Parliamo della scuola, del lavoro e di quali sono (o dovrebbero essere) le priorità, ma anche di Kissinger, l'Attacco dei Giganti, The Bear, la storia d'Italia, Ippocrate, Jules Verne e l'epicureismo
Quanto ci vuole a fare quello che facciamo? È una domanda che, me ne rendo conto, può sembrare anche un poco stupida, o quantomeno inutile: come si fa a non sapere quanto tempo impieghiamo nel fare quello che facciamo? Eppure è una domanda che dovremmo farci più spesso.
Me ne sono reso conto un paio di giorni fa, quando mi sono imbattuto nell’ultimo video di Dario Bressanini su YouTube. Probabilmente Bressanini lo conoscete già: è un chimico e uno dei maggiori divulgatori italiani, visto che da anni scrive libri e fa interventi sul web, in TV e alla radio per parlare di scienza e per smontare bufale e luoghi comuni. A me è sempre stato estremamente simpatico (anche se la chimica non mi ha mai appassionato troppo), soprattutto per lo stile autoironico dei suoi interventi e per la passione anche per la cultura pop (fumetti in primis).
Ebbene, nonostante alcune vicissitudini personali Bressanini realizza da molti anni contenuti di divulgazione scientifica sul web, spesso molto originali e laboriosi. E nell’ultimo video (che potete vedere qui), un po’ a sorpresa, si spende per spiegare al pubblico quello che sta “dietro le quinte”, cioè come fa a campare con questi video e in generale quanto lavoro tutto quello che fa implichi.
Devo dire che, appena fatto partire il video, ho cominciato a pensare che esso rappresentasse in un certo senso un errore: trovo spesso un po’ sgradevole quando un creatore di contenuti si parla addosso raccontando dei propri introiti, perché quando questi introiti sono alti sembra che si voglia vantare di quanti soldi fa, e quando, più spesso, sono bassi sembra si voglia lamentare e chiedere l’elemosina. Andando avanti col video, però, mi sono reso conto che l’intento non era affatto questo (e infatti le cifre non arrivavano), quanto piuttosto far capire al pubblico di cosa si parla quando si parla di guadagni e di divulgazione.
La gente, infatti, non si rende conto di cosa ci sia dietro quello che vede su YouTube (o dietro alle pagine di un libro, solo per fare un altro esempio simile). Si illude che quello del web sia un mondo dorato in cui basta prendere in mano un cellulare, fare qualche ripresa e vedersi riempiti da montagne di soldi. E, appunto, lo stesso vale per i libri: la gente è convinta che agli autori di libri diano anticipi da favola e royalties bastevoli per comprare casa.
Ovviamente, pensandoci un po’ sopra, ci si può rendere facilmente conto che non è affatto così. Coi libri, in genere, ci si paga un anno d’affitto, se va bene. E comunque anche solo scrivere i video è estremamente impegnativo: Bressanini racconta come debba studiarsi diversi articoli scientifici prima di creare un suo contenuto originale (benché ci siano anche video più semplici da ideare), ma anch’io, nel mio piccolo, devo mettermi al computer con svariati libri per rielaborare il contenuto di una mia lezione. Poi bisogna ovviamente filmarli, quei “copioni”, con strumentazioni tecniche non sempre facilissime da utilizzare. E poi bisogna montare il tutto (Bressanini si affida, a quanto capisco, a un montatore esterno, ma io faccio tutto da solo, anche perché non ho i soldi per pagare gente nel darmi una mano).
Risultato? Per realizzare 40 minuti di video, che voi vi vedete tranquilli sul divano, io lavoro tranquillamente 5 ore, a volte anche di più. E 5 ore intense, spossanti: ci vuole concentrazione per scrivere bene la lezione; ci vuole impegno per registrarla in modo decente; e ci vuole attenzione anche al montaggio. Non sono cose che si possono fare a tempo perso, guardando nel frattempo la televisione o ascoltando la musica.
Per questo, mi ha fatto sorridere, nel video di Bressanini, il passaggio in cui, mentre spiega che lui campa anche grazie alla vendita dei suoi libri, dice: «Tra parentesi: ecco perché quando qualcuno arriva e commenta: “Eh, ma vuoi solo vendere i tuoi libri”, io penso che sia un coglione, perché non ha capito come si regge tutto il sistema».
