Parliamo di quanto stupidamente ci polarizziamo su Gaza e Israele, ma anche di Friends, Intelligenza artificiale, Marco Aurelio, 1984, Bodies, John Steinbeck, Zombieland e i sofisti
Abbiamo voglia di porci delle domande a cui magari neppure sappiamo rispondere, oppure siamo troppo stanchi, stufi, disillusi?
È una domanda che in questi ultimi due giorni mi sono posto parecchio. Magari in una delle prossime newsletter approfondiremo pure, facendo un ragionamento più ampio; però intanto mi pare sia un quesito che valga la pena porsi.
Nasce, in me, come sempre da due cose molto diverse tra loro, che si sono però accavallate tra loro tra sabato e domenica. Sabato, nella mia scuola, abbiamo dato il via alle attività di orientamento in ingresso tramite l’Open Day (o la Scuola Aperta che dir si voglia). Io in particolare, oltre a organizzare una parte dell’attività generale, mi sono occupato del laboratorio di filosofia, un breve momento in cui – a turni di 10 ragazzi alla volta, ragazzi che rimanevano nelle nostre grinfie per una ventina di minuti – abbiamo provato a dare una vaga idea di cosa voglia dire fare filosofia alle superiori.
Ebbene, per rendere la cosa incisiva e dinamica, io – col validissimo supporto di tre alunni, uno di terza, una di quarta e una di quinta superiore – ho provato a far capire ai ragazzi che la filosofia è prima di tutto mettersi in dubbio e cercare di non essere troppo sicuri di niente. Così, ad un certo punto abbiamo iniziato a raccogliere una serie di cose che i ragazzini delle medie credevano vere per poi, sfruttando il metodo dell’ironia socratica, demolirgliele una ad una.
Il tutto lo facevamo davanti ai genitori, che un po’ ci guardavano esterrefatti, un po’ giocavano con noi. Secondo me è una bella pratica, quella di sconvolgere la mente agli adolescenti, e dovremmo farlo più spesso; però i miei ragazzi tutor (gli studenti del liceo che accompagnavano i visitatori) mi hanno detto anche che qualcuno dei genitori un po’ si lamentava di questo approccio poco “canonico”.
Non che sia stato un atteggiamento diffuso; però evidentemente c’è ancora chi ritiene che i ragazzi alle superiori debbano studiare, al limite imparare cose, e non pensare troppo.
In secondo luogo, ieri sera si è svolto il secondo incontro del Club del Libro, quella particolare riunione per gli abbonati del canale YouTube in cui ci troviamo per discutere di un saggio o romanzo letto tutti assieme, in parallelo. Il libro in questione era 1984 di George Orwell, di cui vi parlerò meglio più avanti, ma ad un certo punto è emerso il tema – molto forte ovviamente anche nel romanzo – della voglia di pensare. Perché il Partito, nel racconto di Orwell, cerca costantemente di limitare la libertà di pensiero, ma bisogna dire che spesso sono gli uomini stessi a rinunciare autonomamente al proprio giudizio, preferendo lasciare ad altri il compito di decidere, pensare e valutare.
Questo è un grande tema anche oggi: abbiamo voglia di metterci in gioco, sapendo che probabilmente tutto questo potrebbe anche non portarci da nessuna parte? Io spero ardentemente di sì: insegno proprio questo. Ma magari sono solo un illuso. Ne riparliamo, tra l’altro, anche più avanti.
Intanto oggi, con la newsletter, provo a darvi qualche stimolo in più. Cominciamo.
Quello che ho letto
Partiamo come sempre dai libri. Nulla di particolarmente nuovo all’orizzonte, se non un volumetto piccolo ma assai importante.
