La scuola verticale e le circolari sui cellulari, ma parliamo anche di Aldo, Giovanni e Giacomo, Idiocracy, Thomas Hobbes, L'amico ritrovato, Welcome to Wrexham e Thomas Nagel
Ci siamo, gli Esami di Stato sono alle porte per me, per i miei studenti (o almeno per quelli di quinta) e per tanti altri ragazzi e ragazze in giro per l’Italia. Questa mattina si è tenuta la riunione preliminare delle varie commissioni – anche della mia, ovviamente –, mentre nel pomeriggio c’è stata la consueta riunione dei presidenti. Si preannuncia, insomma, il solito tour de force che ci porterà fino ai primi di luglio, con un’afa crescente.
Per la verità, anche la settimana scorsa è stata piuttosto intensa: prima ci sono stati tutti gli scrutini, poi sono partito per Subiaco, non troppo distante da Roma, per la bella presentazione di cui forse avete visto qualcosa sui social, senza contare i bambini da mandare all’animazione estiva, i ragazzi da portare più o meno al mare e altre questioni organizzative. Insomma, è stato difficile ultimamente trovare un momento davvero libero: ma in fondo va bene anche così, in certe fasi.
Per non lasciare senza stimoli neppure voi, iniziamo però la nostra solita newsletter, non senza ricordarvi che anche a luglio ci saranno alcuni appuntamenti dal vivo, almeno qui nel Triveneto: stiamo definendo delle date per parlare di Anche Socrate qualche dubbio ce l’aveva qui a Rovigo, ma anche a Thiene e Grado. Vi terrò informati. Intanto, cominciamo.
Quello che ho letto
E partiamo come al solito dai libri, che questa settimana hanno tagli molto diversi tra loro: dalla narrativa alla filosofia alla storia.
L’amico ritrovato di Fred Uhlman: credo sappiate bene quanto sia corto L’amico ritrovato, il celebre romanzo di Fred Uhlman sul nazismo che non raramente viene fatto leggere a scuola. Corto ma significativo, sia per la trama, sia per il modo in cui è scritto. Come vi ho raccontato, lo lessi per la prima volta quand’ero alle scuole medie e solo in questi giorni l’ho ripreso in mano, sollecitato da alcuni messaggi che mi chiedevano di farne un video; e l’ho ritrovato più bello di come lo ricordassi, forse anche più “ad effetto” di quanto ricordassi. Poi, sapete: quando si prende in mano la fiction legata al nazismo non si sa mai dove finisce il realismo e dove comincia la fantasia: Uhlman visse in Germania durante gli anni dell’ascesa di Hitler, ma non possiamo certo identificarlo con l’Hans protagonista del romanzo, perché lo scrittore era all’epoca un trentenne, e quindi già un uomo maturo, mentre Hans un sedicenne; allo stesso modo, il racconto dei pensieri di Konradin, il co-protagonista, può essere anche considerato forse realistico, ma è comunque inventato, e quindi rimane sempre il dubbio che quella lettura sia in parte romanzesca. Uhlman ci dà, insomma, la sua visione, il suo frammento, la sua impressione, che ci rivela qualcosa di sicuramente vero, ma senza che si riesca davvero a capire quanto sia vero; ed è inevitabile che sia così, se consideriamo anche solo il fatto che il nazismo e la sua ascesa sono ancora oggi uno dei grandi problemi della storia. Prima o dopo, su questo libro (che ormai ho finito), farò anche un video sul canale, ma intanto, se volete, potete acquistarlo qui.
Leviatano di Thomas Hobbes: finito un libro, se ne comincia un altro. E questo è tanto più vero per il Club del Libro, la serie di riunioni mensili che tengo ormai da due anni con gli abbonati più fedeli del canale. Il ritmo di un libro al mese non è certo facile da sostenere: se è vero che a volte i volumi scelti sono piuttosto leggeri e brevi, è anche vero che, in altri casi, gli stessi abbonati finiscono per optare per titoli infiniti, anche se, ovviamente, molto importanti. Questo, temo, pare essere anche il caso dell’ultimo volume scelto, il Leviatano di Thomas Hobbes: libro celeberrimo e fondamentale nell’ambito della filosofia politica, ma all’apparenza anche fin troppo corposo. L’ho iniziato in questi giorni, perché, di fatto, non l’avevo mai letto per intero, anche se fin dai tempi dell’università ne avevo assaggiato diverse parti. E certo, nei primi paragrafi si ritrova l’Hobbes che già conosciamo: un’analisi materialista e meccanicista della condotta umana, che presto si riverserà anche sulla politica. Nonostante il libro risalga a quattro secoli fa, mi piace il modo di procedere del pensatore inglese, e quindi credo che troverò un certo piacere nell’andare avanti con le pagine. Però quello che temo ora è di non riuscire a resistere, in un giugno che si preannuncia molto problematico, anche per via degli esami di Stato. Vedremo. Intanto, se vi interessa, potete acquistarlo qui.
