Parliamo di ragazzi, filosofia e potere, ma anche di cucine da incubo, dune interstellari, neoliberismo e ipermercati, libero arbitrio e condizione della donna
Quando ho dato avvio a questa newsletter, ormai più di un anno fa, non mi aspettavo granché. Pensavo l’avrebbero seguita solo pochi aficionados, nell’ordine sì e no di una trentina di persone, e sarebbe rimasta uno spazio piccolo in cui fare il punto della settimana appena trascorsa. Fin da subito, però, è diventata qualcosa di molto di più.
In primo luogo, gli aficionados, se così vogliamo chiamarli, si sono dimostrati ben più numerosi del previsto, e continuano ad aumentare di settimana in settimana (cosa che mi sorprende ulteriormente, perché pensavo ci sarebbe stata una fiammata iniziale e poi un assestamento). Ma è anche la newsletter in sé e per sé ad essere cresciuta: questa attenzione mi sta portando, di settimana in settimana, a scrivere testi sempre più corposi e in un certo senso impegnativi. Se all’inizio potevo un po’ improvvisare, adesso mi trovo a abbozzare, integrare, rivedere e aggiustare più volte il testo durante la settimana. Il che non vuol dire che non possano scapparmi delle sviste anche clamorose; ma di certo ci metto parecchio slancio.
D’altra parte, molti di voi mi scrivono durante la settimana per commentare il testo della riflessione o la recensione di qualche libro o film di cui ho parlato, e quindi mi pare che ne valga abbondantemente la pena.
Insomma, il progetto è cresciuto parecchio, ma devo dire anche che va bene così. Come tutti i progetti, magari nascono con una finalità, con un obiettivo, ma poi cominciano a vivere di vita propria, prendendo il sopravvento sull’ideatore, che si trova a scrivere più di quello che avrebbe voluto, ad essere letto da più di quanti avrebbe creduto.
Insomma, tutto questo per darvi il benvenuto alla solita summa di questa settimana all’insegna della storia, della filosofia, dei libri, dei film, dei video e dei podcast. Cominciamo. Anzi, andiamo a cominciare.
Quello che ho letto
Partiamo come sempre dai libri. Come vedrete, in elenco ci sono volumi di cui vi ho già parlato varie volte in queste settimane, a cui però si va ad aggiungere un titolo nuovo.
A ognuno quel che si merita di Daniel Dennett e Gregg Caruso: di questo saggio, scritto a quattro mani da due filosofi americani, vi ho già in parte parlato. Il tema è il libero arbitrio, o meglio una sua declinazione specifica: se sia lecito attribuire meriti e colpe alle persone sulla base delle loro azioni. Caruso – che è uno specialista nella questione visto che in carriera ha scritto quasi solo di questo argomento – è uno scettico: ritiene cioè che ogni nostra azione sia causata necessariamente da una serie di concause che non sono in nostro pieno potere (la nostra condizione sociale, l’educazione che abbiamo ricevuto, i geni e l’intelligenza di cui siamo dotati eccetera); pertanto, secondo lui non è possibile prevedere lodi o biasimo per le persone, perché le azioni che compiamo non sono merito o colpa nostra. La conseguenza di quest’impostazione è che secondo Caruso bisognerebbe riformare profondamente l’apparato giudiziario americano, che manda in prigione quasi sempre persone svantaggiate che, per via della loro condizione, difficilmente avrebbero potuto agire in maniera diversa; e per riformarlo, bisognerebbe agire a priori sulle vere cause delle cattive azioni, quindi sull’educazione, sulle condizioni di vita e così via. Dennett – filosofo molto più famoso, che però in carriera si è occupato di una miriade di temi e quindi è meno specializzato sulla questione – ha invece una posizione diversa: pur ammettendo che il sistema giudiziario e punitivo americano sia deleterio e necessiti di una pesante riforma, lui ritiene che in realtà i fattori sociali, genetici e ambientali non spieghino ogni nostra azione. Rimane, infatti, per lui anche uno spiraglio per il libero arbitrio: nonostante tutti i condizionamenti, ogni uomo ha una parte di scelta e deve essere ritenuto responsabile di quella scelta; anche (ma non solo) perché, se così non fosse, tutta la nostra società crollerebbe, perché nessuno proverebbe ad essere migliore di come è. Devo dire che all’inizio del libro simpatizzavo di più per la posizione di Caruso: nel corso degli anni ho maturato molti dubbi riguardo al tema del libero arbitrio e, pur non arrivando a negarlo, un po’ alla volta sono stato sempre più portato a ridimensionarne il ruolo. Più vado avanti nella lettura del volume, però, più mi convincono le idee pragmatiche di Dennett: il filosofo si muove su un campo in cui parte un po’ in svantaggio (Caruso può vantare più citazioni, per dirne una, perché evidentemente ha studiato più a fondo l’argomento), ma ciononostante mi sembra che la sua posizione – anche se non imbrigliata negli -ismi che gli americani sono soliti inventare – sia quella più ragionevole per tutta una serie di motivi. Comunque il libro non l’ho ancora finito, sono circa ai due terzi, quindi ve ne parlerò ancora. Lo trovate qui.