Uomini e topi di John Steinbeck: in questi giorni, oltre a scrivere questa newsletter e a fare molte altre cose, ho preparato le mie dispense di storia per gli studenti di quinta. Dispense che contengono, ovviamente, la parte che potremmo definire “manualistica”, ma che mi diverto anche ad ampliare con sezioni dedicate ai documenti (discorsi, immagini, fonti storiche di vario tipo) e soprattutto ai “consigli di lettura e di visione”: per ogni capitolo, infatti, segnalo alcuni saggi che possono essere letti per approfondire, ma anche romanzi e film che ci si può gustare tranquillamente sul divano di casa e che però, essendo ben fatti, aiutano ad avere una panoramica non tanto dei fatti storici in sé, quanto piuttosto dell’atmosfera, del clima di una certa epoca. Ecco, preparando il capitoletto sulla crisi del 1929 mi sono messo a pensare a quali film e a quali libri si potessero segnalare ai miei diciottenni e diciannovenni; e tra i romanzi mi è venuto assolutamente in mente Uomini e topi, letto chissà quanti anni fa, quando ero andato per qualche mese in fissa con Steinbeck (lessi anche L’inverno del nostro scontento, un volume di fila all’altro). Solo che, preparando la scheda sul libro, mi sono anche reso conto di ricordarne, a sommi capi, la trama – anche perché è piuttosto celebre, e viene ripresa e citata un po’ dappertutto –, ma di non ricordarne più tanto lo stile, i dettagli, l’atmosfera. Insomma, per farla breve mi è venuta d’improvviso la voglia di rileggerlo, dicendomi che tanto è uno scritto corto, che si gusta e digerisce in poche ore. E così mi sono buttato a capofitto – prima di iniziare il nuovo libro del mese per il Club del Libro – in questa storia ambientata nell’America della Grande Depressione, con due braccianti che girano per i ranch e le campagne in cerca di un qualche lavoro stagionale, cercando di sopravvivere. Come forse già sapete, i due protagonisti sono uomini assai diversi tra loro: George è piccolo ma scaltro, conosce la vita e sa muoversi in questo brutto mondo; Lennie, invece, è grande e grosso, ma affetto da ritardo mentale e quindi dimentica tutto, non sa comportarsi e rischia anzi di essere pericoloso, come dimostra la sua improvvida capacità di ammazzare topi quando vorrebbe solo accarezzarli. Non vi rivelo altro sulla trama, ma – oltre che un capolavoro assoluto – è un romanzo duro e delicato al tempo stesso, ed è tutto un dire. Se vi ho incuriositi, lo potete acquistare qui (anche se io lo sto leggendo non in questa versione, ma nella storica traduzione di Cesare Pavese).
1984 di George Orwell: del libro di Orwell si è già detto tutto: credo che, giustamente, sia uno dei romanzi più commentati e citati del Novecento. Ne abbiamo ampiamente discusso proprio ieri sera all’interno del Club del Libro, l’incontro mensile che facciamo online con gli abbonati più fedeli, e il fatto che ne abbiamo parlato ininterrottamente per due ore filate è una ulteriore prova del fatto che di temi e di suggestioni, lì dentro, ce ne sono a bizzeffe. Solo per citare gli appunti che ho preso durante la discussione, si potrebbe discutere dei riferimenti a Stalin (tanti, troppi), a Marx e a Nietzsche, di condizionamento e capitalismo, di sessualità e religione, di senso della storia e della memoria, di volontà di potenza e totalitarismo che nasce dall’uomo, di riduzione del linguaggio e perfino di Harry Potter. Ma forse il tema che personalmente mi ha interessato di più si può riassumere, credo, in un’unica incisiva citazione di Orwell. Questa (a parlare è O’Brien, e non ci sono spoiler): «Noi non siamo così, noi sappiamo che nessuno si impadronisce del potere con l'intenzione di cederlo successivamente. Il potere è un fine, non un mezzo. Non si instaura una dittatura al fine di salvaguardare una rivoluzione: si fa la rivoluzione proprio per instaurare la dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione, il fine della tortura è la tortura, il fine del potere è il potere. Adesso cominci a capirmi?» Inquietante? Forse sì. Il libro comunque prima o poi è da leggere. Se non l’avete ancora fatto, lo potete trovare qui.
