 (2022), di Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo, con Francesco Pannofino, Pietro Sermonti, Alessandro Tiberi: ci ho messo un po’ a vedere la seconda puntata di Boris, forse perché la serie me la voglio un po’ centellinare, però questa settimana ce l’ho fatta. Il clima è lo stesso delle vecchie stagioni di dieci o più anni fa: i personaggi principali, d’altra parte, sono sempre loro e in certi casi sembrano non essere neppure invecchiati o cambiati di una virgola. La cosa carina, però, è che adesso non si prende più tanto di mira la Rai, con le sue fiction farlocche a basso costo, ma direttamente le piattaforme di streaming come Netflix o la stessa Disney+ che ospita lo show, con le loro trame costruite a tavolino (l’idea di introdurre una trama teen nella vita di Gesù mi ha fatto pensare tantissimo a Il Vangelo secondo Biff, a cui tempo fa ho dedicato anche un video). Insomma, per una volta siamo di fronte ad una satira che scivola facilmente nel grottesco ma che riserva sempre anche qualche invenzione geniale. Da vedere.
Quello che ho pensato
Come vi ho già anticipato in apertura della newsletter, questa settimana mi sono trovato – un po’ per caso, un po’ perché sospinto da altri – a pensare molto alla scuola e soprattutto al modo in cui la scuola è percepita e vissuta.
Direi che gli spunti che mi hanno portato a riflettere su tutto questo sono stati essenzialmente quattro:
si sono svolti nei giorni scorsi i consigli di classe, con la prima analisi delle difficoltà e delle insufficienze, i primi confronti tra professori, la stesura della programmazione;
ho iniziato a leggere Make It Stick, di cui vi ho parlato più sopra, che parla di apprendimenti ma anche, indirettamente, di qualche magagna della scuola e di qualche luogo comune in cui i docenti tendono a cadere;
sono stato ancora più immerso nelle attività dell’orientamento in ingresso, andando a parlare ai ragazzini delle scuole medie ma anche e soprattutto parlando coi nostri tutor di terza, quarta o quinta superiore, analizzando le loro idee sulla scuola;
infine, e forse questo è stato il punto più importante, mi hanno chiesto di partecipare ad un evento proprio sul tema della fragilità, in modo da portare una testimonianza e qualche riflessione che provenissero dal mondo della scuola.
Spunti vari, come si vede, ma che vale la pena di menzionare per capire anche come ho fatto, credo, ad arrivare a certe valutazioni.
In primis, mi vien da dire che in generale tendiamo a sottostimare la fragilità, un po’ perché la riteniamo un elemento di debolezza e quindi facciamo finta di non vederla, un po’ perché diamo per scontato, sotto sotto, che ognuno sia la causa delle proprie fragilità, e che quindi esse possano essere risolte solo dal soggetto fragile e non dagli altri.
Nella scuola questo è particolarmente evidente. Le fragilità sono molte: i voti negativi, in primo luogo, ma anche lo stress e l’ansia da prestazione, i problemi personali e familiari che vanno ad incidere sull’esperienza scolastica, i rapporti coi compagni e con i professori che a volte possono essere anche particolarmente complessi. Alcune di queste fragilità indubbiamente le vediamo: i voti stanno lì, sul registro, e quando sono insufficienti ci risaltano in un rosso acceso; però non le consideriamo sempre come fragilità: ci raccontiamo che il ragazzo o la ragazza studiano poco (cosa che magari è pure vera, ma…) e la chiudiamo lì. Oppure, appunto, ci convinciamo che questi problemi siano solo colpa del ragazzo e che solo lui possa superarli, magari con un semplice sforzo di volontà («Se solo studiasse di più…»).
Eppure questa è pur sempre solo la superficie. In primo luogo, perché oggigiorno ad essere fragili non sono solo i ragazzi che “vanno male” a scuola, ma anche (e in certi casi mi verrebbe da dire perfino più spesso) quelli che “vanno bene”, quelli che portano a casa la media dell’8 o del 9. Perché la fragilità non è, di per sé, legata al voto, ma a come si vive il voto.