Psicopolitica di Byung-Chul Han: la realizzazione del video su Foucault, di qualche giorno fa, mi ha spinto – anche grazie alla discussione con alcuni di voi – a una nuova attenzione verso i temi della politica e del potere. È un argomento su cui torno spesso, a ondate, come un interesse intermittente che ogni tanto si risveglia. E, appunto, quando si risveglia ha bisogno di essere alimentato con la lettura di qualche libro interessante. In questi giorni mi sono quindi lanciato su Psicopolitica, uno dei testi più celebri e tutto sommato recenti di Byung-Chul Han, importante filosofo coreano che però da molti anni vive e insegna in Germania (tanto che ormai credo scriva anche in tedesco come prima lingua). Il volume – piccolo ma intenso – si rivela fin dalle prime pagine come estremamente interessante: Han intende infatti analizzare la nostra società contemporanea tramite la lente della biopolitica teorizzata per la prima volta da Foucault, andando però ben oltre sia Foucault, sia i suoi estimatori. Ne emerge un quadro a tratti davvero interessante, anche se a volte minato, a mio avviso, da un’impostazione di fondo troppo “filosofico-continentale”, se mi passate il termine, o troppo “hegeliana”. Lo so che forse queste parole potrebbero sembrare un po’ criptiche, ma mi riservo di finire il saggio (ormai mi mancano poche pagine) prima di darne un resoconto più ampio. Magari la settimana prossima, anzi, gli stimoli prodotti da questo libro potrebbero essere al centro della rubrica Quello che ho pensato; per il momento ho bisogno di pensarci ancora un po’. Comunque posso già dirvi che il libro non lascia indifferenti e che Han è di sicuro uno dei filosofi più stimolanti presenti oggi sulla piazza a livello globale, quindi vale la pena di provarlo, anche nei casi (come il mio) in cui si condivida le sue idee solo a metà. Lo si può acquistare qui.
Il buon soldato Sc’vèik di Jaroslav Hasek: come forse ricorderete, questo romanzo ha ormai più di cento anni sul groppone, ma non li dimostra. Si tratta di una divertente e stralunata satira di guerra composta dallo scrittore ceco Jaroslav Hasek subito dopo la fine della Prima guerra mondiale, perlopiù con l’intento di deridere l’esercito dell’Impero Austro-Ungarico, di cui lo stesso Hasek, praghese, era ovviamente stato cittadino. Il protagonista del libro è Giuseppe Sc’vèik, un imbecille totale che proprio per via della sua imbecillità finisce per mettersi continuamente nei guai ma, allo stesso tempo, anche per tirarsene fuori, forte del suo viso candido e del fatto che sia talmente scemo che nessuno ha la forza di punirlo come meriterebbe. Al momento sono esattamente a metà di un volume molto corposo, e finora a Sc’vèik ne sono successe di tutti i colori: prima è stato arrestato dalla polizia politica; poi è finito a fare l’attendente di un cappellano militare ubriacone; infine è passato al servizio del tenente Lukáš, un ufficiale sciupafemmine che però lo stesso Sc’vèik finisce per mandare in rovina a causa di un cane rubato. Per ora sono arrivato al punto in cui sia Sc’vèik sia Lukáš stavano facendo il viaggio verso la prima linea, ma il protagonista, per una serie di errori, è finito per scendere dal treno. Ovviamente nuovi problemi si profilano all’orizzonte. Se vi interessa, lo si compra qui.