Le sette morti di Evelyn Hardcastle di Stuart Turton: in mezzo a tanti libri importanti ci deve essere sempre anche un best-seller, un libro di cui hanno parlato in tanti che magari risulta anche un po’ più leggero della media. Questa settimana questo compito viene assolto da Le sette morti di Evelyn Hardcastle, romanzo giallo di cui vi ho da poco cominciato a parlare e che, come ricorderete, mi è stato suggerito da un mio studente. L’inizio – perché ho letto finora poche decine di pagine – è piuttosto caotico: un uomo, che non sa chi è, assiste a un omicidio di non si sa chi, in un luogo che non conosce. Misterioso? Abbastanza. Ma in effetti credo che il mistero qui non sia solo quello di un semplice e canonico giallo, quanto piuttosto di un qualche fenomeno paranormale (anche se è presto per capire per bene come le cose si dipaneranno). Il libro per ora è leggero, si lascia leggere: vedremo, andando avanti, se sarà solo un puro divertissement, o se invece ci regalerà anche qualche tema un po’ più alto. Se vi interessa, è acquistabile qui.
Quello che ho visto
E passiamo ora anche ai film e alle serie TV. Come vedrete, c’è molta roba horror e post-apocalittica in lista, ma più che altro per caso.
Bodies, episodi 1.02-1.03 (2023), di Paul Tomalin, con Jacob Fortune-Lloyd, Shira Haas, Amaka Okafor: vi avevo iniziato a parlare di Bodies, nuova serie di Netflix, la settimana scorsa, affermando che sembrava fortemente ispirata a Dark. Dopo averne visti altri due episodi mi sento assolutamente di confermare quella prima impressione: al centro della trama ci sono infatti dei paradossi temporali, dei viaggi nel tempo e altri elementi che abbiamo già visto in quella serie tedesca di qualche anno fa. Con la differenza che magari il primo show a usare un certo schema è di solito un capolavoro o quasi, mentre il secondo è un’imitazione: e in effetti a me pare che Bodies sia più debole sotto diversi punti di vista del suo corrispettivo teutonico. Il mistero della trama, per fare qualche esempio, mi pare sia già abbastanza prevedibile; gli attori non mi paiono, tranne forse un paio di eccezioni, particolarmente nella parte o convincenti; anche il dipanarsi della trama mi sembra un po’ troppo “standard”, con gli sceneggiatori interessati soprattutto a piazzare il colpo di scena o la scena di sesso al momento giusto, secondo il classico “copione Netflix”. Per carità, la serie si lascia guardare e sei anche tutto sommato sospinto a vedere come va a finire, ma siamo distanti, mi sembra, da un risultato veramente convincente. La trovate, come anticipato, su Netflix.
Friends episodi 4.22-4.23-4.24 (1998), di Marta Kauffman e David Crane, con Jennifer Aniston, Matt LeBlanc, Matthew Perry: devo dire la verità: io Friends la guardo sempre, non solo questa settimana. Credo di aver visto tutte le puntate almeno 4 o 5 volte, perché, semplicemente, quando a cena non si sa cosa metter su, da anni nella mia famiglia si fa partire un episodio della serie. Così abbiamo fatto il giro – dalla stagione 1 alla stagione 10 – già diverse volte, anche se a dirla tutta l’unico dei figli che ricorda molto bene tutte le trame è solo il più grande, mentre già la secondogenita ha ogni tanto dei buchi («Come fai a non sapere come va a finire il matrimonio di Ross a Londra?! Riguardiamolo!»). A questa nostra tendenza tradizionale, poi, si è aggiunto nelle ultime settimane il lutto per la morte di Matthew Perry: se nei primi giorni dopo la notizia non abbiamo avuto il coraggio di vedere alcunché, da qualche giorno a questa parte abbiamo ripreso, con solo una nota di tristezza in più quando lo vediamo intervenire, nello show, con le sue battute sarcastiche. Comunque, tra i tanti episodi visti, questa volta mi vorrei soffermare sulle tre puntate finali