Oppenheimer, ovvero la difficoltà della scelta, parlando comunque anche di Scappa - Get Out, del Leviatano di Hobbes, del don Chisciotte di DuFer, dell'impegno della Dweck e di Fatti di gente perbene
Il gran caldo è finito, finalmente? A giudicare dal meteo di oggi, almeno qui a Rovigo, parrebbe di sì; ma sono state settimane davvero intense, le scorse, in cui si faceva fatica a far tutto. Alcuni video li ho registrati sudando copiosamente, nonostante il condizionatore, e devo dire che non è stato facilissimo, quasi un tour de force.
Per non parlarvi delle giornate passate a scuola in questo finale d’agosto: sarà che l’edilizia scolastica non è stata pensata per i caldi estivi (e anzi lascia spesso molto a desiderare), ma con queste temperature è davvero impensabile fare scuola d’estate, come a volte si propone.
Quello della durata delle vacanze estive sarebbe un tema molto importante, e io sono dell’avviso – come praticamente tutti gli studi al riguardo sembrano indicare – che tre mesi continuativi di vacanza non facciano troppo bene agli studenti, e che sarebbe meglio invece sparpagliare di più le vacanze durante l’anno, con magari un paio di mesi di pausa estiva, ma anche settimane di pausa sparse qua e là in autunno e in primavera. Ma in luglio e in agosto, con queste temperature e senza condizionatori, non è proprio possibile riuscire a fare alcunché. Guardavo le statistiche relative al tasso di umidità dell’aria qui a Rovigo: a luglio ed agosto abbiamo rispettivamente 14,7 e 14,3 giorni in cui il livello è catalogato come “afoso”, ma all’interno di quelle giornate ci sono anche picchi definiti “intollerabili”. Detta in termini più umani: non è tanto il caldo in sé, è che proprio manca l’aria. Durante gli esami di recupero e gli scrutini facevo fatica a stare concentrato io, figuratevi un ragazzino.
Di nuovo, il problema della scuola è la realtà: da un lato c’è quello che più o meno sappiamo sarebbe giusto e utile fare; e dall’altro ci sono i problemi strutturali di una scuola che è stata fin da subito pensata male, o pensata per un mondo diverso, e che avrebbe bisogno di fondi ingenti per rinnovarsi, perfino a partire dai suoi muri. Fondi che non ci sono e che di fatto non ci saranno mai, visto anche il calo demografico (che di sicuro non porta ad investimenti) e il fatto che i governi hanno sicuramente più voglia di investire nelle pensioni – che portano più voti – che nella scuola. E quindi tutto quello che arriva per l’istruzioni sono al massimo cerotti, non cure.
Ma non deprimiamoci troppo e torniamo a noi. Questa settimana sono usciti video e podcast, ho letto libri e visto film e insomma c’è come sempre molto da dire. Cominciamo.
Quello che ho letto
Partiamo come al solito dai libri. Due li ho conclusi proprio questa settimana ed è quindi giunto il momento di salutarli, anche se il primo della lista è quello non ancora terminato.
Mindset di Carol Dweck: innanzitutto, ho portato abbastanza avanti la lettura di questo saggio della celebre psicologa americana e docente universitaria Carol Dweck. Ve ne avevo già parlato: le idee proposte nel saggio, frutto di diversi esperimenti di psicologia sociale, sono intriganti e interessanti, però devo anche dire che il libro non mi sta convincendo del tutto. In sunto, il concetto è semplice: tramite diversi esperimenti la Dweck e i suoi collaboratori si sono accorti che i bambini che ricevono troppi complimenti per il loro talento tendono a rendere meno, in prospettiva, dei bambini che vengono elogiati per il loro impegno. La conclusione è che quello che conta è soprattutto la mentalità, il mindset appunto: chi capisce che si può migliorare costantemente in qualsiasi campo (a scuola, nello sport, nelle relazioni sociali), ci mette l’anima per farlo e tende a fare costantemente passi in avanti, indipendentemente da quale sia il livello di partenza; chi invece pensa che le capacità siano qualcosa di fisso e immutabile, dei talenti di natura, tende a rendere meno e ad avere una serie maggiore di problemi (tra cui ansie, difficoltà a gestire la sconfitta, scarsa assunzione di responsabilità), non solo a scuola. Ecco, questa è l’idea e sarebbe interessante approfondirla; ma, almeno dal mio punto di vista, in modo scientifico o comunque culturale. Invece il libro della Dweck prende questo spunto e lo declina come farebbe un qualsiasi libro di auto-aiuto, insistendo su una serie di storie (di imprenditori, di atleti e così via) che alla lunga diventano ripetitive e che servono solo a ribadire e farti entrare in testa il concetto, con l’obiettivo di “farti cambiare vita”. Per carità, a me piace quando le idee trovano anche declinazione concreta; ma qui la concretezza travalica (e di molto) le idee. Insomma, quello che non mi convince finora è lo stile dell’operazione; ma sono solo a metà del volume. Vedremo andando avanti. Intanto, se volete, lo potete acquistare qui.