Con la violenza si risolve tutto di Renato Minutolo: è molto più piacevole – e molto più veloce da leggere – invece Con la violenza si risolve tutto, il saggio a metà strada tra il comico e lo storico di Renato Minutolo. Vi avevo già anticipato qualcosa, nelle scorse settimane, riguardo a questo volume, ma in questi giorni sono andato ulteriormente avanti, godendomi il racconto di infinite battaglie, delle crociate – e soprattutto della quarta, quella che vide protagonista Venezia – e di tutta una serie di altre vicissitudini storiche che, in effetti, hanno molto del paradossale. Divertente e accurato, penso che il libro possa piacere benissimo sia a chi è appassionato di storia, sia a chi ha voglia di un po’ di leggerezza. Se volete acquistarlo, potete farlo tramite questo link.
Quello che ho visto
E passiamo ora anche ai film, con due pellicole ormai un po’ datate e una serie tv invece recente.
Idiocracy (2006), di Mike Judge, con Luke Wilson, Maya Rudolph, Terry Crews: quando si vuole parlare della deriva della politica attuale, di capi di Stato e di governo che hanno abbassato pesantemente il livello dei loro programmi politici e dei loro comizi, si cita il più delle volte Idiocracy, film dei primi anni 2000 che, a detta di chi lo menziona spesso, avrebbe precorso i tempi, anticipando le attuali derive populiste. Io questi riferimenti a quel film li ho sentiti fare decine di volte, eppure, in realtà, il film originale non l’avevo mai visto, o almeno non ne avevo minimamente memoria. Così, qualche giorno fa, quando mi sono imbattuto in questo titolo sulle varie piattaforme streaming, ho scelto immediatamente di vederlo, per capire quanto ci fosse di vero in tutti questi riferimenti così spesso richiamati dal grande pubblico. Forse non vi stupirà scoprire che Idiocracy è in effetti un film piuttosto idiota, contrassegnato da una comicità demenziale che, a mio avviso, non sempre colpisce nel segno; ma c’è, in effetti, qualcosa di interessante, pur in una sceneggiatura e in un casting francamente un po’ opinabili: l’idea, cioè, di un futuro distopico in cui si siano riprodotti sempre più spesso gli uomini col più basso quoziente intellettivo, mentre invece gli esseri umani più intelligenti si siano sostanzialmente estinti. Il protagonista della storia, infatti, è una sorta di cavia dell’esercito che, per una serie di circostanze anomale, finisce catapultato in avanti nel tempo, nell’anno 2050, ritrovandosi però davanti agli occhi un mondo completamente cambiato e non, come spesso succede nei film post-apocalittici, per via di un olocausto nucleare o di qualche fenomeno del genere, ma appunto per una sorta di evoluzione al contrario, che ha messo gli Stati Uniti e il mondo intero nelle mani delle persone più stupide della storia. In questo panorama, ovviamente, gli esseri umani sono a rischio estinzione perché non lavorano praticamente più e non sanno come far funzionare le cose. Ma appunto il nostro protagonista avrà il compito di rimediare, anche perché si trova, di fatto, a essere sorprendentemente l’uomo più intelligente del pianeta. Come dicevo, il film voleva essere non dico profetico, ma quantomeno una sagace parodia della situazione del tempo: venne realizzato, infatti, negli anni dell’America di George W. Bush, un presidente che certo non brillava per acume. Le cose su cui riflettere, quindi, non mancano, anche se, come dicevo, il film non sfrutta poi così bene tutti gli spunti e le frecce che avrebbe a disposizione, scadendo in una satira piuttosto scontata e forse inutile. Comunque, se vi interessa, lo trovate su Disney+.