In secondo luogo, questi problemi non sono propri solo delle circostanze che normalmente identifichiamo come situazioni a rischio, quelle cioè in cui ci sono famiglie distanti, condizioni socio-economiche precarie o violenze e abusi. Pure nella “normalità”, pure nel benessere apparente le difficoltà sono all’ordine del giorno, solo che di solito vengono nascoste meglio (e per questo sono più complesse da individuare).
Ma la vera domanda è: cosa deve fare la scuola davanti a tutto questo? Come può intervenire davanti a problemi che a volte sono più grandi di lei? Perché il malessere degli adolescenti supera, spesso, l’ambito scolastico: la paura di un voto parte da una difficoltà di autostima che ha radici ben più profonde di quella verifica; lo stress dei rapporti conflittuali in classe comincia da una difficoltà di relazione tout court e così via. In classe arrivano (e a volte si potenziano) problemi che più o meno già ci sono, che nascono fuori dalla scuola, prima della scuola. E allora potrebbe diventare facile dire: se buona parte dei problemi nasce fuori dalla scuola, va risolta fuori dalla scuola.
Questo, per carità, in parte è anche vero: sono convinto che la scuola non possa fare miracoli. Che perfino la migliore delle scuole spesso soccomba davanti ad un ambiente familiare completamente disfunzionale. Il che, però, non toglie che si possa in qualche modo fare la propria parte e riuscire ad alleviare un po’ dei problemi.
Il tema della discussione di qualche sera fa, di cui vi parlavo anche al punto 4 della lista iniziale, è stato proprio questo: come affrontare la fragilità. I modi sono molti perché molte sono le situazioni di difficoltà, ma secondo me c’è una condizione preliminare che spesso viene trascurata e che invece è la più importante di tutte: la fragilità si affronta se ci si dimostra fragili.
Proverò a ragionare concretamente con qualche esempio, per cercare di farvi capire meglio cosa intendo dire. Partiamo dai voti, che, come detto, non rappresentano certo l’unico (né il più importante) dei casi di fragilità che ci troviamo ad affrontare a scuola, ma è forse quello che balza agli occhi più di tutti. Immaginatevi uno studente o una studentessa in crisi per i suoi voti, che magari non sono buoni come vorrebbe o, a novembre, iniziano ad essere già pesanti, con diverse insufficienze. È una situazione che, in un modo o nell’altro, si presenta sempre, quindi ognuno di noi l’ha vissuta, o perché il protagonista della crisi era lui in prima persona, o per via di un qualche compagno di classe.
Ora, dicevamo: la fragilità si affronta dimostrando fragilità. Cosa vuol dire, questo, nell’ambito dei voti? Vuol dire, ad esempio, mostrare e dimostrare ai ragazzi che siamo tutti fragili e che attraverso le insufficienze e le crisi ci siamo passati tutti.
Non credo di essere uno di quegli insegnanti che in classe si mette sempre a parlare dei fatti suoi, e anzi davanti alle curiosità degli studenti cerco spesso di dribblare le domande, ma è anche vero che più o meno con ogni classe prima o poi mi capita di rievocare alcuni ricordi di quand’ero studente, accuratamente scelti. Ad esempio, il fatto che il voto che ricordo con più affetto è il 5½ che presi, in filosofia, all’inizio della quarta, in un’interrogazione in cui mi ero addirittura offerto volontario (sull’ellenismo, su Epicuro, sugli stoici, sui filosofi cristiani medievali e così via). Oppure, ad esempio, il fatto che in latino, per tutta la quarta e la quinta, alternai nello scritto voti che spaziavano dal 4- (e a volte addirittura 4 con tre “meno” subito dopo) al 9, senza alcuna via di mezzo e senza mai riuscire a capire perché una volta prendessi 4 e una volta 9. Oppure ancora, ad esempio, il fatto che all’università, pur laureandomi col massimo dei voti, mi capitò di esser mandato via e umiliato dal professore (stronzo) di turno.