La parola a don Chisciotte di Rick DuFer: con una certa velocità – ma bisogna ammettere che il libro era piuttosto corto – questa settimana ho finito La parola a don Chisciotte di Rick DuFer, di cui vi avevo cominciato a parlare appena un paio di settimane fa. Si tratta di un saggio in cui il noto youtuber intervista una serie di personaggi letterari (da Voldemort a don Chisciotte, da Dracula al pianeta Solaris) cercando di trarre da queste conversazioni qualche elemento filosofico. Che dire? Penso che il libro abbia pregi e difetti. Da un lato, la sua forza principale sta nel fatto che qua e là emergono delle idee interessanti, presentate in un modo facilmente accessibile: è come se DuFer prendesse una parte della riflessione di specialisti (politologi, linguisti, filosofi) e riuscisse a declinarla per i profani, permettendo così a molti di accostarsi a temi di grande importanza e attualmente molto dibattuti nell'ambito culturale. Dall'altro lato, però, questo pregio è anche forse il suo limite: se quei temi già più o meno li conoscete, il libro rischia di diventare in varie parti banale, perché non aggiunge di fatto nulla o quasi a quello che già hanno detto altri. Si dirà: il senso di una serie di interviste immaginarie è forse proprio questo, cioè quello di presentare il pensiero altrui, e questo è ovviamente vero. Però anche l'escamotage dell'intervista fittizia mi pare un po' tirato e forzato, tanto è vero che gli “ospiti” parlano davvero pochissimo, fanno giusto un paio di battute per permettere all'autore di dilungarsi nelle sue riflessioni personali. Sicuramente un libro del genere ha il suo pubblico, e potrà risultare molto utile a chi cerca un po' di sano infotainment, come si dice oggi; il suo limite è però che, toccando tante questioni e citando tante fonti (forse pure troppe), rischia di non approfondirne nessuna. Se vi interessa, lo potete acquistare qui.
Come imparare qualsiasi lingua di Gabriel Wyner: questa settimana ho terminato la lettura anche di questo saggio di cui vi ho dato conto per la prima volta pochi giorni fa. Si tratta infatti di un manuale molto agile, forse perfino troppo, che cerca di ispirare allo studio di una lingua e soprattutto di fornire un metodo efficace per raggiungere l’obiettivo. In realtà, al di là dei proclami e degli slogan, l'idea di fondo è sostanzialmente una, arricchita poi di tante altre piccole strategie che però non costituiscono affatto una novità e si possono trovare credo in qualsiasi libro del genere: l’idea è quella di sfruttare le opportunità offerte da nuove app di memorizzazione, in particolare da quelle di ripetizione spaziale come Anki, per cementare nella memoria la lingua che si sta imparando. Da questo punto di vista il libro offre anche qualche suggerimento utile per creare delle flashcard adeguate, che possano permetterci di lavorare su diverse dimensioni. Il guaio è che, al di là di questo, non c’è molto altro, se non tanti discorsi abbastanza banali o ripetitivi. Per farla breve, tutto il messaggio poteva essere tranquillamente condensato in 5 o 10 pagine, in un articolo su un blog online; e l’esito sarebbe stato più o meno lo stesso. Da quello che vedo, il volume pare avere avuto un ottimo successo negli Stati Uniti e il suo autore ha anche lanciato un'azienda specializzata nella formazione linguistica, ma in Italia il successo è stato molto più limitato, tant'è vero che il volume è già fuori commercio e non mi pare abbiano voglia di ristamparlo. Comunque, se vi interessa potete provare appunto a leggerlo inglese, magari cercando di non spendere troppi euro grazie all’opzione ebook. Lo potete trovare qui.