Tre uomini e una gamba (1997), di Aldo, Giovanni e Giacomo e Massimo Venier, con Aldo Baglio, Giovanni Storti, Giacomo Poretti: credo che tutti voi conosciate fin troppo bene Tre uomini e una gamba, il film che lanciò la carriera cinematografica di Aldo, Giovanni e Giacomo e che ancora oggi è venerato come un film di culto. Devo dire la verità: non sono mai stato un patito dei film del trio comico milanese; da ragazzo li apprezzavo a Mai dire gol e, certo, i loro film li ho visti credo più o meno tutti, ma non li ho mai trovati dirompenti come invece li trovavano dirompenti altri della mia generazione. In compenso, però, il mio figlio più grande è un vero appassionato, e proprio in questi giorni ho scoperto che anche il terzo pargolo – che ormai ha appena finito la seconda media – conosceva qualche battuta storica di Aldo, Giovanni e Giacomo, perché l’ha sentita citare a scuola. Insomma, un po’ perché il più grande voleva rivederli e un po’ perché, appunto, il terzo figlio voleva scoprirli davvero, nei giorni scorsi abbiamo guardato Tre uomini e una gamba, film che non vedevo da qualche anno ma che, in effetti, riguardato oggi con occhi più lucidi, è una pellicola più che valida. Anche se le gag, all’epoca, erano in parte già note perché provenivano dal repertorio teatrale dei tre comici, il film gira piuttosto bene: fa ridere senza essere sguaiato, ha una sua trama e una sua logica interna e contiene in effetti alcune chicche che funzionano ancora oggi, a quasi trent’anni di distanza, nonostante si siano sentite in lungo e in largo decine di volte. Insomma, se da giovane lo apprezzavo ma non mi faceva impazzire, adesso, forse, con l’età e con l’animo meno rivoluzionario che mi trovo addosso, l’ho almeno in parte riscoperto. Se volete rivederlo anche voi, lo trovate su Netflix.
Welcome to Wrexham episodi 2.04 e 2.05 (2023), di Rob McElhenney e Ryan Reynolds, con Rob McElhenney, Ryan Reynolds: è da un po’ che non vi parlo di Welcome to Wrexham, la docuserie trasmessa in Italia da Disney+ che segue le vicende della squadra di calcio gallese del Wrexham, acquistata qualche anno fa da due attori hollywoodiani come Ryan Reynolds e Rob McElhenney. Questa settimana ho visto che sulla piattaforma è stata pubblicata anche la quinta stagione, ma, essendo ancora indietro, ho cercato di recuperare almeno altri due episodi della seconda stagione che, tra l’altro, è presente solo in lingua originale. Normalmente, davanti a situazioni di questo tipo, forse desisterei: riesco abbastanza bene a seguire le serie in lingua originale, ma è comunque un’operazione che mi richiede un certo sforzo di attenzione, e per una docuserie che, tra l’altro, non interessa a nessun altro in famiglia oltre a me, forse non ne varrebbe la pena. Però, come vi ho raccontato già altre volte, in realtà Welcome to Wrexham è fatta davvero molto bene, è forse la miglior serie di ambito sportivo che ho visto finora, soprattutto perché, certo, parla di sport, di calcio e di partite, ma dedica ancora maggior tempo a tutto quello che gira attorno al calcio, soffermandosi sulla cittadina di Wrexham, sui singoli tifosi, sulle vite personali di atleti semiprofessionisti. Tanto che, alla fine dei conti, i due divi hollywoodiani, almeno in certi episodi, fungono solo da comparse: per dire, anche nelle puntate che ho visto questa settimana ampio spazio è stato riservato a un dirigente poco appariscente – e forse anche poco telegenico – di cui però abbiamo visto tutta l’umanità, e sul quale abbiamo riso. Perché bisogna anche ammettere che uno dei punti di forza della serie è l’ottimo senso dell’humor, che riesce anche ad alleggerire alcuni momenti più drammatici e intensi. Insomma, merita di essere guardata: la trovate, come detto, su Disney+.
Quello che ho pensato
Avrete forse letto che, un paio di settimane fa, il ministro Valditara è tornato alla carica con la sua idea di scuola. Non mi riferisco tanto alla questione del professore che ha offeso la figlia di Giorgia Meloni, quanto all'annuncio di una nuova circolare – attesa per le prossime settimane – che vieterebbe completamente l'uso dei cellulari nelle scuole superiori, anche a fini didattici.
La motivazione addotta dal ministro è che i cellulari favoriscono la distrazione degli studenti e sono responsabili del calo delle loro performance scolastiche. È una motivazione che, negli ultimi anni, abbiamo sentito ripetere più volte, che contiene degli elementi di verità, ma che a mio avviso viene sempre presentata in modo superficiale. È un discorso che ho già fatto in passato, ma che vale la pena riprendere, perché, a mio avviso, si lega profondamente all’idea di scuola che vogliamo – o dovremmo voler – costruire.