Mi ha fatto sorridere perché capisco benissimo Bressanini: là fuori è pieno di gente che non ha capito come si regge il sistema. Anche a me arrivano, periodicamente, commenti di persone che si lamentano del fatto che nei video ci sia la pubblicità, o che io non abbia coperto coi miei video un tema che a loro serve per un esame universitario. La gratuità ha dato alla testa a molti: e non si rendono conto che se per l’utente finale un video è gratuito (o semi-gratuito, visto che c’è la pubblicità), non vuol dire che non costi nulla realizzarlo. Anzi, provate ad andare a ripetizioni di storia o filosofia (da un professore che, come il sottoscritto, potrebbe permettersi di tenere alte le tariffe): 5 ore di lavoro ve le farebbero pagare 200 euro e più. Moltiplicate per 1.300 video: fanno 260.000 euro. E voi avete a disposizione, gratis, il corrispettivo di 260.000 euro di lezioni: a dirla tutta, c’è poco da lamentarsi.
Per carità di patria, lascio perdere poi i commenti di quelli che si lamentano di altre cose (la luce dei video, il suono, un errore di pronuncia, una svista, un lapsus). Se fossi pieno di soldi – o se i video fossero a pagamento – potrei pagare uno stuolo di assistenti per farmi il controllo di qualità, sistemarmi l’armamentario e correggere gli errori che faccio, ma alla fine bisogna accontentarsi di quello che si ha a disposizione e tirare avanti. Gli errori li fa anche la Rai, in trasmissioni in cui lavorano decine se non centinaia di persone; e se li faccio io, che faccio tutto da solo, penso sia anche comprensibile. Il che non vuol dire che non mi dia fastidio sbagliare: ogni volta che mi accorgo di un errore mi mangio le mani. Ma bisogna anche accettare il proprio fallibilismo; e lo devono accettare anche gli altri.
Ma, di nuovo, sono convinto che alla base di tutto ci sia una mancata comprensione di tutto quello che succede al di qua della telecamera. Che è un po’ anche il problema, più in generale, dei social: tutti commentano, nessuno fa. E così non ci si rende conto di cosa voglia dire, del tempo, del denaro, dell’impegno che quello che facciamo comporta. E, d’altra parte, commentare è sempre facile, sempre veloce, non richiede nessun lavoro.
Per fortuna, personaggi di questo tipo – almeno dalle mie parti, almeno tra gli aficionados del canale – sono tutto sommato piuttosto rari, una esigua minoranza rispetto alle migliaia e migliaia di persone che sanno rendersi ben conto del lavoro che c’è dietro. E dico migliaia, ma tra poco dovrò cambiare parola: gli iscritti al canale sono ormai 99.000 e oltre. Preparatevi a festeggiare la cifra tonda dei 100.000 iscritti a breve.
Intanto, però, basta discorsi su di noi. Passiamo subito a parlare dei libri, dei film e di tutto il resto.
Quello che ho letto
Questa settimana cambiamo tutto. Dopo varie newsletter dedicate più o meno sempre agli stessi argomenti, ho iniziato ben tre diversi libri. Vediamoli.
Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne: ve l’ho raccontato già altre volte: quando io e la mia famiglia ci imbarchiamo in viaggi relativamente lunghi in auto, di solito facciamo partire un audiolibro per tenerci compagnia durante il tragitto. Ci appoggiamo al servizio offerto da Audible, ma di servizi simili ormai ce ne sono vari: con un abbonamento mensile si ha a disposizione un ampio catalogo di titoli, letti quasi sempre ottimamente. In passato ci siamo gustati romanzi di tutti i tipi: dalla saga di Harry Potter a quella dell’Attraversaspecchi, da Agatha Christie a Gianni Rodari. Lo scorso weekend, in corrispondenza col Ponte dell’Immacolata, siamo andati per un paio di giorni in montagna e così abbiamo fatto partire un nuovo volume, optando – pur tra qualche protesta dei figli più grandi, che volevano qualcosa di più recente – per un classico dell’Ottocento, Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne. Erano decenni che non pensavo a quella storia e che non leggevo, a dirla tutta, una pagina di Verne, ma ne è valsa la pena. Tra viaggio d’andata e di ritorno siamo già arrivati a quasi due terzi del volume: in termini geografici, siamo partiti da Londra, siamo approdati a Brindisi, poi al Canale di Suez, quindi in India, a Singapore, a Hong Kong e adesso siamo quasi a Shanghai. La storia credo la conosciate più o meno tutti: Phileas Fogg, eccentrico gentleman londinese, scommette coi suoi compagni di club di poter compiere il giro del mondo in 80 giorni esatti, sfruttando quelli che nel 1870 erano gli ultimi ritrovati della tecnica, ovvero treni e battelli a vapore. Si imbarca così immediatamente in un viaggio assai rischioso – anche perché si dovrà addentrare per la giungla indiana, e soprattutto fare affidamento sulla puntualità dei mezzi di trasporto (in un’epoca in cui i treni, allora come oggi, non arrivavano quasi mai in orario) – in compagnia solo di un gruzzoletto per pagarsi le spese e di un fedele, anche se neoassunto, servitore, il francese Jean Passepartout. Il viaggio sarà poi reso complicato anche dall’inseguimento di un poliziotto, Fix, convinto che Fogg sia in realtà un ladro. Il racconto è divertente, ben scritto e ricco di quella sottile ironia tipica di certi romanzi d’avventura del tardo Ottocento; e poi è interessante anche come documento d’epoca, per vedere all’opera l’ideologia positivista, colonialista e paternalista che contrassegnava le classi elevate europee all’alba dell’epoca dell’imperialismo. Infine, il romanzo è utile anche per ripassare la storia: vi racconta del canale di Suez, dell’India britannica, fa qualche cenno alle guerre dell’oppio, vi spiega la particolare situazione di Hong Kong e così via. Leggerlo può essere molto interessante, insomma, anche per un adulto. Se volete acquistarlo, potete prenderlo qui.
Breve storia d’Italia ad uso dei perplessi (e non) di Mario Isnenghi: per una serie di coincidenze, questa settimana ho cominciato ben due libri brevi, e che dicono di esserlo fin dal loro titolo. Uno è dedicato all’epicureismo (e lo vedremo tra poche righe), l’altro alla storia d’Italia. Soffermiamoci ora su quest’ultimo, un volumetto firmato da Mario Isnenghi – importante storico veneziano – ormai venticinque anni fa, e poi più volte ristampato e aggiornato. Si tratta di una summa, veloce ma non banale, della storia d’Italia, partendo dal Risorgimento fino ai giorni nostri. Niente di più, probabilmente, di quello che si fa già a scuola, alle superiori, ma che è sempre utile ripassare, tenere sott’occhio e riscoprire. Lo stile è colloquiale – il volumetto era stato pensato inizialmente per una platea di ragazzi –, scevro di tecnicismi accademici, ed è gustoso, anche perché Isnenghi quando vuole sa essere anche ironico. Lo consiglio sicuramente a chi vuole dare una ripassata alla storia patria e, allo stesso tempo, magari scoprire o riscoprire particolari dimenticati. Lo potete comprare qui.
Sette brevi lezioni sull’epicureismo di John Sellars: qualche anno fa ha ricevuto una certa attenzione mediatica il libriccino Sette brevi lezioni sullo stoicismo scritto dal filosofo inglese John Sellars, che insegna all’Università di Londra. Il successo di quel piccolo saggio ha dato origine a una serie di epigoni, tra cui anche questo Sette brevi lezioni sull’epicureismo firmato dallo stesso Sellars e stampato in Italia sempre da Einaudi. Io il libro sullo stoicismo non l’ho ancora letto, ma – forse perché ho sempre nutrito una certa simpatia per Epicuro – mi sono buttato in questi giorni su quello dedicato alla scuola del giardino. Il libro è molto agile e devo dire anche semplice: spiega l’epicureismo senza tecnicismi, cercando di limitarsi agli aspetti concreti, ancora oggi applicabili alla vita di ogni giorno. Sellars si focalizza infatti soprattutto sul dolore, sul piacere, sulle paure da estirpare; insomma, sul tetrafarmaco, così come viene sempre presentato anche a scuola. Tutto quello che complica lo studio di Epicuro (gli atomi, il clinamen, la teoria della conoscenza) per il momento – e sono ormai ai tre quarti del volume – viene tralasciato o affrontato solo di striscio, velocemente. Insomma, è un Epicuro per chi non lo conosce (o lo ha dimenticato) e ha voglia di un riassunto pratico, utile, a tratti anche affascinante, perché Sellars sa scrivere anche bene. Se vi interessa, lo potete acquistare qui.