Tutti quei casi e quei ricordi hanno un loro perché, a posteriori. A volte quei fallimenti furono colpa mia, altre volte colpa del prof stupido, altre volte ancora frutto di banale sfortuna. Ma furono tutti fallimenti che mi fecero star male, anche perché io a scuola non ero in genere abituato ai fallimenti (con le ragazze sì, ma a scuola no). Eppure, come ho detto, quelli negativi sono i voti che ricordo con maggior affetto, e cerco di comunicare proprio questo ai miei ragazzi: che a distanza di anni i bei voti non li si ricorda più, che i bei voti non ti hanno insegnato niente, che i bei voti di solito non ti fanno crescere. I brutti voti (almeno quando non sono tanti) te li ricordi tutti. Non siamo la somma delle nostre scelte, ma la somma dei nostri errori.
Lo si dice, con toni e con finalità diverse, anche in Make It Stick. Varie indagini ed esperimenti psicologici dimostrano infatti che le conoscenze che più rimangono impresse nella mente degli studenti sono quelle in cui gli studenti hanno fallito (e a cui poi ovviamente hanno posto rimedio). Il modo migliore, sembrano ad un certo punto suggerire gli autori, per fissare nella mente dei ragazzi un concetto pare essere quello di interrogarli e farli fallire: così quel concetto non se lo dimenticheranno, o faranno quantomeno più fatica a dimenticarselo. I concetti che ci sembra di capire al volo e che ripetiamo facilmente ci scivolano via nel giro di pochi giorni o settimane; quelli che il prof ci chiede in interrogazione e che non ci tornano in mente in quel momento, invece, rimangono più durevolmente fissati nella nostra memoria.
Il fallimento è doloroso, nessuno lo nasconde. Ricordo ancora quanto mi sentii umiliato dopo quel 5½ in filosofia (ed era credo l’ottobre 1996, quindi un po’ di tempo ne è passato); umiliato non dal mio insegnante, che era una persona anzi assai sensibile e gentile, ma da me stesso. Mi vergognavo di cosa avevo fatto, mi vergognavo di una prova così imbarazzante, al di sotto di ogni mia possibilità. In terza avevo avuto un’insegnante che ci chiedeva molto poco, con la quale bastava una preparazione superficiale per ottenere un bel voto; cambiato l’insegnante cambiarono anche le richieste, ma io – uscito volontario al primo turno di interrogazione – non l’avevo tenuto in considerazione e mi ero preparato in fretta, senza approfondire. Quel giorno tornai a casa con l’umore sotto i piedi, veramente depresso e abbattuto, ma quel fallimento mi fece capire che dovevo cambiare modo di studiare filosofia. Da quel momento in poi non ho più fallito un’interrogazione e oggi sono qua, a fare video su YouTube. Se avessi avuto la stessa insegnante della terza e quell’insegnante, nella prima interrogazione della quarta, mi avesse regalato un 8 facile, forse oggi non sarei qui.
Certo, non è sempre così facile superare le proprie difficoltà. Non sempre basta dire: «Adesso cambio metodo». Ma bisogna anche ammettere che ai ragazzi, il più delle volte, non serve chissà quale soluzione, chissà quale sforzo da parte dell’insegnante. Non dobbiamo studiare noi per loro, non dobbiamo caricarceli tutti interi sulle spalle. Spesso può bastare anche molto meno: ad esempio far capire che noi insegnanti non siamo dei giudici inflessibili che non aspettano altro di vederli fallire per poi redarguirli. Che noi insegnanti non siamo lì per umiliarli e godere dei loro fallimenti. Ma, piuttosto, che anche noi insegnanti siamo umani, che anche noi sbagliamo, abbiamo sbagliato e sbaglieremo, che anche noi a volte certe cose non le sappiamo o che ci sentiamo inadeguati. E che però, nonostante tutto questo, siamo lì a provarci e riprovarci.
La chiave dell’insegnamento è tutta lì, in fondo: provare e riprovare. Anzi, meglio: provare, fallire e riprovare. E magari fallire e ri-fallire ogni volta, ma ogni volta in modo un po’ meno catastrofico della volta precedente.