Quello che ho visto
Non so se sia una mia impressione, ma è sempre più difficile trovare, sulle piattaforme di streaming, film interessanti. Il catalogo dei vecchi titoli è molto contenuto e viene dato invece sempre più spazio alle serie TV, che di sicuro attirano maggiormente l’attenzione, mentre di pellicole nuove ce ne sono tutto sommato poche, per via dei problemi che i cinema hanno vissuto negli ultimi anni col Covid. Comunque questa settimana in lista troverete almeno un film (tra l’altro un filmone) e cercherò di non scendere in futuro al di sotto di questo minimo sindacale, a costo di ripescare tutti i classici.
Superstore, episodi 2.09-2.10-2.11-2.12-2.13-2.14 (2016/17), di Justin Spitzer, con America Ferrera, Ben Feldman, Lauren Ash: Superstore, come ho già avuto modo di scrivere nelle settimane scorse, è un esempio di sitcom d’insieme particolarmente riuscita. Come tutte le sitcom ambientate in un luogo di lavoro, vive soprattutto della dinamica che si viene a creare tra i personaggi, anche se le situazioni che vengono presentate di episodio in episodio tendono inevitabilmente a ripetersi. In questo caso, però, oltre al classico clima globalmente rassicurante (l’ambientazione è sempre la stessa, i personaggi tendono ad essere sempre gli stessi e il tempo sembra non passare), non mancano gli spunti di carattere sociale, presentati in modo leggero ma comunque capaci, in alcuni casi, di colpire lo spettatore. Nella manciata di episodi che ho visto questa settimana segnalo in particolare la satira sul precariato di I lavoratori stagionali, l’ironia sul consumismo perfino agonistico di Il giorno delle prime volte (che in originale è Black Friday), più una puntata sulle molestie sessuali simpatica e intelligente. Insomma, niente di sconvolgente, nulla in grado di cambiare radicalmente la vostra percezione del mondo, ma comunque una serie simpatica che di tanto in tanto riesce anche ad insinuarti qualche dubbio. La trovate su Netflix.
Dune (2021), di Denis Villeneuve, con Timothée Chalamet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac: con colpevole ritardo ho finalmente visto anche Dune, il colossal dell’anno scorso disponibile da qualche tempo anche su Sky. Devo dire fin da principio che generalmente non sono appassionato da questo tipo di libri o di film; per dire, il primo Dune, quello di David Lynch, l’ho visto una vita fa e poi non ho più avuto voglia di rivederlo, ma allo stesso tempo non scalpito per nessuna maxi-saga fantasy/fantascientifica. In genere, le grandi imprese di popoli, mondi in lotta, eroi predestinati e congiure di palazzo mi lasciano alquanto indifferente; mi sembra sempre che non parlino a me, che non parlino di me. Insomma, detta in altri termini, mi pare che – al di là dei grandi eventi, delle grandi lotte, dell’epica – non abbiano molto da comunicarmi. Sarà anche che io l’epica, col suo carico di retorica più o meno mascherata, la amo sempre poco. C Così è inevitabile che Dune ricada almeno in parte in questa categoria e parta svantaggiato, almeno nei miei confronti: a me infatti è sembrato un film epico ma freddo, distante; un film bellissimo dal punto di vista visivo ma incredibilmente lento, tanto che potresti tranquillamente tagliare un terzo delle scene (e forse anche la metà) senza influire minimamente sulla trama. Mi rendo conto che c’è chi ama alla follia questo genere di film e di libri, che si sviluppano lenti e maestosi, e che in effetti le opere di questo tipo possono esibire un certo fascino, ma non fanno più di tanto per me. Il che non vuol dire che Dune sia brutto: Villeneuve è un regista di livello e il cast, stellare, recita benissimo; ma alla fine a me rimane l’impressione che invece di due ore e mezza di film, la storia poteva essere condensata in un’ora e un quarto non perdendoci quasi nulla, e anzi forse addirittura guadagnandoci.