Quello che ho visto
E passiamo ora anche ai film.
Scappa - Get Out (2017), di Jordan Peele, con Daniel Kaluuya, Allison Williams, Bradley Whitford: non sono un patito del genere horror. Il che non vuol dire che non lo sappia apprezzare: diciamo piuttosto che valuto un film sulla sua capacità di colpire nel segno, indipendentemente dal fatto che appartenga o meno ad un determinato genere o che ne rispetti gli stilemi. Quindi un horror, per colpirmi, deve avere qualcosa in più rispetto alla media: non basta cioè infilare dentro alla trama un serial killer pazzo e qualche scena splatter per creare, a mio avviso, qualcosa di destinato a durare. Mia figlia, invece, è in una fase in cui apprezza più o meno qualsiasi cosa faccia un po’ paura, e ogni tanto mi costringe a guardare assieme a lei dei film che altrimenti avrei placidamente evitato. Devo dire che però stavolta è riuscita a stupirmi in positivo. Di Scappa - Get Out avevo sentito ovviamente parlare, se non altro perché qualche anno fa riuscì un po’ a sorpresa a conquistarsi alcune nomination agli Oscar. Non l’avevo però mai visto, semplicemente perché per un motivo o per l’altro non ce n’era stata occasione. Qualche sera fa però la giovane tredicenne è riuscita a cogliermi alla sprovvista e l’ha sottoposto a me e a suo fratello maggiore, tra l’altro riuscendo – cosa per lei rara – a non farci nessuno spoiler mentre lo guardavamo (anzi, lo spoiler l’ho involontariamente fatto io: ad un certo punto ho detto a voce alta «Ma non è che quei tizi…» e ci ho azzeccato). Proprio in onore di questo raro evento non vi racconterò quasi nulla della trama; vi dirò solo questo: si tratta sì di un horror, ma le scene raccapriccianti sono poche, quasi nessuna, e la tensione è giocata maggiormente sull’aspetto psicologico; inoltre, dietro alla classica storia di paura c’è una metafora nemmeno troppo velata della condizione degli afroamericani negli Stati Uniti. Insomma, un horror convincente e più intelligente della media; non un capolavoro, non un film in grado di cambiare il genere, ma almeno un prodotto originale e anche – vi sorprenderà – abbastanza divertente. Lo trovate su Amazon Prime Video.
Oppenheimer (2023), di Christopher Nolan, con Cillian Murphy, Emily Blunt, Robert Downey jr.: come ho scritto sui social venerdì sera e come ormai dovreste sapere se avete visto l'apposito video che ho realizzato in gran fretta, questa settimana ho visto Oppenheimer di Christopher Nolan, il film più atteso dell'estate assieme a Barbie. Com'era facilmente prevedibile, la pellicola però è molto diversa da quella di Greta Gerwig, ma devo dire che almeno in parte è diversa anche dai precedenti film di Nolan. Il regista britannico, infatti, ci ha abituato spesso a storie in cui in un certo senso saltano le normali convenzioni spazio-temporali: Memento è un film tutto giocato sulla mancanza di memoria; The Prestige sull’illusione ottica continua; Inception sui diversi piani del mondo dei sogni; Interstellar sullo scorrere relativo del tempo, e via discorrendo. Conoscendo gli eventi storici che fanno da contesto ad Oppenheimer, che hanno molto a che fare ovviamente con la fisica e con il sovvertimento dell’apparente stato di cose del mondo, mi aspettavo quindi un film in cui ci fosse tanta fisica, parecchia relatività e soprattutto molta meccanica quantistica. Non è stato proprio così: nel senso che tutti questi elementi vengono citati e a tratti anche ben spiegati, ma sono sicuramente secondari rispetto all'aspetto più propriamente etico e direi forse anche politico della vicenda di Robert Oppenheimer. Me ne sono reso conto all’uscita del cinema quando ho incrociato un mio ex studente che ha appena fatto l’Esame di maturità, intento ad entrare nel cinema: dopo avergli chiesto che film andava a vedere ed essermi congratulato per la buona scelta, gli ho urlato da lontano: «Vedi di capire tutto!». E in effetti dai miei studenti mi aspetto che abbiano capito davvero tutto, perché quest’anno tra filosofia e storia abbiamo parlato di meccanica quantistica, di