Quello che ho visto
Passiamo ora ai film e alle serie TV. Ancora una volta, più serie TV che film.
The Bear episodio 2.05 (2023), di Christopher Storer, con Jeremy Allen White, Ebon Moss-Bachrach, Ayo Edebiri: vi ho già parlato tante volte di The Bear, una delle serie TV più apprezzate degli ultimi anni, di cui anche io in passato ho parlato in termini molto positivi. La prima stagione l’ho a suo tempo letteralmente divorata, trascinato dal ritmo forsennato della regia e dalla storia assurda, angosciante e profondamente segnata dal tema del suicidio. Forse perché così intensa, però, la seconda stagione mi ha, sulle prime, catturato meno; all’inizio non sapevo dire nemmeno perché, dato che dal punto di vista tecnico e autoriale lo show pare ancora di altissimo livello. Eppure le prime quattro puntate non mi hanno proprio preso, e infatti ho messo – non so neppure quanto volontariamente – la serie in pausa, evitando di vederne per varie settimane altri episodi. Forse l’avevo trovata emotivamente troppo intensa, forse mi ero semplicemente un po’ stufato di quelle storie che in fondo non andavano mai avanti, con personaggi sempre bloccati nei loro caratteri (certo: caratteri realistici, perfino iper-realistici, ma bloccati). Poi questa settimana, invece, mi è venuta voglia di riprendere tutto in mano e mi sono visto un nuovo episodio, che poi, come al solito, ho trovato estremamente bello, toccante. Anche perché il protagonista, Carmy, finalmente qualche passo in avanti, in termini di evoluzione del personaggio, in effetti lo fa. Ah, mi sono dimenticato di dirvelo: la serie si concentra su un rinomato chef che, dopo anni ad altissimo livello, lascia tutto per prendersi cura del ristorantino di quartiere della sua famiglia, ristorantino che però è sull’orlo del fallimento, anche proprio a causa di una famiglia decisamente disfunzionale. The Bear la trovate su Disney+.
L’attacco dei giganti episodi 1.03-1.04 (2013), di Tetsurō Araki: se la settimana scorsa avete letto la newsletter, avrete visto che ho parlato de L’attacco dei giganti, uno degli anime di maggior successo degli ultimi anni che però, finora, non avevo ancora visto. Questo lo sapete dunque già, ma quello che non sapete è che dopo quella newsletter vari miei studenti (che evidentemente sono abbonati a questa mail, e tengono d’occhio di cosa parlo) sono corsi a dirmi che valeva assolutamente la pena continuare a guardarla, questa serie, e di non smettere. Così, spinto da tali e tanti inviti, questa settimana ho guardato altri due episodi de L’attacco dei giganti. Ovviamente è troppo presto per trarre delle conclusioni sulla qualità della trama, ma devo dire che finora lo svolgimento mi ha un po’ stupito: il tempo scorre molto velocemente, come se tutto quello che ci è stato mostrato finora servisse solo da premessa per il vero fulcro della storia, che deve ancora arrivare. I cinque anni di addestramento vengono infatti ridotti a una manciata piuttosto rapida di scene, quasi come se non fossero realmente interessanti; e, proprio sul finire del quarto episodio, si arriva già a quello che sembra essere un primo grande scontro con il gigante. Sarà un anime tutto d’azione, dunque? Oppure quella parziale analisi psicologica dei personaggi che è stata fin qui abbozzata verrà approfondita? Vedremo. Intanto tengo duro e vado avanti, così da non deludere gli allievi. Se vi interessa, la serie animata la trovate su Amazon Prime Video.