Un concetto che è emerso – e che mi trova perfettamente d’accordo – nella discussione sulla fragilità di sabato scorso è che l’apprendimento, ma in fondo anche ogni approccio umano, ha una base sperimentale. Conoscere è come fare un esperimento: c’è un mondo ignoto, là fuori, e tu vuoi provare a capirci qualcosa, ma non sapendo già le cose a priori devi procedere per prove ed errori.
Cosa succede quando – ed è un esempio molto banale, ma di vita vissuta, visto che mi ci sono misurato ieri – un telecomando improvvisamente non va? Non sapendone molto di elettronica, facciamo delle prove: prima proviamo a cambiare le batterie, perché ci hanno insegnato che quasi sempre quando un aggeggio del genere non funziona è perché ha le pile scariche. Magari questo approccio spesso risolve il problema; ma ogni tanto, anche con le pile nuove, il telecomando continua a non andare. E allora facciamo un altro tentativo: cerchiamo di puntare meglio lo strumento verso il televisore. E poi proviamo a schiacciare qualche tasto speciale. E poi vediamo se per caso non abbiamo impostato il televisore su un qualche strano canale esterno. E poi altre prove, altre prove, altre prove ancora. Detta in parole povere: sperimentiamo diverse strategie di soluzione.
Se vi siete mai trovati in circostanze del genere – fosse per un telecomando, un programma del computer o un problema inedito di matematica – sapete bene che, se la soluzione tarda ad arrivare, essa può essere foriera di stress. Se ci tenevamo tanto a vedere la partita che danno in TV e non riusciamo a mettere il canale giusto, potremmo anche maledire il cielo, il televisore, l’elettronica tutta o la Samsung che ha costruito il vostro megaschermo. Però sappiamo anche che la strategia migliore, in realtà, sarebbe un’altra, cioè dire a se stessi: «Ok, ora calmati e pensa: cosa puoi fare per cercare di risolvere o aggirare il problema?»
Immaginate ora che tutta questa lotta col telecomando non la conduciate da soli, ma che vicino a voi nella stanza, a guardarvi con sguardo cinico, ci sia contemporaneamente un professore o una professoressa. Che magari, mentre armeggiate con le pile senza successo, commenti dicendo: «Eh, mi sa che qua viaggiamo verso l’insufficienza». Questo, probabilmente, vi manderebbe ancora di più nel panico. Se poi commentasse con: «Guarda che i tuoi compagni ci sono riusciti subito», il panico aumenterebbe. E se poi rincarasse la dose con: «È già la terza volta quest’anno che non riesci ad accendere il televisore», potreste anche disperarvi.
Noi però a scuola, a volte, facciamo proprio così. Con la scusa che ci piace essere esaminatori, ci dimentichiamo che a volte anche a noi capitano inghippi del genere, e che invece di mandare ancora più in paranoia il ragazzo ci sarebbe bisogno di farlo calmare. Ci dimentichiamo che anche noi abbiamo avuto brutti voti e telecomandi che non funzionavano, nel nostro passato. Chissà cosa accadrebbe se dicessimo: «Oh, sì, è capitato anche a me qualche volta. All’inizio mi agitavo, poi ho capito che conveniva mettersi a un tavolo e pensare a tutto quello che potevo fare per provare a far funzionare il telecomando». Magari quelle frasi darebbero un po’ più di speranza a quel ragazzo o a quella ragazza.
Certo, può sembrare che questo da solo non basti: in fondo è solo un incoraggiamento e nulla più. Vi sorprenderebbe però sapere – e sorprende ogni volta anche me – quanto siano incredibilmente importanti gli incoraggiamenti. Noi pensiamo di solito che dire a una persona “Dai, ce la puoi fare” sia quasi inutile, una perdita di tempo: che una persona sappia già da sola che ce la può fare, e che non abbia quindi bisogno di un tipo che ricordi l’ovvio. E invece non è così: gli incoraggiamenti fanno la differenza. Immaginatevi per un’ultima volta alle prese col telecomando maledetto: state sudando, il tempo passa e voi non ne potete più e avreste solo voglia di rinunciare. Poi arriva quello che ai vostri occhi è il massimo esperto di telecomandi (perché il professore, agli occhi di un ragazzo, è un grande esperto, sia della sua materia che in generale della scuola) e quest’ultimo vi dice: «Guarda che per me ce la puoi fare, non mollare». Voi cosa fareste? Io almeno altri tre, quattro o cinque tentativi li farei: non mollerei mai davanti a un esperto che mi incoraggia.