Partiamo dal primo assunto: i cellulari comprometterebbero le capacità cognitive degli studenti. In questo senso, ci sono alcuni studi che sembrano confermare il dato (ad esempio qui). Ma – come sempre accade con studi di questo tipo, leggendoli in maniera un po’ più approfondita – verrebbe da dire: dipende.
Quel risultato – il danno dei cellulari sui giovani – dipende in realtà da vari fattori. In primo luogo, da quanto tempo si trascorre al cellulare; e poi, ancora più seriamente, da cosa si fa col cellulare. Perché, dietro questa parola, “cellulare”, si nascondono attività tra loro molto diverse: giocare ai videogiochi non è la stessa cosa che leggere articoli, guardare TikTok non è come cercare su Wikipedia, scrivere su WhatsApp non è come guardare Netflix.
Si può usare il cellulare, ad esempio, senza utilizzare i social network, e devo dire che il numero di adolescenti che sceglie questo approccio è tutto sommato in aumento, almeno nella mia percezione. Non si iscrivono ai social, o se lo fanno lo fanno senza pubblicare niente; alcuni, li ho visti coi miei occhi, installano anche delle app che permettono di limitare il tempo che si passa su Instagram a pochi minuti al giorno.
Certo, si tratta di minoranze, me ne rendo ben conto; ma queste minoranze fanno un uso del cellulare ben diverso da quello che è al centro degli studi. Forse, dunque, dovremmo puntare l’indice più su determinate app che sul cellulare in sé e per sé, ed è quello che cercano di fare anche studi più completi e articolati (si veda ad esempio qui).
Credo che sia una realtà in cui si possono riconoscere anche molti di voi, da quello che mi scrivete. Immagino che la maggior parte di voi abbia un cellulare e lo usi quotidianamente; ma – se siete abituati a leggere, e se siete qui lo siete di certo – con una certa parsimonia: magari, come me, limitate il tempo sui social a pochi minuti al giorno, evitando accuratamente quelli più “tossici”; forse vi dedicate a YouTube, cercando video intelligenti; probabilmente usate WhatsApp, ma prendendovi anche delle belle pause da esso. Forse avete installato qualche giochino, a cui vi dedicate quando siete in coda alle poste o bloccati in metropolitana.
Capisco bene la possibile obiezione: noi non siamo l’utente medio, e molti di noi non sono neppure adolescenti. Ed è un’obiezione verissima, sensata. Ma non toglie il fatto che il cellulare, di per sé, può essere usato in mille modi, anche fruttuosi e positivi. E continuerà ad essere usato, che lo vogliamo o meno: è un dispositivo che in questi anni si è diffuso enormemente sfruttando norme sociali, marketing ma anche effettivi benefici per l’utenza. Vi ricordate quando dovevamo orientarci con le guide di Tuttocittà? O quando dovevamo cercare una cabina telefonica sperando di trovare in casa la persona desiderata? O quando dovevamo pagare tutto coi contanti? E gli esempi sarebbero innumerevoli.
L’idea di vedere il cellulare come un demonio è, insomma, una semplificazione. Come tutti gli strumenti, il problema sta nell’uso che se ne fa, ben sapendo che – certo – alcune app cercano di sfruttare la pervasività del loro messaggio e della loro struttura per giocare con i nostri desideri e bisogni. Ricordate cosa si diceva quarant’anni fa della televisione, quando arrivarono in Italia le emittenti private coi loro cartoni animati giapponesi? I pedagogisti – a decine, a centinaia – sostenevano che i ragazzi non dovessero guardare quello strumento del demonio, evitando in particolare i cartoni violenti, che ci stavano trasformando tutti in potenziali assassini. Eppure, la mia generazione quei cartoni li guardava anche tre o quattro ore consecutive, e nonostante questo il numero di reati violenti negli ultimi quarant’anni ha continuato costantemente a calare.
Come se non bastasse, oggi ogni classe ha uno schermo gigante installato nella propria aula, e nessuno si scandalizza più, nessun pedagogista si strappa più i capelli. Certo, la televisione è piena di programmi spazzatura, ma nessuno oserebbe pensare che sia colpa del mezzo: la tv offre anche i programmi di Alberto Angela, di Alessandro Barbero, senza dimenticare serie televisive di qualità e altro ancora.
Solo per fare un altro esempio, se uno studente passa cinque ore a guardare i miei video magari ne esce un po’ frastornato, ma anche un po’ più consapevole. Di certo, passare cinque ore in compagnia della storia o della filosofia è molto meglio che ascoltare certi politici in presenza, dal vivo.