Il fantasma del pirata Barbanera (1968), di Robert Stevenson, con Peter Ustinov, Dean Jones, Suzanne Pleshette: se appartenete più o meno alla mia generazione, i film Disney sono stati un pezzo importante della vostra infanzia. A volte si compravano addirittura le videocassette originali dei classici, vecchi o nuovi, come Biancaneve, Robin Hood o Aladdin; altre volte si registravano abusivamente dalla televisione, quando il videoregistratore sembrava l’innovazione più straordinaria che avremmo mai visto in vita nostra. Che ingenuità, no? All’epoca ci esaltavamo per un film in più aggiunto alla nostra collezione, registrato male, con la pubblicità in mezzo, magari dopo aver aspettato per anni che passasse in TV; e comunque, nonostante tutto, quella videocassetta poi la guardavamo fino quasi a consumarla, decine e decine di volte, imparando a memoria le battute più importanti della pellicola. Non c’era, d’altra parte, molto altro da poter fare: non giravamo con cellulari che contengono tutto lo scibile umano a portata di clic e dovevamo accontentarci di quel che passava il convento. Ma forse anche per questo, quel che passava il convento aveva per noi un valore doppio (lo so, suona molto boomer, ma concedetemelo). Ebbene, oltre ai cartoni animati disneyani (e ovviamente ai primi anime trasmessi da Bim Bum Bam e trasmissioni simili) c’erano poi anche i film Disney in live action; niente di straordinario, ma comunque una solida sicurezza. Non era ancora il tempo in cui la casa di produzione americana investiva miliardi in saghe come quella dei Pirati dei Caraibi o in rifacimenti dei suoi classici animati con star di Hollywood; piuttosto, realizzava film molto fantasiosi, con attori spesso abituali, tipicamente per famiglie. Herbie - Un maggiolino tutto matto, FBI - Operazione gatto, 4 bassotti per 1 danese e tanti altri titoli di questo tipo: probabilmente li avete visti milioni di volte. Protagonista era spesso Dean Jones, attore non particolarmente espressivo ma ben adatto a fare la parte dello scettico che si trova, suo malgrado, catapultato in eventi più grandi di lui, in cui la magia ha un certo peso. E tra i migliori film di questo periodo bisogna a mio avviso annoverare anche Il fantasma del pirata Barbanera, che, pur nella sua convenzionalità, rappresenta una piccola gemma. Il canovaccio è lo stesso di altri film Disney: in una cittadina di provincia imperversa il cattivo di turno (questa volta un gangster), fino a quando un integerrimo uomo interpretato da Dean Jones non incappa in una stranezza magica (in questo caso il fantasma di un pirata) che lo aiuta a risolvere la situazione e a sconfiggere l’avido antagonista. Ma, rispetto al solito, c’è anche qualcosa di più: c’è un Peter Ustinov, ad esempio, molto convincente ed azzeccato nei panni del pirata; c’è qualche scena d’azione assai divertente (la gag degli indici che sparano come se fossero delle pistole è esilarante); c’è perfino una vena di sottile attrazione erotica tra i due protagonisti che non è comune da vedere in un film Disney (e Suzanne Pleshette, in questo senso, è incantevole). Per carità, non è un film che ha segnato la storia di Hollywood o che ha portato sul grande schermo qualcosa di nuovo, ma è comunque un buon intrattenimento per bambini, e a volte anche per adulti nostalgici. Lo trovate su Disney+.
Quello che ho pensato
Quello dell’insegnante è un mestiere complicato. Non solo perché è davvero difficile riuscire a far breccia nelle menti e nei cuori dei bambini, degli adolescenti e dei giovani adulti, ma anche perché – come accade, bisogna dirlo, anche per altri mestieri a diretto contatto con il pubblico – la percezione della gente è sempre un po’ falsata (come dicevamo in parte anche nell’introduzione della newsletter dedicata a Dario Bressanini).
Moltissimi, in Italia, hanno un’idea pessima della scuola, è inutile nasconderselo: pensano che gli insegnanti facciano poco, siano pigri e svogliati se non perfino inadeguati, e ritengono che la scuola sia – almeno in parte – una perdita di tempo. Parlando con le persone ti accorgi che tutti, prima o dopo, hanno avuto dei problemi a scuola, e una delle cose che, anche a distanza di parecchi decenni, ricordano con maggior nitidezza della loro adolescenza sono soprattutto i pessimi insegnanti.
Non è sempre così, ovviamente: molti hanno anche dei ricordi positivi sulla scuola e magari su un docente che è stato addirittura decisivo per la loro crescita umana e personale, ma il più delle volte lo presentano come un’eccezione, come l’unico faro in mezzo alla nebbia. Per il resto rimane un giudizio perlopiù negativo; e il più delle volte non per la preparazione degli insegnanti (che è giudicata mediamente buona, pur con qualche variabilità), quanto piuttosto per la loro mancanza di empatia, per la loro cattiveria, per il loro sadismo, per l’incapacità di trasmettere i contenuti.