relatività, di Heisenberg, di Einstein, di Gödel, di Bohr, di mccartismo, di Truman, di Guerra fredda, di bomba atomica e di bomba H, di etica della scienza e di mille altre cose ancora. Mentre mangiavo la mia piadina assieme a mia moglie, fuori dal cinema, pensavo proprio a questo: da un certo punto di vista quest’opera è una sorta di riassunto di metà del programma che ho fatto in quinta. E senza presentare grossi sconvolgimenti spazio-temporali, se non per alcune paranoie dello stesso Oppenheimer. Piuttosto, il film punta di più sul lato umano della vicenda, mostrandoci un uomo effettivamente complesso e contraddittorio come fu il direttore del Progetto Manhattan: un uomo che si trovò, anche per amore della scienza e della scoperta, invischiato in qualcosa di più grande di lui; che fece pace con la sua coscienza raccontandosi che la bomba che stava costruendo sarebbe stata l'ultima bomba della storia prima di una pace perpetua; e che, quando si rese conto che il suo sogno era in realtà irrealizzabile, cercò più o meno consapevolmente il martirio, sperando così di non essere associato per sempre all’ordigno più distruttivo della storia. Il bello è che davanti a tutte queste contraddizioni – che sono obiettivamente complesse e con cui nessuno di noi saprebbe fare facilmente i conti – il film riesce comunque a barcamenarsi bene, con equità, senza semplificazioni: cosa avremmo fatto noi sapendo che i nazisti stavano lavorando alla stessa bomba? Cosa avremmo fatto noi, quando ci avessero indotti ad usarla contro i giapponesi? Cosa avremmo fatto noi nel dopoguerra, davanti alla prospettiva di una bomba H? Insomma, quesiti a cui solo gli imbecilli possono rispondere in maniera facile; e infatti i politici nel film fanno giustamente la parte degli imbecilli, ben riassunti dalla battuta di Truman dopo il colloquio con Oppenheimer, battuta che pare tra l'altro Truman abbia pronunciato davvero. Insomma un film che è sì di Nolan, ma non è certo il più personale dei film di Nolan, e che però rimane un film straordinario, da proporre a tutti gli studenti di quinta superiore e non solo. Tra l'altro vi racconto anche questo: il mio figlio più grande è andato a vederlo il giorno dell'uscita, prima ancora che lo vedessi io, e me ne ha parlato entusiasticamente, lui che in realtà si lascia entusiasmare di solito piuttosto poco dai film. Segno che anche una pellicola così complessa e difficile può colpire davvero nel segno. La trovate sicuramente ancora al cinema.
Fatti di gente perbene (1974), di Mario Bolognini, con Giancarlo Giannini, Catherine Deneuve, Fernando Rey: la settimana scorsa vi ho parlato di Sedotta e abbandonata, mentre poco tempo prima vi ho presentato Il delitto Matteotti, due film entrambi un po’ datati, entrambi italiani ed entrambi raramente trasmessi dalla TV tradizionale. Per fortuna, ormai è diventato però relativamente facile recuperare pellicole del genere tramite i servizi in streaming. Così, preso dalla voglia di recuperare alcuni film storici e poco visti, ho cercato di esplorare meglio il catalogo dei vari servizi a cui sono abbonato, pescando su Amazon Prime Video Fatti di gente perbene, pellicola del 1974 diretta da Mauro Bolognini ed interpretata da un giovane Giancarlo Giannini e da una altera Catherine Deneuve. Onestamente non l'avevo mai visto, anche se a suo tempo ebbe un discreto successo; ma devo dire che il fattore più importante per farmelo recuperare è stato il fatto che fosse ispirato ad una storia vera avvenuta nell'Italia giolittiana. La trama è piuttosto semplice: a causa del matrimonio infelice tra Linda Murri, intelligente figlia di un prestigioso medico laico, e Francesco Bonmartini, un marito bigotto e violento, Tullio Murri, appunto interpretato da Giannini, uccide il cognato, venendo però poi rapidamente scoperto e subendo un processo che si conclude con la condanna anche piuttosto pesante di tutti gli imputati, perfino di presunti complici che in realtà erano abbastanza estranei alla vicenda. La storia, come detto, è tratta da un