Tutto per dire che le fragilità si affrontano ammettendole, capendole, confessandole; ma che vanno affrontate e non nascoste, apprezzate (magari a posteriori, magari dopo averle ben digerite) e non denigrate. La vita non è altro, in fin dei conti, che affrontare le proprie fragilità: se non si parte da lì, non si vive.
Quello che ho registrato e pubblicato
Passiamo ora ai video e ai podcast che ho pubblicato negli ultimi sette giorni, in modo che non vi perdiate nulla.
Il pensiero di Leopardi: il pessimismo cosmico: seconda puntata del mini-percorso dedicato a Giacomo Leopardi
Storia dell’Iran moderno (pre-1979): per capire quello che sta accadendo in queste settimane in Iran, credo si debba fare un piccolo passo indietro
Napoleone III verso l’Impero: dopo essere diventato Presidente della Repubblica, Luigi Napoleone Bonaparte cominciò subito a mirare a qualcosa di più
Una giornata particolare: film e storia: c’è un film di Ettore Scola che è un piccolo capolavoro, utile a capire molte cose della nostra storia non così lontana
L’Autunno del Medioevo - Audiolibro spiegato parte 11: prosegue la lettura integrale del capolavoro di Johan Huizinga dedicato agli ultimi secoli del Medioevo
L’anima e il diritto per Tommaso (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
La vita di Napoleone Bonaparte (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono i nuovi abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri e videocorsi che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Etica di Baruch Spinoza: Spinoza è uno dei filosofi forse più bistrattati durante la vita e contemporaneamente più rivalutati a posteriori. Nel suo tempo, il Seicento, il suo contributo passò quasi inosservato; a partire dall’Ottocento, però, con un paio di secoli di ritardo fu ampiamente riscoperto, tanto che ancora oggi è uno dei filosofi più studiati e approfonditi all’università. L’Etica non è un libro semplice, soprattutto per il modo in cui è scritto, ma è uno dei libri più importanti di tutta la storia della filosofia e prima o poi bisogna farci i conti. La trovate, tra l’altro, ad appena 17 euro, qui.
Strategie TikTok per principianti: lo confesso, non ci capisco molto di TikTok né voglio capirci molto. Probabilmente sbaglio, ma per ora mi pare solo un posto dove si va per fare gli scemi, concedersi un balletto e, a volte, banalizzare anche cose che banali non sarebbero. Ma ormai io sono un vecchio brontolone e le cose dei giovani le capisco solo fino ad un certo punto; se invece voi avete la mente più aperta della mia e volete provare ad imbarcarvi su questo social network con una strategia precisa, vi consiglio questo bel corso di Domestika che, in 14 lezioni al prezzo complessivo di 22,90 euro, vi dà dei suggerimenti importanti per prendere confidenza col mezzo. Il corso, tenuto dalla social media manager Molly McGlew, può essere utile per sfruttare TikTok in modo professionale ma anche per dare un’identità al proprio canale: lo trovate qui.
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né fare corsi, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Cosa c’è in arrivo
Chiudiamo, come sempre, con una panoramica sulla mia scaletta per la prossima settimana, scaletta che potrebbe anche essere rivista – come a volte succede – per cause di forza maggiore:
già domani, martedì, dovrebbe uscire l’ultima puntata del trittico su Leopardi, incentrata sul cosiddetto pessimismo eroico;
poi in settimana arriverà anche un nuovo capitolo dell’Autunno del Medioevo di Huizinga;
ho inoltre in programma un video sulla rivoluzione iraniana e i primi mesi dopo di essa;
infine, vorrei anche realizzare il quarto video della serie di filosofia per ragazzi;
per quanto riguarda invece il versante podcast, concluderemo Tommaso (finalmente) e porteremo un po’ più avanti il discorso su Napoleone.
E questo è tutto. Vi auguro buona settimana e tante buone letture e riflessioni insieme.