Tutti gli insegnanti, quando sentono queste lamentazioni, ovviamente si arroccano sulla difensiva: sottolineano che la severità serve a crescere, che quando si è adolescenti non si ha la giusta percezione delle cose, e che in realtà per ogni insegnante inadeguato ce n’è almeno uno che invece lavora, e forse anche troppo. Anch’io faccio così, anch’io difendo spesso la categoria, perché in fondo tento di difendere me stesso da accuse che, almeno nel mio caso, mi paiono ingenerose. E però bisogna anche dire che se queste opinioni sono così diffuse, su così larga scala, anche tra professionisti che hanno studiato in giro per il mondo e di esperienza ne hanno da vendere, qualcosa di vero ci dev’essere. Magari non tutto, ma qualcosa sì.
Ne parlavamo anche nel Club del Libro di qualche giorno fa, la riunione mensile dedicata agli abbonati del canale in cui discutiamo di un volume che abbiamo letto tutti. Il libro in questione era, in quell’occasione, il Simposio di Platone, ma partendo dall’amore siamo finiti a parlare dell’amore per il sapere, e dall’amore per il sapere il salto verso la scuola è stato praticamente immediato. Tra i partecipanti sono emerse due visioni: da un lato, quella di chi vede nella scuola italiana tutto sommato un’eccellenza, soprattutto se paragonata ad altre scuole occidentali (europee, americana) in cui la preparazione dei ragazzi è di livello generalmente più scarso; dall’altro, quella di chi ritiene che la nostra scuola debba ancora essere migliorata e riformata, visti anche i risultati dei recenti test OCSE-PISA che ci vedono ancora piuttosto deficitari.
Come ho detto là, entrambe le visioni dicono a mio avviso qualcosa di vero. Io insegno in una scuola da cui escono – stando alle statistiche Eduscopio, Invalsi e così via – alcuni dei migliori studenti della penisola, con risultati eccellenti secondo praticamente tutti i parametri; e questi studenti non hanno problemi ad andare a studiare, se vogliono, in America, in Germania, in Inghilterra, in Francia. Anzi, l’unico problema a volte è la lingua, perché su quel versante – nonostante i molti passi avanti che sono stati fatti negli ultimi anni – siamo ancora un po’ deficitari; ma per il resto i nostri ragazzi, per quanto riguarda la preparazione, non hanno nulla da invidiare ai loro colleghi d’Oltralpe, se non qualche competenza (come quella del lavoro di squadra) che comunque si può affinare e acquisire anche poi.
Il guaio è che il mio liceo non è tutta l’Italia, e che la media nazionale risulta ancora problematica. Giusto per farvi capire la situazione, forse conviene sciorinare qualche numero.
Primo: il tasso di abbandono scolastico (cioè i giovani che lasciano la scuola prima del tempo) è attualmente in Italia all’11,5%, uno dei più alti in Europa. Uno studente su dieci, insomma, si ritira dalla scuola anzitempo. Il dato è preoccupante soprattutto in Sicilia e Campania, dove arriva addirittura, rispettivamente, al 18,8% (quasi uno su cinque) e al 16,1% (fonte: Openpolis).
Secondo: il livello di competenza in italiano in quinta superiore è problematico in molte regioni. I dati Invalsi ci dicono che in Campania quasi il 40% degli studenti è al livello più basso di comprensione della lingua italiana (in Veneto questa percentuale è del 12%). Detta in altri termini, due studenti campani su cinque non capiscono un banale testo in lingua italiana: è un dato drammatico. La media del sud è del 33% (uno studente su tre), la media del nord è del 14% (fonte: Invalsi).
Terzo: in matematica la situazione è ancora peggiore. Sempre l’Invalsi ci dice che in Campania il 46% degli studenti (praticamente la metà) è al livello più basso possibile in matematica: per loro, studiare matematica per 13 anni evidentemente non è servito a nulla o quasi. A Bolzano solo l’8% è in questa situazione, in Veneto il 13%. La media del sud è del 40%, quella del nord del 15%. Abbastanza impressionante, no?