della quarta stagione, quelle che appunto conducono i ragazzi (tranne Phoebe) a spostarsi a Londra per la celebrazione del matrimonio di Ross con Emily, la fidanzata inglese. Non vi rivelerò il finale di quelle puntate, anche se è uno dei più celebri di tutta la serie e quindi probabilmente lo conoscete già; piuttosto, col senno di poi devo confessare che queste a mio avviso non sono tra le puntate migliori dello show, che anzi proprio da questo momento in poi secondo me cominciò a perdere un po’ del suo mordente. Il bello di Friends è che anche nei suoi periodi peggiori non andò mai al di sotto di un certo livello, e anche qui lo si vede: pur in una sequela di puntate dalle trame un po’ obbligate, qualche buona battuta e qualche buona gag gli sceneggiatori riuscivano comunque a tirarla fuori. Ma allo stesso tempo bisogna a mio avviso anche ammettere che la terza e l’inizio della quarta stagione ci presentarono il miglior Friends di sempre: la maturazione dei personaggi lì raggiunse il suo apice e le battute più memorabili lì vennero pronunciate. Dalla fine della quarta stagione in poi, però, lo show divenne bello certo per qualche invenzione geniale ogni tanto, ma anche e soprattutto perché ormai volevi bene ai suoi protagonisti, e li avresti seguiti dovunque andassero, anche in certi vicoli ciechi narrativi o in qualche battuta non del tutto riuscita. Tutta la serie, se volete rivederla, la trovate su Netflix.
Benvenuti a Zombieland (2009), di Ruben Fleischer, con Jesse Eisenberg, Woody Harrelson, Emma Stone: quando si sta per passare la classica serata in famiglia, bisogna vedere un film leggero, simpatico, divertente; e quando però i figli cominciano a crescere, i classici film disneyani non possono in questo senso più bastare, soprattutto perché si inizia a sentire l’esigenza di qualcosa di più cattivo e graffiante. Così l’altra sera, sulla spinta proprio dei figli più piccoli, abbiamo deciso di vedere Benvenuti a Zombieland, film che io avevo visto, con un certo divertimento, diversi anni fa, ma che appunto i piccoli di casa non avevano ancora avuto l’occasione di guardare. Si tratta di un horror grottesco: in un mondo dilaniato da un virus che ha trasformato quasi tutta l’umanità in zombie, a salvarsi dal contagio sono solo alcuni sparuti personaggi. Il protagonista è Columbus (così chiamato dal nome della città verso cui si sta dirigendo), una sorta di nerd impacciato e con ben poco coraggio, che però finora è sempre riuscito a sopravvivere grazie all’applicazione di alcune semplici regole anti-zombie. Accanto a lui si pone quasi subito Tallahassee, uomo più maturo e decisamente più violento, appassionato di armi, coltelli, piccozze, cesoie e altro ancora. Ai due infine si aggiungono, non senza problemi, anche due ragazze, quasi a formare una strana e composita famiglia di sopravvissuti. Il film è molto divertente e a tratti anche un po’ spaventoso, come si conviene ad un buon horror; ma è anche ben diretto, ben recitato e pieno di humour nero. Se siete amanti del genere, direi che è assai consigliato: lo trovate sia su Netflix che su Prime Video, dove è presente tra l’altro anche il sequel (che devo ancora vedere).
Quello che ho pensato
Oggi vorrei provare a fare un discorso difficile, sperando che mi venga bene, e che riesca a esprimere esattamente quello che vorrei esprimere. Lo dico subito: non è facile farlo, soprattutto ora. Ma confido nel fatto che gli abbonati a questa newsletter siano un po’ sopra la media, disponibili al confronto e alla riflessione anche quando questa non risponde del tutto al proprio pensiero.
Faccio questa premessa, forse inutile, perché l’argomento è scabroso. Lo si può riassumere così: si può criticare Israele senza per questo incappare nell’accusa di antisemitismo?