E invece il ministro Valditara – e non solo lui, per la verità – vuole vietare l’uso del cellulare in ogni situazione, anche quando potrebbe essere usato con finalità didattiche. Perché, dice, solo così si può restituire centralità al docente. È un argomento, quest’ultimo, che ho sentito ripetere anche da diversi colleghi in giro per l’Italia in queste settimane: «Se togliamo il cellulare, i ragazzi torneranno ad ascoltarci». Ecco, detta brutalmente: a me sembra una pia illusione.
Per parafrasare Marx, il cellulare non è la malattia, semmai è il sintomo della malattia. Se gli studenti ci passano troppo tempo non è solo perché la tecnologia ha “fritto loro il cervello” – anche se, certo, in determinati casi questo può accadere –, ma anche perché noi non siamo riusciti a offrire loro altro, perché non siamo riusciti a offrire loro i mezzi (cognitivi, morali) per sopravvivere a questa sfida. Detta in altri termini: la nostra autorevolezza non l’ha minata il cellulare, è venuta meno ben prima.
Pensare di recuperare autorevolezza con i divieti – che è la linea politica di questo governo – mi pare pericoloso e ingenuo: l’autorevolezza si conquista con le competenze, non con le imposizioni. E c’è da chiedersi: abbiamo mai aiutato i ragazzi a sviluppare le competenze per gestire lo smartphone? Qualcuno ha mai insegnato loro come funzionano le app? Come funzionano gli algoritmi? Quali meccanismi sfruttano? Ovviamente no: il cellulare hanno imparato a usarlo da soli, e come sempre accade in questi casi sono andati avanti per prove ed errori, incappando in molti sbagli.
A scuola insegniamo a scrivere un po’ alla volta: prima i bambini imparano l’alfabeto, poi le parole, poi le frasi; leggono racconti, poesie, miti, e un po’ alla volta, gradatamente, si avventurano nella stesura di testi. Ma li accompagniamo man mano, proponendo loro sfide via via più complesse e cercando di aiutarli a fare ogni volta quel passettino in più. E tenete conto che insegniamo loro a scrivere quando, quasi sicuramente, l’80% di loro, finita l’università, non dovrà più scrivere un testo in vita sua.
E però non facciamo lo stesso coi cellulari. Nonostante il 99% di loro, una volta finita la scuola, userà il cellulare per lavorare e per vivere, nessuno li accompagna nella scoperta di questo strumento. «Dovrebbe pensarci la famiglia», direbbero molti miei colleghi, e forse avrebbero ragione; ma – come nel caso della scrittura – la famiglia non ha sempre le competenze pedagogiche per farlo, e il compito della scuola è sopperire a quello che la famiglia non riesce a fare (perché altrimenti basterebbe ascoltare la mamma e il papà, e non servirebbe frequentare le aule scolastiche). Si tratta di corresponsabilità: la famiglia, la scuola e persino i produttori di app condividono il peso della sfida, e da parte nostra non ci possiamo tirare indietro.
La verità è che noi abbiamo abbandonato intere generazioni a una tecnologia che non conoscevano, e ora diciamo loro: «Non siete stati capaci di contenervi, quindi ve la proibiamo». Fossi un adolescente, risponderei: «Ma guarda che la colpa, caro adulto, è solo tua. Sei tu che ci hai lasciati da soli, e adesso te ne vuoi lavare ulteriormente le mani rendendo il cellulare una mia colpa. E con quale scopo, poi? Migliorarci la vita o semplicemente poter fare lezione più tranquillamente, catturando la nostra attenzione solo per pura mancanza di alternative?»
Il ministro dice: così si ridarà centralità al docente. E verrebbe però da chiedersi: a quale docente? A un docente al passo coi tempi o a una mera figura del passato? Come dicevo, la motivazione più recondita che molti colleghi (e il ministro stesso) tirano spesso in ballo è questa: i ragazzi non ascoltano più perché sono sempre distratti dal cellulare, e toglierlo li aiuterà a stare più attenti.
Certo, è possibile: il cellulare distrae. Ma non facciamone un alibi troppo forte: perché pensate davvero che prima degli smartphone i ragazzi prestassero sempre attenzione al loro prof? Che sotto il loro libro di testo non avessero fumetti, giornali, vignette satiriche sugli stessi docenti, perfino fogli di battaglia navale o altro ancora? E pensate che, tolto il cellulare, di colpo torneranno a pendere dalle labbra del docente, come settant’anni fa?