The Bear, episodi 1.02-1.03 (2022), di Christopher Storer, con Jeremy Allen White, Ebon Moss-Bachrach, Abby Elliott: ma quanto bella è, invece, questa serie? Quanto veloce, quanto dinamica, quanto coinvolgente? Lo so, ne stanno parlando un po’ tutti (quindi il mio discorso forse non è particolarmente originale), ma direi che lo stanno facendo a ragion veduta. Di per sé, a leggere la trama o a vedere i nomi degli attori e degli sceneggiatori coinvolti, non ci sarebbe da aspettarsi granché; e invece il risultato è a suo modo maestoso. La storia è quella di Carmy, un giovane chef molto apprezzato e promettente che però ha deciso di lasciare la carriera nei grandi ristoranti per occuparsi della tavola calda di famiglia, ereditata dal fratello morto. Anzi, rimettere in piedi la baracca diventa per lui quasi un atto d’amore nei confronti del parente, nonostante la tavola calda versi in condizioni disastrose sia sul lato finanziario che su quello del personale. La storia, di per sé già piuttosto drammatica e – almeno a raccontarla così – anche apparentemente banale e forse perfino noiosa, in realtà è raccontata con un ritmo straordinario: la regia è agitata, sincopata, nervosa, e segue il lavoro in cucina trasmettendoci la tensione dei personaggi, i loro scatti d’ira e le loro ritorsioni reciproche. C’è anche molto non detto, che emerge un po’ alla volta dai dialoghi o, più spesso, dalle inquadrature, tanto è vero che componiamo la storia del locale e dei protagonisti un po’ alla volta, come se trovassimo i pezzi di un puzzle da ricostruire. In generale, è una serie che non spiega, ma mostra; e che inizia e si sviluppa a metà del guado, non prendendosi la premura di erudirci sul passato, ma aspettando che il passato emerga da solo, al momento giusto, un po’ alla volta. Tutti questi elementi, sommati poi ad interpreti assai convincenti, la rendono una delle cose più belle viste ultimamente. La trovate su Disney+.
Quello che ho pensato
Nelle ultime settimane ho parlato più volte di potere, e non vorrei che ora questa rubrica diventasse monotematica. Però mi trovo in un certo senso costretto a ritornare di nuovo sull'argomento, anche se questa volta in una chiave più umana e, se volete, familiare. La riflessione di oggi, infatti, parte da un piccolo fatto accaduto a uno dei miei figli, a quello che sui social chiamo spesso il “terzopupo” (perché è il terzogenito della famiglia).
Qualche giorno fa il giovane – 10 anni compiuti lo scorso luglio – è tornato a casa da scuola, o meglio dal doposcuola, molto abbattuto. Motivo di quella situazione – strana per un bambino che in realtà di solito è solare – era il fatto che durante la giornata era stato rimproverato per ben due volte, tanto che quando mia moglie era andata a prenderlo gli educatori avevano voluto addirittura conferire con lei per spiegare l’accaduto. La situazione poi in realtà si è rivelata molto meno grave di quel che sembrava sulle prime, ma devo dire anche che d’impatto ci aveva sorpreso enormemente, perché il terzopupo non è mai stato finora soggetto a rimproveri seri visto che di solito, in giro, si comporta piuttosto bene.
Partiamo però dai fatti. Un paio di volte alla settimana il terzo e il quartopupo vanno a mangiare e a fare un po’ di compiti al doposcuola; pertanto prendono lo scuolabus all'uscita dalla scuola elementare e ritornano a quello che è stato il loro vecchio asilo, dove si svolge appunto quest’attività di doposcuola. Lo fanno da anni: Covid a parte, il terzopupo ha fatto così per tutte le elementari.
Questa volta però è andata diversamente da tutte le altre. I guai sono cominciati proprio nel tragitto tra una scuola e l’altra, all'interno dello scuolabus. A quanto ci è stato riferito, nel veicolo quella mattina c'era molta agitazione perché i bambini urlavano e scherzavano; e proprio per questo motivo l'accompagnatrice ad un certo punto ha deciso di redarguire i piccoli, pronunciando una frase di questo tipo: «Volete che vi facciamo scendere qui e la strada fino al doposcuola ve la fate a piedi?» Al che il terzopupo si sarebbe stagliato sulla folla, rispondendo: «Perché no? A me piace camminare». Cosa che avrebbe mandato su tutte le furie l’operatrice.
Poco dopo si sarebbe poi ripetuta una scena simile. Al doposcuola, quando è stata ora di fare i compiti, l’educatore si sarebbe rivolto al terzopupo – che non si era ancora messo al lavoro, perché ogni tanto s’impigrisce o tentenna – dicendogli di iniziare a fare i compiti, e il terzopupo pare aver risposto con un sonoro: «No!» Al che l’educatore avrebbe replicato con un: «Ah sì? Allora vuoi andare giù in punizione?» E il terzopupo: «Va bene, perché no?» E così il terzopupo è finito in punizione.
Insomma, per farla breve, quello che ci è stato riferito è che il terzopupo si è comportato male perché ha risposto indietro agli adulti. Il che è vero, ma non è del tutto vero.