La cosa la si potrebbe, volendo, anche girare, e porre in altro modo: si può criticare i palestinesi, senza per questo incappare nell’accusa di razzismo? Ma, devo dire la verità, mi pare che al momento in Italia si tiri più spesso fuori la carta dell’antisemitismo, e quindi per il momento vale la pena di soffermarsi su quella.
La domanda – la ripeto: si può criticare Israele senza per questo incappare nell’accusa di antisemitismo? – ha una risposta facile e scontatissima: certo che sì. Criticare una Stato non vuol dire criticare (né tantomeno odiare) la popolazione che quello stato lo abita. Tanto più che la popolazione di Israele non è tutta ebrea, e che ci sono milioni di ebrei nel mondo che non sono israeliani.
E in ogni caso: non dovrebbe esistere nessuna automatica coincidenza tra le decisioni di un governo e la popolazione che sottostà a quel governo. Così come non è logico odiare i russi per le decisioni a volte odiose di Putin, così come non è logico odiare gli italiani degli anni '30 per i crimini di guerra in Etiopia commessi su ordine di Mussolini dall’esercito italiano. Anche perché “odio” è una parola che dovremmo imparare a usare sempre meno; e in ogni caso la critica va rivolta a chi quel governo lo vota, a chi lo appoggia, a chi ne permette l’esistenza, non a chi invece magari in cuor suo lo avversa e lo combatte.
Nell’Italia degli anni '30, per restare nella nostra similitudine, c’erano anche antifascisti; e c’erano contadini impotenti e disinteressati alla politica, c’erano donne che non avevano nemmeno il diritto di voto e altre categorie a cui sarebbe assurdo ascrivere la responsabilità di ciò che fece Mussolini. Il che non vuol dire, ovviamente, che Mussolini agì da solo: ma che ognuno è responsabile di ciò che fa, e non di ciò che fa il suo concittadino, il suo compatriota, suo cugino.
Fin qui, le banalità. Ma il caso di Israele è particolare, si dirà: e lo si dirà a ragione. Israele non è uno stato come gli altri, essenzialmente per due motivi: primo, perché è nato in seguito all’Olocausto, e per di più in modo controverso; secondo, perché si tende – dappertutto, in Italia come in America, in Iran come in Cina – a creare un parallelo tra quello Stato e la popolazione ebraica, che probabilmente, nella storia, è stata la più odiata di sempre per questioni etniche.
È difficile trovare, infatti, un altro popolo che abbia attirato su di sé, suo malgrado, tanto odio (anche di noi europei) come quello ebraico. Essere ebreo oggi, in qualsiasi parte del mondo, è comunque motivo di derisione e sospetto nel migliore dei casi, e nel peggiore di casi di odio neppure troppo celato e di violenza.
Essere ebrei (che si abbia o no la cittadinanza israeliana) non è come essere italiani, tedeschi o francesi. Nessuno minaccia di morte gli italiani per la loro appartenenza etnica, perfino nel caso in cui quell’appartenenza loro l’abbiano rinnegata; gli ebrei invece sono periodicamente vittime di attacchi.
Pertanto, criticare Israele non è come criticare un qualsiasi altro stato al mondo: dietro alla libertà d’opinione e di dissenso, infatti, può facilmente nascondersi la leva di un subdolo antisemitismo, che non si può magari sfogare in modo esplicito ma che può comunque provare a farsi strada tramite altre vie più traverse. Questo è vero, accade: dietro al paravento della critica al sionismo e alla politica di Israele si nasconde, a volte, un disprezzo per gli ebrei in quanto tali.
E però, è anche vero che non è sempre così. In questi giorni, qua e là, si sono sentite voci anche di ebrei critici verso il loro governo o il loro paese: un paese che magari amano, ma di cui non apprezzano le scelte di questi ultimi giorni. E penso che queste voci siano importanti: al di là di come la si pensi sulla guerra a Gaza, infatti, abbiamo bisogno di gente che ci insegni che le faccende sono complesse, che si può essere ebrei e non approvare tutto quello che fa lo stato di Israele, come di gente che sia palestinese e condanni Hamas. Abbiamo bisogno di persone che ci aiutino a non vedere il mondo solo come bianco o come nero, ma ci presentino le diverse sfaccettature del pensiero plurale.