Perché a me pare che il vero problema non sia il cellulare: quello – con tutti i problemi che può avere – è in realtà il capro espiatorio, lo strumento su cui noi insegnanti stiamo riversando il malcontento e le speranze. Il vero problema è che, di per sé, non ci ascoltano più, se non siamo in grado di farci ascoltare.
Il ministro ci dice: un buon modo per affrontare il problema è togliere le distrazioni e far sì che gli occhi dei ragazzi si concentrino sul docente. “Restituire centralità al docente” vuol dire esattamente questo, nient’altro. Il docente che starà in cattedra per sessanta minuti, con gli studenti zitti e immobili ad ascoltare, perché è questo che sotto sotto si vuole.
A quel modello, vecchio già quando andavo a scuola io, non si potrà tornare: è per questo che parlo di una pia illusione. È un modello che ha fatto il suo tempo, che non può più funzionare in un mondo in così rapido cambiamento, ma verso cui molti provano nostalgia. È il modello di una scuola verticale, in cui c’è chi sta in alto e chi sta in basso, in cui l’allievo obbedisce, tace, riceve. «Come posso passarti il mio sapere, se tu non mi ascolti?», sembra dire il docente che crede in questo tipo di scuola.
Purtroppo, pochi si accorgono che quella scuola è morta. Che non c’è più alcun sapere da passare, da trasmettere. Basta un computer (o un cellulare, appunto) per avere in palmo di mano molto più sapere di quanto un docente potrà mai darti. Chiudersi in un mondo privo di cellulari vuol dire voler giocare un campionato fasullo e autoappagante; vuol dire darsi un tono e un ruolo in un mondo che non ha più bisogno di quel tono e di quel ruolo.
Eppure, di insegnanti ci sarebbe ancora molto bisogno. Certo, di insegnanti diversi da quelli di un tempo. L’insegnante non è più – da parecchio tempo – un’autorità da venerare, ma dovrebbe ormai diventare una guida, uno che lavora sul campo coi ragazzi. La centralità non sta nell’avere tutti gli occhi puntati addosso, ma nel guidare gli occhi dei ragazzi su ciò che più conta; non può più essere il docente il protagonista della classe, ma dovrebbe esserlo il ragazzo (come d’altronde sarebbe giusto che fosse, in una scuola anche solo vagamente democratica).
Mentre noi insegnanti rimpiangiamo i bei tempi che furono e ci lamentiamo delle famiglie e degli studenti che non ci capiscono, il nostro ruolo diventa inutile e sostituibile, forse perfino dannoso. Perché di uno che riversa sapere non c’è proprio bisogno; mentre di uno che aiuta a capire il mondo ci sarà sempre bisogno. L’insegnante dev’essere qualcuno che accompagna, che stimola, che ascolta; non un dispensatore di verità, ma un facilitatore di pensiero.
Perché, attenzione: il professore che impone divieti e sancisce punizioni è un “professore-vigile urbano”, che a mio avviso ha fatto ampiamente il suo tempo. Per superare il meccanismo divieto-violazione-punizione, o quantomeno per affiancarlo a meccanismi più maturi, bisogna che l’insegnante impari ad essere accompagnatore e non (solo) giudice.
Non sto dicendo nulla di nuovo, per la verità. Lo dicevano già John Dewey e Alfred Adler alla fine dell’Ottocento, lo dicono sociologi e linguisti come Howard Rheingold e Donna Alvermann, lo hanno detto praticamente tutti i pedagogisti degli ultimi trent’anni. Eppure siamo ancora qui, a discutere le stesse cose, come se il tempo non fosse passato, solo perché non sappiamo rinnovarci e, davanti a problemi enormi, cerchiamo la via più facile.
La scuola deve formare persone capaci di camminare da sole, non ragazzi che dipendono anche a 19 anni dalle parole del docente. Alle superiori, uno studente deve imparare a gestire l’informazione, a valutare, a ragionare, ad avere spazi di autonomia; non a vedersi proibiti i rischi anche più blandi perché non ci si fida di lui. Uno studente che a 19 anni ha bisogno di sentirsi dire cosa è vero e cosa no è un problema.