vero fatto di cronaca: nella Bologna del 1902 scoppiò infatti un grosso scandalo quando venne ucciso Bonmartini, genero di quello che era considerato il più grande medico dell'Italia dell'epoca, Agostino Murri. Murri padre, già deputato radicale, era non solo un luminare e professore universitario, ma anche un acceso anticlericale, e quegli stessi sentimenti erano condivisi da suo figlio Tullio, consigliere comunale nelle fila dei socialisti. Il processo contro Tullio – che era effettivamente l'omicida, reo confesso – divenne quindi anche un caso politico, perché i giornali clericali e la borghesia agraria (il marito di Linda era tra l'altro un nobile e possidente padovano) sfruttarono l'occasione per fare campagna contro i socialisti, presentandoli come dei senza Dio che si davano alla promiscuità sessuale (Linda aveva un amante) e all'omicidio. Il film, per la verità, è piuttosto asciutto e presenta i fatti in maniera quasi fredda, tanto che non si riesce ad empatizzare con nessuno, né con la vittima, che probabilmente era in effetti un uomo veramente odioso, né con l'imputato, incapace di tenere a freno i propri istinti, né ancora con la vedova, troppo debole e contraddittoria. Sembrano tutti in un certo senso colpevoli, incapaci di gestire una faccenda che viene ingigantita da una certa morbosità dei personaggi. In ogni caso, al di là della trama vera e propria, il film offre un bello spaccato della Bologna del 1902, oltre che dei suoi contrasti politici. Può valere un po’ del vostro tempo. Lo trovate su Amazon Prime Video.
Quello che ho pensato
Sì, l’avete già capito perché l’ho detto in tutte le salse: ho visto Oppenheimer, l’ultimo film di Christopher Nolan che, insieme a Barbie, è stato l’evento dell’estate cinematografica. E ne ho parlato in lungo e in largo: sui social (qui), in un video apposito (qui), eccetera. Direte: avrà detto tutto quello che aveva da dire. E invece no.
Scusatemi, ma vorrei infatti ripartire da questo film per affrontare però un discorso un po’ più ampio, che esula anche dalla vicenda umana e storica di J. Robert Oppenheimer. Il tema è quello delle scelte.
Il film di Nolan affronta tantissimi temi, e lo fa in maniera importante, ma mi sembra che il vero cuore della questione sia questo: la gravità della scelta. Se avete visto la pellicola sapete di cosa parlo: la vita di Oppenheimer è stata costellata da scelte difficili, anche al di là della bomba atomica. Ha dovuto scegliere quali professori seguire quand’era studente e in quali paesi andare a studiare; ha dovuto ripetutamente scegliere con quali donne stare (spesso commettendo errori, anche tragici); ha dovuto scegliere a quale gruppo politico accostarsi e fino a che punto farsi coinvolgere (anche qui, peccando a tratti di ingenuità, almeno nella prospettiva di qualcuno che vuole lavorare col governo); ha dovuto scegliere quali lavori accettare e quali no; ha dovuto scegliere, infine, anche come giocarsi le sue carte politiche.
Scelte, scelte, scelte. Le facciamo tutti, direte, ed è vero: è proprio questo che rende il film così umano e così vicino alle esperienze di ognuno di noi, anche se le nostre scelte non sono dello stesso livello di Oppenheimer. Però sempre di scelte si tratta. Anche quando scegliamo chi votare alle elezioni facciamo una scelta; anche quando affrontiamo un problema lavorativo in un certo modo facciamo una scelta; anche quando reagiamo ad un insuccesso o ad una delusione facciamo una scelta.
Certo, le nostre scelte, per fortuna, non hanno la portata di quelle di Oppenheimer: non comportano la morte di centinaia di migliaia di persone, né, si spera, il suicidio di chicchessia.
Però, a ben guardare, le dinamiche sono più o meno le stesse: quando prendiamo le nostre decisioni da un lato entrano in gioco i nostri sentimenti, cioè le nostre aspirazioni, i desideri, i rancori, le paure, le speranze; e poi entra in gioco anche la ragione, che ci porta a soppesare i pro e i contro, cercando di immaginare per quanto possibile le conseguenze delle varie opzioni a disposizione.