Perché dico questo? Essenzialmente per due notizie che secondo me sono interessanti, ma rischiano di essere passate sotto silenzio. Sicuramente tutti avrete letto, nei giorni scorsi, della polemica riguardo alla partecipazione del fumettista Zerocalcare al Lucca Comics; ma può darsi che, ormai stufi di quella polemica già stantia, non abbiate letto la risposta dell’artista di un paio di giorni fa: e questa è la prima notizia. La seconda, invece, è quella dei manifesti sugli israeliani rapiti.
Raccontiamole e commentiamole un attimo, queste notizie. Partiamo da Zerocalcare, facendo anche un breve riassunto di quello che è successo, per chi era distratto. Zerocalcare – al secolo Michele Rech – è un disegnatore e fumettista romano che non ha mai nascosto le sue posizioni di sinistra anche radicale e la sua attenzione nei confronti di popolazioni oppresse e dimenticate: negli anni si è occupato ad esempio spesso, anche coi suoi fumetti, dei curdi e della loro lotta contro l’ISIS. Non può quindi essere certo accusato di essere a favore dell’islamismo, giusto per essere chiari.
Ebbene, Zerocalcare nei giorni scorsi ha rinunciato alla sua già annunciata presenza a Lucca presentando – con toni molto miti, a dirla tutta – la sua difficoltà, visto che a patrocinare l’evento c’è tra gli altri anche lo Stato di Israele (tramite la sua Ambasciata italiana). Il patrocinio è stato concesso tempo fa, e molti non se ne erano neppure accorti; ma Zerocalcare, che sostiene da tempo la causa palestinese, ha ritenuto inopportuno essere là mentre Gaza viene assediata.
Apriti cielo: sull’artista romano sono piovute accuse di antisemitismo a valanga. Lui si è difeso, come fa sempre, con qualche tavola a fumetti che vi consiglio di leggere qui.
Ora, sulla questione si è scritto tutto e il contrario di tutto, ma in pochissimi casi ho letto le parole giuste per affrontare la questione. Che non è se Zerocalcare abbia ragione o torto, abbia fatto bene o male; la questione è un’altra: si può esprimere un’opinione, si può prendere posizione senza necessariamente essere accusati di antisemitismo? Il caso di Zerocalcare dimostra che oggi no, non si può; o quantomeno che salterà di sicuro fuori qualcuno di importante a dire che tu ce l’hai con gli ebrei, che sei razzista e antisemita.
Personalmente, se fossi stato nei panni di Zerocalcare credo che non avrei rinunciato alla partecipazione a Lucca, anche solo perché così facendo ha finito per dare una caratura politica a un evento che di per sé quella caratura non ce l’aveva; ma una cosa è criticare il fumettista per una scelta opinabile, altra cosa è tirare in ballo la carta dell’antisemitismo.
Siamo davanti, infatti, a una palese uso dello straw man argument (se non sapete cos’è, l’ho spiegato qui): Zerocalcare non ha mai avuto intenzione di giustificare Hamas o di attaccare gli ebrei in quanto ebrei – e su questo mi pare estremamente sincero –; ha criticato Israele e la sua politica in questa guerra, in questo momento. Eppure gli si imputa di volere la morte dei bambini, di voler scatenare l’odio contro gli ebrei e ogni altra nefandezza possibile.
Prima dicevo: Israele è uno stato particolare, e proprio per questo criticarlo non è facile. Ma è davvero impossibile? Poniamoci questa domanda. Perché non riguarda solo Zerocalcare: qualche giorno fa Amnesty International ha annunciato anch’essa di non voler più partecipare al Lucca Comics per gli stessi motivi di Zerocalcare, e subito Matteo Salvini l’ha accusata di razzismo.