Per concludere: non sto esaltando il cellulare, tutt’altro. So quanto possa essere pericoloso se usato male, e so anche che spesso viene proprio usato male. Esistono molte situazioni (e molte età) in cui l’uso dei dispositivi è nocivo e richiede regolamentazione. Ma il punto è: regolamentare come? E con quale scopo educativo? Proprio perché è uno strumento che i ragazzi usano tanto – e che può essere dannoso – la scuola dovrebbe servire a educarli a usarlo meglio. È vero, non tutti gli studenti sono pronti per un uso maturo del cellulare, ma proprio per questo la scuola dovrebbe accettare la sfida, gradatamente, al tempo debito, e non vietare a prescindere. Il divieto crea solo un vuoto formativo.
Chiudo con un breve articolo di Aldo Grasso comparso qualche giorno fa sul Corriere della Sera, e subito criticato da molti miei colleghi. Secondo me, invece, coglie bene il punto. Si intitola “C’è una nuova grammatica da studiare”:
È molto insidiosa la decisione del ministro Valditara di bandire i cellulari dalle scuole superiori affidando alle ore di educazione civica l’insegnamento dell’uso consapevole degli strumenti digitali.
In questi anni, abbiamo vissuto la più grande rivoluzione tecnologica e antropologica che l’umanità abbia mai conosciuto.
Ogni volta che gli apparati della comunicazione cambiano, cambia la società. E cambia a ritmo tanto più sostenuto quanto più rapido è l’evolvere dei sistemi comunicativi. Fino all’avvento di internet, la comunicazione (stampa, radio, tv) era vissuta come un graduale accrescimento di sapere, come qualcosa che univa nella condivisone.
La comunicazione digitale non è più a misura d’uomo, sprigiona una potenza tale che ci sovrasta, siamo prigionieri degli algoritmi che informano, intercettano, manipolano a nostra insaputa. All’aumento incontrollato della comunicazione decresce la comprensione reciproca: per paradosso, la connessione globale divide, spalanca le porte al lato oscuro della rete.
Se c’è una materia principale che la scuola deve fare propria è l’uso cosciente del digitale: la didattica dovrebbe guardare avanti, imparare le poesie a memoria non risolve il problema e non basta mettere in castigo il mutamento tecnologico quando c’è una nuova grammatica da studiare. Non si vieta ciò che va compreso.
Certo, tutto questo è vero solo se si vuole che la scuola serva a formare cittadini che sappiano muoversi nel mondo. Se serve invece a resistere, se vuole solo diventare un baluardo piegato su se stesso in cui si sta bene e si chiude il mondo fuori dalla porta, è un altro discorso. E allora dobbiamo chiederci: a cosa serve la scuola, a cosa serve la cultura? A renderci liberi e maturi, o a consolarci? Io opto risolutamente per la prima ipotesi, ma so che molti propendono per la seconda.
Quello che ho registrato e pubblicato
Facciamo anche il punto sui video e sui podcast che sono usciti nei giorni scorsi:
Tutto Bergson in 30 minuti: un video richiesto da molti ragazzi che stanno preparando gli esami e ripassando tutto il programma
I dazi doganali: Trump contro gli economisti: la seconda parte del piccolo percorso sui dazi doganali e su come funzionano
Atene: origini e prime istituzioni: continua anche il nostro percorso di storia greca, presentando le origini di Atene
La musica e l'arte per Rousseau (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
La Guerra del Vietnam e la Primavera di Praga (per il podcast “Dentro alla storia”)
La Cina di Mao Zedong (per il podcast “Dentro alla storia”)
Tocqueville scrive a Donald Trump [Email dall'Oltretomba]
Talleyrand scrive agli iraniani [Email dall'Oltretomba]
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
Il canale YouTube | Instagram | Facebook | Twitter/X | TikTok | Threads
Quello che puoi fare per sostenere il progetto
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i consigli della settimana.