Solo dopo questo lavoro di confronto interno, a volte anche di conflitto interno, prendiamo una decisione, scegliamo. E incrociamo le dita, sperando di aver fatto la scelta giusta, sperando che le nostre previsioni si rivelino azzeccate e sperando di non esserci lasciati troppo influenzare dalla parte irrazionale di noi.
O almeno questo è quello che facciamo davanti alle scelte più importanti, o almeno questo è quello che fanno alcuni di noi. Ma non sempre funziona così, non sempre il modello ideale viene rispettato.
Pensate al voto alle elezioni. Quante persone che conoscete si comportano nel modo che ho descritto sopra? Quanti soppesano i pro e i contro, valutano quello che potrebbe accadere in prospettiva, cercano di mettere da parte le loro emozioni per fare la scelta più ponderata? Pochissimi, credo. Il più delle volte, in tutto il mondo, il voto è un gesto di mera appartenenza, e quindi un fatto sentimentale, pre-razionale: voto questo partito perché mi ci riconosco, oppure voto questo candidato perché mi piace (o magari perché mi assomiglia). Poca riflessione, molto istinto e sentimento.
Si dirà: è perché il risultato delle elezioni è qualcosa di comunque un po’ distante. Il mio voto viene annacquato in quello di milioni di altre persone, e non è detto che poi la vittoria di A o di B influenzi direttamente la mia vita. Pertanto la nostra scelta non ci tange poi così tanto, e finisce per essere, a volte, un po’ superficiale, o affrettata.
Qual è la conseguenza più diretta, in questo caso? Che se poi il partito che abbiamo votato, e che magari ha vinto le elezioni, governa male, non lo riteniamo una nostra colpa. È raro vedere un elettore dire: ho sbagliato a votare Tizio o Caio, ho commesso un errore. Il più delle volte la colpa viene scaricata anzi proprio su Tizio e Caio: non sono io ad aver sbagliato, sono loro ad essere cambiati (o ad aver tradito il mandato elettorale).
A me pare evidente, per farla breve, che quando scegliamo in maniera istintiva e superficiale non ci riteniamo poi del tutto responsabili delle nostre scelte. Non ne sentiamo il peso, non ci riteniamo imputabili per esse. Mettiamo in atto un meccanismo di deresponsabilizzazione, insomma: scegliamo in fretta e furia e quello che di conseguenza accade non è mai colpa nostra.
Nel video che ho fatto su Oppenheimer chiudevo proprio su questo tema: nel film mi pare abbastanza evidente come il fisico responsabile della bomba atomica sia tormentato dalle morti provocate dalla sua invenzione, mentre i politici che hanno deciso di usare quella bomba non lo siano affatto.
Citavo, a tal proposito, l’incontro tra lo stesso Oppenheimer ed Harry Truman, il presidente degli Stati Uniti, che nel film occupa, forse, appena tre o quattro minuti. Oppenheimer, che si è recato all’incontro sperando di convincere il politico, a guerra finita, a lavorare per la pace, ad un certo punto si mette quasi a piangere, dicendo di sentirsi le mani sporche di sangue, mentre l’ex vice di Roosevelt tira fuori il fazzoletto dal taschino, quasi ad offrirglielo per pulirsi metaforicamente quelle stesse mani, affermando di non sentirsi minimamente in colpa per aver dato l’ordine di sganciare le bombe su Hiroshima e Nagasaki. Oppenheimer, la mente dietro alla bomba, dormiva sonni agitatissimi, mentre Truman, quello che aveva dato l’ordine di usarla, dormiva beato ogni notte.
È un po’ quello che dicevamo prima, se ci pensate. Ci sono due modi per prendere le decisioni: uno ponderato, riflettuto, faticoso, che però anche ci rende pienamente responsabili di quelle decisioni; e uno affrettato, istintivo, facile, che ci deresponsabilizza. E questo al di là del fatto che le decisioni siano giuste o sbagliate: Oppenheimer e Truman, in fondo, erano giunti alla stessa conclusione, ma il primo ci era arrivato soffrendo, il secondo infischiandosene di quasi tutto.
Ecco, in questa dicotomia mi ci sono ritrovato parecchio, per una miriade di motivi. In primo luogo, mi sembra che Oppenheimer ben rappresenti, con la sua vicenda umana, quello che dicevano Sartre e gli esistenzialisti francesi, tra l’altro proprio nello stesso periodo: l’uomo è libero di scegliere, ma questa libertà è in realtà una condanna, una tragedia. Perché ogni scelta implica la responsabilità di portare il fardello di quella scelta e delle sue conseguenze. Oppenheimer è la realizzazione de “l’inferno sono gli altri” di sartriana memoria.