Quando ho letto la notizia mi son detto: ma perché “razzismo”? Ci ho messo un attimo a capire che evidentemente per Salvini ogni manifestazione di dissenso contro Israele è automaticamente una manifestazione di odio verso un gruppo etnico, quello ebraico. Per Salvini, quindi e di nuovo, non si può criticare Israele senza essere antisemiti: e visto che Salvini è un ministro, questa potrebbe essere anche presa per la posizione del governo italiano.
Passiamo alla seconda notizia, per complicarci ulteriormente le cose. Ho letto un paio di giorni fa (qui l’articolo completo) la notizia dei manifesti sugli israeliani rapiti che sono stati preparati e attaccati in giro per gli Stati Uniti e in diverse città europee ed extraeuropee.
In pratica, due artisti israeliani che si trovano a New York hanno avuto l’idea di realizzare dei manifesti simili a quelli che si fanno quando qualcuno viene rapito e si chiede agli abitanti del quartiere di fornire informazioni utili, ad esempio quando l’hanno visto l’ultima volta. Per questo, solitamente in quei manifesti si riportano la foto della vittima e qualche informazione.
Ovviamente, nel caso delle vittime di Hamas il manifesto ha un altro scopo: a New York nessuno può infatti fornire informazioni utili al ritrovamento dei rapiti che si trovano a Gaza. Piuttosto, il manifesto aveva lo scopo di sensibilizzare gli americani (e poi gli europei, gli australiani eccetera) sulla situazione degli ostaggi detenuti dall’organizzazione terroristica di Hamas.
Come giudicare quest’iniziativa? A me, a primo impatto, è sembrato che ci fosse qualcosa di sbagliato, in tutta l’operazione. Non tanto per Hamas, i palestinesi o gli israeliani, ma proprio perché fin da subito mi è sembrata un’iniziativa soprattutto di cattivo gusto: c’è gente che soffre, e tu ne prendi l’immagine e la vai a distribuire in strada dall’altra parte del mondo, per sostenere non si sa bene cosa e non si sa bene chi. Fossi stato un parente delle vittime, mi sarei sentito forse un po’ sfruttato dai due designer, anche se loro dicono di aver chiesto il permesso a tutte le famiglie coinvolte.
Ma al di là del cattivo gusto, appena i due artisti hanno cominciato ad attaccare e distribuire i volantini sono sorti problemi. Come raccontano anche nell’articolo, le reazioni sono state in genere due: da un lato, i manifesti sono stati strappati dai sostenitori della causa palestinese, perché visti come un incitamento – o una giustificazione – alla vendetta contro la Striscia di Gaza; dall’altro, c’è stato chi è andato ad attaccare quei volantini davanti a locali palestinesi a New York, come ad indicarli – loro, palestinesi newyorkesi che probabilmente non sanno quasi nulla di Hamas – come responsabili del misfatto.
Come vedete, tutto è propaganda, in questo momento; non perché necessariamente nasca come un atto di propaganda, ma perché viene rapidamente trasformato in questo. Stanno vincendo quelli che la buttano “in caciara”, che vogliono rendere la questione una questione da bianco o nero, da buoni contro cattivi, da santi contro peccatori. E che lo fanno per un preciso progetto politico, che non è tanto – o solo – far vincere la propria parte, quanto piuttosto poter continuare a semplificare le questioni, o farci stancare delle questioni complesse.
Ho aperto questa newsletter chiedendomi e chiedendovi se abbiamo ancora voglia di pensare. Potevo porre la domanda anche così: abbiamo ancora voglia di fare distinzioni, di prendere posizioni controverse, di spezzettare le questioni, di dire molti “ma”, molti “anche”, molti “forse” e molti “non so”? Di criticare uno stato senza per forza incappare nell’accusa di antisemitismo?