Cosa si prova a essere un pipistrello di Thomas Nagel: ci sono stati pochi saggi, negli ultimi cinquanta o sessant’anni, influenti nel campo della filosofia quanto Cosa si prova a essere un pipistrello di Nagel. Uscito nel 1974, mise in crisi ogni riduzionismo fisico della mente, aprendo la strada a un nuovo modo di intendere la coscienza, l’identità personale e i limiti dell’oggettività scientifica nel campo della filosofia della mente. Si può acquistare qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
C’è poi un ulteriore modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ce n’è uno chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate, passando anche per il Club del Libro e il Simposio. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
È inoltre da poco ufficiale la notizia di un mio nuovo libro. Solo che questa volta io, più che scrivere, ho registrato. DeA Scuola e Garzanti Scuola stanno infatti per far uscire un nuovo manuale di storia per le superiori intitolato La storia in scena, scritto da Giuseppe Patisso, Daniela De Lorentiis e Fausto Ermete Carbone, a cui ho collaborato anch’io per una cospicua parte video. Al grande progetto lavoriamo da molti mesi, ma ormai siamo in dirittura d’arrivo e, se siete docenti, potrete adottarlo se vorrete già dal prossimo anno scolastico. Tra l’altro, oltre a me ci ha messo le mani anche Aldo Cazzullo, ma non mancano anche gli storici di fama internazionale. Io in particolare ho realizzato decine di videoreel che introducono tutti i capitoli dell’opera, e in più ho preparato un ciclo di venti videolezioni specifiche (e inedite) sulla storia delle donne dal Medioevo ai giorni nostri. Ecco intanto la copertina del primo volume, ma nelle prossime settimane vi mostrerò anche altri dettagli:
Ultima cosa da ricordare: in tutte le librerie è presente il mio nuovo libro, Anche Socrate qualche dubbio ce l’aveva. Il sottotitolo rende piuttosto chiaro di cosa si occupa: Come lo scetticismo filosofico può salvarti la vita nell’epoca della performance. In pratica riprendiamo il pensiero di alcuni grandi filosofia (Socrate, Occam, Montaigne, Hume, Popper e altri ancora) e cerchiamo di trarne degli insegnamenti per vivere meglio oggi, in un mondo in grande cambiamento; e cerchiamo di farlo tramite uno stile non difficile ma stimolante. Il libro è disponibile sia in formato cartaceo che ebook. Ecco qualche link per l’acquisto:
Quello che c’è in arrivo
E chiudiamo, come al solito, anche con qualche anticipazione su quello che dovrei riuscire a proporvi nei prossimi giorni:
domani, martedì, arriverà una nuova puntata della lettura integrale e commentata di Cuore di cane di Michail Bulgakov;
mercoledì vorrei riuscire a fare il classico video annuale in cui commento le tracce della prima prova dell’Esame di Stato, sempre che torni a casa dalla giornata di sorveglianza abbastanza in forze per registrarlo;
giovedì e venerdì torneranno poi i podcast, con l’inizio di Kant e l’introduzione alla decolonizzazione;
sabato probabilmente pubblicherò il video su Stuart Mill realizzato per LibSophia;
tra domenica e lunedì potrebbero poi arrivare la riunione del Simposio filosofico mensile (anche se dobbiamo ancora fissarla in maniera definitiva) e un video lungo su Henry David Thoreau.
E questo è tutto anche per questa settimana. In bocca al lupo ai maturandi, buon riposo a chi è già in ferie e appuntamento, come sempre, qui tra sette giorni esatti.
È appena uscito un libro interessante sull’argomento: “Oltre la tecnofobia - Il digitale dalle neuroscienze all’educazione” di Gallese - Morigi - Rivoltella
Per carita' prof , la filosofia ci spinge sempre a relativizzare , pero' a me quello sembra una conclusione sicura dopo aver visto il servizio "Drogati di smartphone" a Presadiretta 15/10/2018.
Diciamo che incolpare lo smartphone e' una metafora , un modo di indicare la tendenza?
Bella la replica immaginaria dello studente , ma sinceramente prof , io sarei infastidito mentre sto facendo lezione , nell essere interrotto da uno squillo del telefono o vedendo gli studenti che guardano i loro smartphone , immaginando che si distraggono . Vogliamo riflettere sul calo della concentrazione che provoca essere collegati allo smartphone ? Questo , poi porta al fenomeno del "Rot Brain" , scelta coem parola dell anno dall Universita' di Oxford per il 2025.
Lei non prova fastidio vedendo gli studenti distratti , senza concentrazione?
" Basta un computer (o un cellulare, appunto) per avere in palmo di mano molto più sapere di quanto un docente potrà mai darti" . Ma il problema sta qui : che le notizie che girano in rete sono di ogni tipo e il ragazzo non possiede le capacita' critiche di discernere le fonti valide dalle fake news . Con la conseguenza che credendo alle fake news si creano i futuri elettori del populismo . Concludo con un invito ; dato che lei crede , come ha scritto
"Proprio perché è uno strumento che i ragazzi usano tanto – e che può essere dannoso – la scuola dovrebbe servire a educarli a usarlo meglio." l unica cosa che le resta da fare e' far vedere ai suoi allievi come usare bene i loro smartphone . Vuole iniziare a farlo durante l ora di lezione
e venirci a raccontare com e' andata da qui a un anno ? Prevedo che sarebbe un esperienz a molto frustante e senza progressi .