Ma c’è anche un altro motivo per cui questo tema mi prende così intensamente. A me sembra che il mondo sia – in questi anni più di un tempo – spaccato in due proprio per il modo di porsi davanti alle scelte. Quella dicotomia tra scelte superficiali e scelte fin troppo responsabili ci divide, ci mette in lotta, ci impedisce di ragionare insieme, spaccando la società.
Pensate, ad esempio, alla questione ambientale. Da un lato abbiamo una serie di attivisti, perlopiù giovani, che vedono ogni piccola scelta come una scelta decisiva, di campo: spostarsi in auto per la città non è più una abitudine che si può continuare a praticare superficialmente, ma deve essere oggetto di un ragionamento e di una conseguente assunzione di responsabilità; buttare i rifiuti idem; cosa acquistare al supermercato anche. Quei ragazzi hanno ragione, ovviamente, perché l’ambiente dovrebbe essere una delle nostre, se non LA nostra, priorità. E però mentre loro danno peso ad ogni scelta, tutti gli altri continuano a fare scelte superficiali, non riflettute; e così non si sentono mai pienamente responsabili di quello che sta accadendo al pianeta.
Pensate, per fare un altro esempio, alle questioni di genere, al femminismo e ai suoi oppositori. Anche qui non si scontrano solo due visioni del mondo, ma due modi di prendere decisioni: ragionate e d’istinto (e spesso un istinto becero, retrivo). Così il problema non è solo che si scelgono cose diverse, ma che le persone non riescono a capirsi. Se tu chiedi a me una scelta ponderata e ragionata, e io non ragiono mai quando scelgo, allora è come se parlassimo due lingue diverse, e io non riesco a capire i tuoi rilievi e tu non riesci a capire il modo in cui vivo.
La soluzione dove sta? Aristotele direbbe: ovviamente nel mezzo. E in questo caso penso avrebbe anche abbastanza ragione. Nel senso che dovremmo imparare a scegliere prima di tutto su cosa vale la pena di scegliere.
Mi spiego meglio. Il meccanismo della scelta riflettuta, razionale, ponderata è indubbiamente il migliore: è quello che ci permette di superare (o quantomeno arginare) i pregiudizi, di cercare di essere più giusti e corretti, di arrivare anche a soluzioni per quel che ne sappiamo migliori. Non è possibile, però, usarlo sempre: non possiamo passare la vita a pensare ad ogni piccola cosa e a sentirci responsabili del mondo intero, altrimenti non vivremmo neppure.
E allora si tratta di scegliere (tanto per cambiare) le cause sulle quali vale la pena di spendersi, vale la pena di responsabilizzarsi. Non possiamo seguirle tutte, non ne avremo mai le forze e la costanza: ma se ognuno di noi decidesse di dare senso – e quindi importanza, e quindi riflessione e ponderazione – a tre o quattro cose, il mondo senza dubbio migliorerebbe.
Possono essere anche cose molto private, non per forza pubbliche: anche i nostri figli e i nostri partner hanno bisogno di scelte consapevoli e di responsabilità; anche il nostro corpo e la nostra salute necessitano di maturità di visione. E però possono essere anche cause civili, cose che facciano bene agli altri. Come insegnava Spinoza – e anch’io ne sono fermamente convinto – l’unica scelta etica seria è quella che cerca di portare al bene individuale e collettivo allo stesso tempo. In pratica, un mix: fare scelte approfondite un po’ per se stessi e un po’ per gli altri.
E per tutto quello che è meno importante o a cui non possiamo dedicare troppe energie, è necessario andare d’istinto o meglio ancora basarsi sull’abitudine, che è buona maestra. Perché in fondo, se ci pensate bene, certe scelte si possono fare anche solo una volta, e poi possono però durare per tutta la vita: se voglio dare un contributo all’ambiente, posso impormi la regola di andare sempre in bici anziché in auto quando devo affrontare distanze che si possono percorrere in meno di mezz’ora. La scelta la faccio una volta sola, dandomi la regola; e poi quella regola la applico senza più pensare, per abitudine, se sono riuscito nel frattempo ad educarmi a questa consuetudine.