Il terzopupo è in realtà, tra i miei quattro figli, quello tendenzialmente più dolce e più ingenuo. Non solo è dolce, ma porta con sé anche una piccola vena di insicurezza, che lo porta a volte a non saper gestire i rimproveri (forse anche perché, comportandosi di solito bene, ne riceve pochi). Così, da qualche tempo anche in famiglia ha iniziato ad assumere l’atteggiamento di quello che sdrammatizza. Ad esempio, quando gli dico: «E allora, ma non ti sei ancora messo a fare i compiti?», lui risponde: «No, oggi ho deciso che non li faccio». Ma quella frase non la dice perché non vuole fare i compiti o perché mi vuole prendere in giro, la dice per scherzare. Infatti io a quel punto faccio la faccia del tipo «Ah sì?» e lui si mette subito al lavoro.
Allo stesso modo, se la sera sento che in camera loro invece di dormire i due figli più piccoli chiacchierano, non è raro che io entri dicendo: «E allora? È ora di dormire! Guardate che se continuate così vi metto a dormire in divano!» E lui replica, sempre: «Bello! A me piace il divano!» E subito dopo fa il bravo e si appisola. Detta in altri termini: la sua intenzione non è rispondere indietro o contestare l’autorità, ma sdrammatizzare. È come se ti dicesse: «Sì, ti obbedisco, ma non ti arrabbiare con me perché io sono simpatico». O almeno quello è il tentativo.
Chi lo conosce (maestre, allenatori, familiari) sa bene che il tono non è quello dello strafottente ma quello del bambino che in realtà ha paura del rimprovero, e quindi ammicca e passa oltre; chi non lo conosce, però, può credere che questo ragazzino di 10 anni voglia deriderlo e quindi, alla sua replica, si arrabbia. Da qui la bagarre di qualche giorno fa.
Ovviamente poi il terzopupo, come ogni bambino, ha anche le sue colpe: a volte fa lo sciocco, altre volte non capisce quando è il momento di finirla, e assieme ai suoi compagni tende a volte a “imburezzarsi”, come diciamo qui in Veneto (ovvero ad agitarsi ed eccitarsi eccessivamente, facendosi un po’ trascinare). Non per nulla dopo tutta questa vicenda abbiamo rimproverato anche noi il ragazzo, spiegandogli che deve imparare a capire con chi può scherzare e con chi no, come rispettare gli adulti e gli educatori e tutto il resto. Penso che queste sgridate gli siano servite a capire un po’ di più come funziona il mondo.
Ma questo, elevandoci un po’ al di sopra del fatto contingente, porta anche me a pensare un po’ di più a come funziona il mondo. Perché il terzopupo ha sbagliato a non capire chi aveva davanti e come comportarsi di fronte a persone che non lo conoscono, ma mi chiedo anche perché quegli adulti se la siano presa così tanto da andare a sollecitare perfino i genitori per un fatterello onestamente di poco conto. Anche perché a me come insegnante situazioni del genere capitano tutti i giorni, situazioni cioè in cui i ragazzi mettono alla prova la mia autorità e i miei ordini, a volte sul serio, a volte scherzando; e se dovessi chiedere ogni volta un colloquio coi genitori di questi ragazzi, non avrei più vita.
La dinamica, infatti, è abbastanza comune, e mi sembra la si possa cogliere in moltissime situazioni della nostra vita quotidiana: cose del genere accadono come ho detto anche a scuola coi ragazzi più grandi, ma pure nei bar, nelle discussioni tra vicini, su internet. Ovvero: c’è sempre qualcuno che tenta di imporre la propria autorità (a volte perché deve, a volte perché vuole) e deve gestire chi tende a non riconoscere (o a contestare) quell’autorità.
Pensate alla classica situazione in cui un tipo, al bancone del bar, inizia a pontificare sulla politica, sui massimi sistemi o anche molto più banalmente sui lavori in corso nella via. Il suo parlare, di solito, non ha altro scopo se non quello di proporsi come esperto sull’argomento: «Te lo dico io come vanno queste cose» è una frase tipica; oppure «Saprei io come fare quei lavori a regola d’arte». Non è un caso che a volte queste discussioni degenerino in litigi quando arriva un altro avventore che tenta di dimostrarsi più esperto del primo: «Ma che ne sa lei? Glielo spiego io come vanno le cose». E così la discussione diventa una gara a chi è più autorevole, o a chi riesce a farsi percepire come più autorevole.