Se andassimo a tirar fuori i dati degli anni precedenti (ve li risparmio, ma potete recuperarli facilmente se volete approfondire), risulterebbe evidente che il problema è strutturale e non episodico; che c’è un divario nord-sud che balza agli occhi e rappresenta un problema enorme. Che c’è, di fatto, una scuola di serie A e una scuola di serie B; e questo al di là degli insegnanti che lavorano dall’una o dall’altra parte.
Quando si guardano questi dati, infatti, la reazione più superficiale potrebbe essere: al nord ci sono gli insegnanti migliori, al sud i peggiori; oppure, in alternativa: al nord ci sono gli studenti migliori, al sud i peggiori. Basta scavare un po’ al di sotto della superficie, però, per rendersi conto che non è così: nella mia provincia, ad esempio, c’è da sempre una buona percentuale di insegnanti meridionali, e com’è possibile allora che insegnanti che hanno frequentato la scuola al sud poi vengano al nord e ottengano, coi loro studenti, risultati così buoni?
Evidentemente le spiegazioni (molte, complesse) stanno altrove; ma il risultato è che c’è un divario enorme, sotto diversi punti di vista, nel nostro paese. C’è un divario tra scuola e scuola, tra città e città, tra regioni e regioni. Chiunque debba iscrivere un figlio alle scuole elementari o medie sa bene che ci sono forti differenze anche tra un quartiere e l’altro di una stessa città; così come ci sono forti differenze tra certe scuole superiori ed altre all’interno della stessa provincia, anche se si tratta dello stesso tipo di scuola superiore.
Siamo il paese delle differenze, e questo per certi versi è un pregio. Ma qui non si tratta di diversi approcci, di diversi tipi d’insegnamento; qui si tratta di offrire ad una certa parte d’Italia quello che non offri a un’altra parte d’Italia. Qui si tratta di far partire con un handicap non da poco chi proviene da certe zone geografiche, dove evidentemente troppe cose non funzionano.
Perché, attenzione: quei dati non riguardano solo la scuola. Anzi, direi di più: non riguardano tanto la scuola, quanto piuttosto quello che sta attorno alla scuola. I programmi delle varie materie sono gli stessi in tutta Italia, il testo delle prove di maturità è lo stesso in tutta Italia, il percorso di formazione e di selezione dei docenti è lo stesso in tutta Italia; eppure i risultati sono incredibilmente diversi. Segno che la scuola non è tutto, che il contesto incide e che bisogna agire a più ampio raggio se si vuole cercare di migliorare le cose.
Ma eravamo partiti, se vi ricordate, dal lavoro che non si vede. Gli insegnanti, in questo, sono specialisti: quelli che hanno voglia di lavorare fanno un sacco di lavoro invisibile (correzioni, preparazione delle lezioni, aggiornamento, studio… tutte cose non conteggiate nel loro orario di lavoro), e pochi se ne accorgono, perché non sono presenti quando questo lavoro viene svolto. Nemmeno gli studenti – a meno che non siano un po’ più empatici o acuti della media – si rendono conto di quante ore i loro prof impiegano per preparare i materiali, per imbastire le lezioni, per correggere adeguatamente i loro compiti, per organizzare le loro uscite o attività.
Però, bisogna dirlo, anche la formazione dei ragazzi è, in sé, un lavoro invisibile. Non coincide solo con quello che si fa a scuola; coinvolge ogni passeggiata che si fa, ogni dialogo che si tiene a casa, ogni film che si vede, ogni canzone che si ascolta, ogni partita a calcio. La cultura è un affare ben più grande delle ore sui banchi di scuola; e quindi non deve stupire che programmi uguali e scuole (apparentemente) uguali diano risultati diversissimi. Perché si impara di più fuori da scuola che a scuola; si cresce di più nelle ore non ufficialmente destinate alla crescita che in quelle formalizzate; perché anche qui conta l’invisibile più che il visibile.
Cosa dovremmo fare, dunque? Quello che ci siamo detti anche qualche settimana fa: imparare a lavorare di più, tutti, spesso in modo invisibile; e a notare e premiare questo lavoro invisibile. Il mondo della cultura, purtroppo, è pieno di gente che ama mettersi in mostra portando un contributo minimo alla crescita delle persone; di professionisti del palcoscenico («i direttori artistici, gli addetti alla cultura», li chiamava Battiato) che vivono di amicizie, di articoli favorevoli, del fatto di mettersi in risalto e di costruzione del personaggio. In realtà sono uomini e donne, a ben guardare, che valgono poco.