A voler essere onesti, la questione della Striscia di Gaza ci imporrebbe un linguaggio cauto, un’analisi minuziosa, un difficile equilibrismo. Perché si può e si deve giustamente dire che l’attacco di Hamas è stato orribile, esecrabile, un crimine contro l’umanità che ricordava i peggiori crimini nazisti; ma allo stesso tempo si può e si deve dire che i bambini non devono morire per le colpe dei loro padri o compatrioti, e che è un crimine di guerra anche il massacro di civili. Perché si può e si deve dire che Israele è uno stato che ha diritto a esistere senza essere continuamente minacciato e attaccato; ma si può e si deve dire che una soluzione per la questione palestinese non può prescindere dalla nascita di uno stato vero dei palestinesi, libero e autonomo.
Perfino Blinken, il segretario di stato americano, lo sa, e da giorni sta incontrando tutti i leader arabi per cercare di portare avanti il compromesso di una Striscia di Gaza autonoma e in mano all’Autorità Nazionale Palestinese, a Fatah; solo in Italia amiamo essere più estremisti degli estremisti veri, e invochiamo la scomparsa dell’uno o dell’altro popolo, senza alcun ritegno.
Insomma, il nostro – intendo quello italiano, dell’opinione pubblica – è proprio un brutto modo di affrontare le questioni: quasi sempre superficiale, viziato da infinite fallacie argomentative, che si compiace delle proprie posizioni apodittiche, preconcette, e che non vuole mai fare lo sforzo di andare oltre ad esse.
La storia e la filosofia, invece, sono altre cose ed insegnano altre cose, se le si sa ascoltare.
Quello che ho registrato e pubblicato
Diamo ora un’occhiata a quello che è uscito questa settimana:
Tutti i sofisti in un’ora di lezione: Protagora, Gorgia e i sofisti minori condensati in un grande riassunto del loro pensiero
Neoscetticismo e complottismo: un nuovo capitolo della mia personale (anti)-filosofia, su un tema per la verità controverso
Etica dell’intelligenza artificiale: cosa ha elaborato la filosofia negli ultimi anni sul piano etico riguardo alle novità dell’informatica?
L’esistenza di Dio per Cartesio (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Gli Stati Uniti dopo la Guerra di Secessione (per il podcast “Dentro alla storia”)
Il rapido sviluppo del Giappone (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
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Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Pensieri di Marco Aurelio: noti anche come Colloqui con se stesso, Meditazioni o altri titoli ancora, i Pensieri dell’imperatore Marco Aurelio costituiscono un punto focale dello stoicismo romano. Tramite essi, in maniera semplice ma incisiva, si può scoprire la personalità di uno degli uomini più importanti e più grandi del mondo antico, ma anche un diverso modo di intendere la filosofia, non tanto come conoscenza del mondo quanto piuttosto come conoscenza (e dominio) di sé. Il volume costa, nella bella edizione che vi propongo io, poco più di 10 euro, ma sono soldi ben spesi. Lo trovate qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
E chiudiamo, infine, come sempre, con l’elenco di quello che dovreste poter trovare sul canale nei prossimi giorni (tempo permettendo, perché è settimana di consigli di classe e impegni vari). Nell’ordine:
domani, dopo una lunga pausa, dovrebbe arrivare un nuovo video per proseguire con la lettura integrale e commentata del Saggio sulla libertà di John Stuart Mill;
mercoledì poi sarà la volta di un video su Sant’Agostino: non abbiamo ancora parlato, infatti, de La città di Dio;
giovedì e venerdì arriveranno poi i podcast, con rispettivamente Cartesio e l’Imperialismo;
sabato se tutto va bene torneremo a parlare di consumi;
domenica dovrebbe poi arrivare un video storico dedicato alle prime civiltà;
lunedì, infine, forse un video sulla filosofia di Francis Ford Coppola.
E questo è tutto. Ci rivediamo tra una settimana esatta, puntuali, sempre qui: non mancate!
Ho scoperto un sito meraviglioso che permette di scaricare e leggere tutti i libri che vogliamo.
Si chiama anna s archive.org . Lei che pubblica una newsletter nella quale commenta molti
libri trovera' utile , spero , il suggerimento . In attesa che la legge le permetta di scaricare dalle tasse la spesa per l aquisto di libri .