Se leggete spesso i commenti su internet, vi sarete accorti che anche lì tutto funziona alla stessa identica maniera. Il web abbonda di persone che si prendono la briga di scrivere un commento solo per puntualizzare che loro ne sanno di più di quello che ha scritto il commento precedente, magari per correggergli una svista grammaticale o una virgola. Moltissimi non sanno resistere alla tentazione di cercare di porsi al di sopra degli altri, fosse anche solo per far notare un errore di battitura.
Ebbene, in moltissimi rapporti tra sconosciuti mi pare che entrino in gioco le stesse dinamiche che hanno visto per protagonista il terzopupo: è una gara di autorità, è una lotta per il potere. Ognuno tenta di demarcare il proprio territorio e di vedersi riconosciuta una certa autorità rispetto ad altri; d’altronde questo è forse il più banale esercizio di potere.
Le polemiche personali sono infatti sempre lotte di potere: quando io dico che Tizio non capisce nulla e che io al suo posto farei meglio, sto replicando il comportamento dei gorilla che vogliono diventare capobranco scalzando il gorilla al potere. Cerco di convincere il gruppo che io, al posto di Tizio, sarei un capo (o un esperto) migliore. Ognuno di noi cerca di darsi un tono, di darsi un’autorevolezza, in modo da sentirsi a capo o alla guida di qualcosa: e lo fa ribadendo le proprie qualità e/o i demeriti altrui, oppure impartendo ordini (che devono incutere timore).
Il problema del potere e di conseguenza anche dell’autorità, però, è che non basta volerlo, non basta richiederlo: bisogna che siano gli altri a riconoscertelo. E per ottenere quel riconoscimento bisogna sudare parecchio. Gli animali non possono solo parlare male del capobranco: devono sfidarlo a duello, quasi sempre ad un duello mortale, per essere presi sul serio.
Ricordate Hegel, ricordate la sua dialettica servo-padrone presentata così efficacemente nella Fenomenologia dello Spirito (se volete comprarla, è qui)? Anche lì si parlava di potere, potere che il padrone riusciva ad imporre sul servo proprio perché era disposto a mettere a repentaglio la propria vita pur di dominare. Ecco, volere il potere implica sempre un rischio: quello di rimanere uccisi. Fuor di metafora: che gli altri ridano della tua pretesa e ti lascino con un palmo di naso.
Questo è tanto più vero per un insegnante, che deve muoversi come un funambolo sulla stretta fune dell’autorevolezza. Siamo in un’epoca in cui nessuno gode più di un’autorità a prescindere: come avete visto, perfino le nostre massime figure istituzionali (Mattarella a parte) hanno ormai perso qualsiasi smalto, figuratevi i professori liceali, che vengono in genere sminuiti da tutti. Eppure un professore deve esercitare una qualche forma di autorità e di potere, se non altro perché deve riuscire a far fare ai ragazzi delle cose che i ragazzi stessi altrimenti non farebbero. Deve convincerli a seguirlo, deve esercitare su di loro un potere attrattivo, quantomeno dal punto di vista culturale; e quindi deve vedersi riconosciuta una qualche forma di autorità, o meglio ancora di autorevolezza.
Per questo deve essere disposto a rischiare di morire: deve cioè essere disposto a metterci la faccia e rischiare di vedersi restituita (magari alle spalle, magari sotto al banco) una pernacchia.
Il problema del terzopupo è stato proprio questo: che sembrava prendesse in giro gli ordini, che sembrava pernacchiasse l’autorità proprio nel momento in cui quell’autorità era esposta e priva di difese (anche se continuo a pensare che in realtà stesse solo cercando – maldestramente – di far divertire il maestro, trasformando la rabbia in risata). Ed è per questo che ci arrabbiamo: perché quando diamo un ordine siamo indifesi e ci possono colpire; perché sappiamo che basta un “no” per far saltare tutta la finzione del potere. E pertanto ci mettiamo sulla difensiva, alziamo gli scudi e mandiamo in punizione i ragazzi.
A me pare che la nostra società, ancora così dannatamente testosteronica, piena di frustrazione irrisolta, viva perennemente sulla difensiva anche per questo: è sempre più difficile trovare spazi per la discussione, perché ogni divergenza diventa lotta per il potere, lotta per l’autorità, lotta per vincere uno di quei duelli verbali che ormai sono il sostituto moderno delle lotte tra animali. A pochi interessa discutere per capire; a molti interessa discutere per prevalere. E quando si lotta per il potere è sempre una questione di vita o di morte, e la verità non conta più nulla.