E invece ci sono tanti altri che lavorano nell’ombra, che il loro contributo lo danno. Professoresse d’italiano che correggono i compiti di notte scrivendo decine di righe per far capire al ragazzo di turno come migliorare, prof di filosofia che lavorano tutta l’estate a dispense che poi i ragazzi guarderanno di striscio, allenatori di basket o di calcio che si inventano tornei e sacrificano tutti i loro weekend pur di dare ai ragazzi l’occasione di incontrarsi e socializzare, promotori culturali – ma di quelli veri – che invitano relatori pagandoli anche di tasca propria pur di farli venire nel loro sperduto paese di provincia. È questo lavoro invisibile che fa la differenza, che dà i risultati: pochi lo notano, ma è quello decisivo.
Non sempre è un lavoro che va a buon fine: perché magari le dispense di filosofia sono mediocri, perché magari il torneo di basket viene male, perché magari il relatore fa una conferenza noiosa a cui nessuno partecipa; però è solo tramite questo lavoro che, ogni tanto, si trova la modalità giusta e si riesce a lasciare il segno.
Siate quindi quelli che lavorano nell’ombra. Quelli che cercano di fare ogni volta un po’ meglio di quella precedente, quelli che non cercano onori ma sono più interessati a quello che lasciano che a quello che prendono. E siate quelli che sostengono chi fa questo lavoro invisibile, che apprezzano tutti i doni e che si sforzano di capire il lavoro che c’è dietro.
Quello che ho registrato e pubblicato
Facciamo ora come al solito il punto sui video e i podcast usciti negli ultimi sette giorni:
Kissinger e la sua politica estera: una veloce analisi delle scelte di Henry Kissinger, da poco scomparso, e della sua influenza sulla politica estera americana
La nuova medicina di Ippocrate: Ippocrate è considerato, giustamente, il padre della medicina greca. Ecco cosa pensava
"Sulla libertà" di Stuart Mill - parte 10: andiamo avanti con la lettura del famoso saggio utilitarista, concentrandoci su democrazia e dittatura
L’occasionalismo di Malebranche (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
La questione cinese e il dominio coloniale europeo (per il podcast “Dentro alla storia”)
L’Europa a fine Ottocento (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
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Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Storia economica dell'Europa pre-industriale di Carlo M. Cipolla: di Carlo M. Cipolla vi ho parlato già altre volte, insistendo però soprattutto sui suoi scritti ironici e divertenti, come ad esempio le Leggi fondamentali della stupidità umana. Quegli scritti, però, erano una forma di divertissement, una breve pausa nel lavoro – per altri versi serissimo – di Cipolla, che era un apprezzato storico dell’economia. Il libro che vi consiglio questa settimana è infatti forse il suo capolavoro, e fa il punto sull’Europa pre-industriale e sulla sua economia. Costa anche abbastanza poco, appena 15 euro, e non può mancare nella biblioteca di ogni appassionato. Potete acquistarlo qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
Chiudiamo come sempre anche con una panoramica sui video in arrivo nei prossimi giorni:
già domani, se tutto va come deve andare, pubblicherò un video su Pico della Mirandola e la sua filosofia;
mercoledì sarà la volta invece di un nuovo video della serie Video Club storico-filosofico, incentrato su Nanni Moretti e sul suo cinema;
sabato dovrei poi riuscire a preparare un nuovo capitolo della serie dedicata alla Storia dei consumi, questa volta focalizzato sui legami tra ideologie politiche e consumismo a cavallo tra le due guerre mondiali;
domenica infine toccherà a Boezio e lunedì prossimo, forse, a un nuovo video della serie La mia (anti) filosofia;
per quanto riguarda i podcast, invece, spazio ad Antoine Arnauld in filosofia e alla Belle époque in storia.
E siamo di nuovo arrivati alla fine, anche questa volta. Tra sette giorni mancherà una sola settimana a Natale: ricordatevi di fare gli acquisti del caso (o di scrivere le letterine a Babbo Natale), e di tenere un po’ di spazio per i libri di storia e di filosofia. Ma ne riparliamo tra sette giorni. Intanto buona settimana. A presto!