Lo diceva anche Aristotele, tanto per cambiare: l’educazione – e, aggiungerei, l’autoeducazione – serve proprio a questo, ad insegnare delle buone abitudini. In modo che facciamo scelte consapevoli senza però lo sforzo di doverle pensare giorno per giorno, e alleggerendoci pure la coscienza.
Certo, scegliere rimane difficile, complesso, problematico. Oppenheimer sta lì a ricordarcelo. Le scelte possono portarci sull’orlo di una costante crisi di nervi, come lo sguardo di Cillian Murphy riusciva magicamente a mostrarci sul grande schermo. Ma è il prezzo da pagare: meglio essere tormentati che scemi, meglio essere più simili a Oppenheimer (almeno in questo frangente) che a Truman.
Quello che ho registrato e pubblicato
Ecco ora i video e i podcast che ho pubblicato in questi ultimi sette giorni, se vi siete persi qualcosa:
Oppenheimer tra storia e fisica (con recensione): ho visto Oppenheimer, il film del momento, è c’è molto da dire al riguardo
Dante e la sua epoca: iniziamo un percorso attraverso il pensiero e la vicenda storica di Dante Alighieri, forse il letterato che meglio ci ha raccontato una fase importante della mentalità medievale
Storia dei consumi 7: i consumi entrano nelle case: a inizio '900 il consumismo iniziò a trasformare anche le abitazioni, partendo dall’arredamento
Corso di logica 9 - Legami tra condizioni logiche: il nostro corso di logica va avanti, con nuovi rilievi sulle proposizioni “speciali” che abbiamo visto da poco
"Sulla libertà" di Stuart Mill - parte 8: la conclusione del secondo capitolo, tirando le somme sulla libertà di pensiero
Il metodo di Francesco Bacone (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Il revisionismo socialista e il primo femminismo (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
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Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Leviatano di Thomas Hobbes: se avete studiato un po’ di filosofia politica (o guardato qualche mio video al riguardo), sicuramente conoscete già Thomas Hobbes, l’importante filosofo seicentesco i cui concetti vengono spesso riassunti nella massima homo homini lupus. E avrete sentito parlare – e magari pure studiato – il Leviatano, il suo capolavoro, un libro talmente importante da diventare quasi proverbiale (non so se, senza di lui, la figura del leviatano verrebbe usata così spesso ancora oggi come termine di paragone nei discorsi e nei libri). Si tratta di una lettura impegnativa e forse difficile, certo, ma fondamentale per capire l’evoluzione dello Stato e soprattutto per inquadrare una certa visione – assai pessimistica – della vita associata. Non può mancare in nessuna biblioteca, a mio avviso. E quindi, lo potete comprare qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi:
Svolta a destra? a cura di ITANES: ne ho parlato qui;
L’attenzione rubata di Johann Hari: ne ho parlato qui;
Assyria di Eckart Frahm: ne ho parlato qui;
L’odio per gli ebrei di Jean-Luc Nancy: ne ho parlato qui;
Un incontro mancato: Walter Benjamin e Antonio Gramsci a cura di Dario Gentili, Elettra Stimilli e Gabriele Guerra: ne ho parlato qui;
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
E chiudiamo come sempre anche con una rapida carrellata riguardo ai video che dovrebbero arrivare nei prossimi giorni:
in primo luogo, ho intenzione di pubblicare tre video che andranno a rimpolpare le tre playlist principali del canale: in Corso di filosofia toccherà a un video sul Neoplatonismo successivo a Plotino;
nel Corso di storia, invece, vi parlerò in maniera più approfondita degli sviluppi dell’evoluzione sociale umana nel Paleolitico e nel Neolitico;
nel Corso di educazione civica, infine, concluderemo la panoramica sulle varie chiese cristiane;
ci sarà, comunque, molto spazio anche per i podcast: concluderemo Bacone e inizieremo Newton in filosofia, mentre in storia parleremo ancora della società di massa, ma prima vista dalla Chiesa cattolica e poi nei suoi effetti più deteriori, con lo sviluppo del razzismo contemporaneo.
Insomma, ci saranno ancora molte cose da dire, come sempre. Intanto passate una buona settimana e ci rivediamo qui tra sette giorni, e cioè a settembre!