Quello che ho registrato e pubblicato
Come al solito, ecco anche tutto quello che è stato pubblicato – in video o in podcast – questa settimana.
Un videogioco che si chiama filosofia: la novità più importante di questa settimana è stato l’avvio di una nuova serie dedicata ai ragazzi dai 9 ai 13 anni circa
Aristotele detective: la presentazione di un giallo di buon successo con il grande filosofo greco come co-protagonista
Persepolis: film e fumetto: per affrontare la questione femminile in Iran, si può partire anche da questa storia divertente e commovente
Karl Jaspers: verso l’essere: concludiamo il percorso sul filosofo esistenzialista tedesco parlando anche dell’essere
Dall’anima all’etica per San Tommaso (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Il male e le virtù per San Tommaso (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
La Francia verso la repubblica (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono i nuovi abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri e videocorsi che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Il secondo trattato sul governo di John Locke: John Locke è uno di quei filosofi con cui bisogna fare prima o poi i conti, sotto diversi punti di vista. Senza di lui né la gnoseologia né la politica sarebbero state le stesse o sarebbero giunte a noi così come hanno fatto. Questa settimana vi propongo, a tal proposito, uno dei suoi testi fondamentali, quel Secondo trattato in cui presenta la sua visione politica, a partire dallo stato di natura per giungere alla fondazione dello stato e ai diritti dei cittadini. Un testo che è stato alla base della nascita delle società liberali che hanno plasmato l’Europa e il mondo occidentale. Lo si acquista qui.
Scrittura di una storia crime: Domestika, il sito che ospita corsi online di cui parlo spesso, è un portale internazionale e molto spesso i corsi proposti sono registrati in originale in spagnolo o in inglese e solo poi tradotti in italiano. Da qualche tempo però la piattaforma sta investendo anche sull’Italia e da poco è arrivato questo interessante corso tenuto dal giallista italiano Paolo Roversi (che ha pubblicato con Marsilio, Rizzoli e molti altri) su come si scrive una storia gialla. Il corso si compone di 12 lezioni e costa 19,90 euro, acquistabile qui. Consigliato.
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né fare corsi, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Cosa c’è in arrivo
Chiudiamo con una veloce panoramica sui video e sui podcast in lavorazione e destinati ad uscire nei prossimi giorni:
per quanto riguarda la filosofia, arriverà un video su Avicenna, per introdurre la filosofia islamica medievale;
per storia sarà invece la volta di un video sul peso della cultura greca all’interno dell’impero romano;
ci sarà sicuramente una nuova puntata del Book Club per quanto riguarda la lettura commentata de L’autunno del Medioevo;
infine arriverà un video speciale sulla Guerra di Troia e sui suoi fondamenti storici;
per quanto riguarda i podcast, poi, spazio ancora a Tommaso con la dottrina dei trascendentali e alla rivoluzione francese, dove parleremo del Terrore giacobino.
E questo è tutto. Ci rivediamo qui come al solito tra una settimana. Fate i bravi e, se siete a scuola, studiate, perché sono sicuro che stia arrivando il periodo caldo delle verifiche. In bocca al lupo!
Assolutamente d'accordo sulle riflessioni sul potere. Devo dire che mi sono trovato in varie situazioni dove a prevalere era più la questione dell'autorità che dell'autorevolezza. Siamo ancora ben lontani dal prendere atto che, nel tempo delle relazioni, non abbiamo davanti una cosa, ma un'energia, una luce. La tua volontà di potenza è la tua energia con la quale dismetti la tua volontà di potenza. Il bisogno psichico della cosa non è un errore perché è questo bisogno che ci spinge avanti, che crea quei famosi ostacoli e limiti che dicevi l'altra volta; è necessaria la fede di poter pervenire a quella cosa ma è anche necessaria la comprensione della relazione sperimentale con quella cosa e per raggiungerla dobbiamo credere che ogni nostra prospettiva deve valere, ma sempre prospettiva rimane. Sinceramente vedo come, oggi, più che una volontà scettica e di verità, non siamo disposti a dismettere radicalmente ogni pretesa di volere come soggetto, un soggetto che, come ben sappiamo, è pieno di ressentment, che non è in grado di redimere il proprio passato e a non infuturarsi.