Per chi facciamo le cose che facciamo? Ma parliamo anche di Black Mirror, Byung-chul Han, Boezio, Achille Campanile, Welcome to Wrexham, Il cowboy col velo da sposa e Zia Mame
E siamo di nuovo qua, cari amici, appena usciti dall’ennesimo ponte scolastico di quest’ultimo periodo, e però pronti a lanciarci nell’ultima tirata in vista della fine dell’anno scolastico. Se siete studenti e liceali, sapete bene che adesso arriva il momento critico, soprattutto se state frequentando la classe quinta e vedete l’Esame di Stato all’orizzonte.
Io nei giorni scorsi – complice la pausa scolastica – sono riuscito a ricalibrare alcune cose e soprattutto a correggere una marea di compiti scritti che da giorni mi fissavano sulla scrivania. E però, appunto, adesso arriva il bello: altri compiti, mille scartoffie, e poi gli esami, di nuovo, per la quindicesima volta (sì, le ho contate).
Prima di cominciare col nostro solito panorama, lasciate però che vi parli brevemente di qualche appuntamento recente. Intanto devo ringraziare pubblicamente Fulcio Bortot e gli organizzatori della presentazione di martedì scorso a Belluno: sono stati tutti gentilissimi. E, come ho già detto anche altre volte, se avete contatti con una libreria o una sala o un’associazione culturale o qualcosa di simile, fatevi sentire, scrivetemi una mail (a scrip@ermannoferretti.it) e vediamo cosa si può organizzare anche altrove: io mi sposto (quasi) senza problemi, almeno nel centro-nord Italia.
Intanto, per non perdere l’abitudine, questo venerdì (il 9 maggio) alle 18:30 sarà ad Adria a parlare del valore del dubbio. Se passate dal Polo Tecnico della città polesana (in via Aldo Moro 3), fateci un salto.
Senza dimenticare che presto arriveranno altri appuntamenti: il 16 maggio alle 21 sarò al teatro di Frassinelle (RO), il 17 maggio alle 18 alla Gran Guardia di Rovigo (assieme ad altri), il 22 maggio alle 18 alla Libreria Lovat di Trieste e il prossimo 13 giugno a Subiaco, vicino a Roma. E, detto questo, cominciamo.
Quello che ho letto
E partiamo come al solito dai libri.
Vite di uomini illustri di Achille Campanile: come noterete, questa settimana in lista ci sono almeno due libri che potremmo definire disimpegnati, o anche marcatamente divertenti. Non lo nascondo: in realtà ho sempre avuto un certo debole per la letteratura ironica, se non addirittura comica. E, anzi, mi sono sempre stupito di quanto poco spazio abbia questo genere nei cataloghi delle diverse case editrici. Capisco bene che un libro comico, di solito, non è paragonabile ai grandi capolavori della letteratura, a Tolstoj e Dostoevskij, ma ciò non toglie che si possano scrivere buoni libri - se non addirittura ottimi – che puntano proprio a far ridere. Vite di uomini illustri di Campanile, devo dire, riesce abbastanza nell’intento, ed è un buon esempio da portare a favore di questo genere letterario: all’interno del volume si trovano infatti brevi biografie scherzose di grandi personaggi del passato. Non tutte sono allo stesso livello, perché a volte l’umorismo è più sagace e altre volte un po’ più spento, ma in ogni caso mi pare che l’esperimento riesca bene. Se vi interessa, lo potete acquistare qui.
La società della stanchezza di Byung-chul Han: ho finalmente finito di leggere La società della stanchezza di Byung-chul Han e, come ho detto già altre volte, vi ho scorto tutte le qualità e, allo stesso tempo, tutti i difetti che trovo nel filosofo tedesco-coreano. Partiamo dai pregi. Sicuramente il libro è interessante e intrigante: scava a fondo in alcuni dei più gravi problemi del nostro tempo e lo fa con un certo acume, cogliendo i tratti essenziali – o almeno alcuni dei tratti essenziali – del malessere così diffuso nella nostra epoca. Anzi, devo dire che è probabilmente raro trovare un saggio da questo punto di vista così incisivo, cioè che nel giro di poche pagine riesce ad aprirti gli occhi su dinamiche complesse. Allo stesso tempo, però, non posso non rimarcare anche alcuni difetti che mi hanno particolarmente indispettito. Non si tratta di difetti legati all'analisi che Han porta avanti, quanto piuttosto all’impostazione generale del suo procedere, al suo modo di intendere, cioè, la filosofia. Se volessi essere tranchant, direi che il problema è che Han è troppo hegeliano, o forse dovrei dire troppo idealista, o forse ancora troppo “filosofo” nella maniera europea del termine. Cerco di spiegarmi meglio. Il lavoro di Han si concentra su tutti quei problemi psicologici che sembrano tipici della nostra epoca: l’ansia, la depressione, lo stress e via discorrendo. La cosa che balza subito agli occhi, almeno a chi come me ha un po’ di formazione scientifica, è però che in tutti i suoi discorsi non c’è la minima traccia di un dato, di una statistica, di un’analisi basata su rilievi empirici e misurabili. Basti questo: parla per tutto il libro di ansia e depressione, ma non cita neppure un solo studio condotto da medici, psicologi o psicoanalisti sul tema. Potrei quasi dire, anzi, che il suo è un procedere basato solamente sull’autorità della propria parola, quasi fosse un vate che dispensa verità a cui siamo chiamati a credere così, d’istinto, solo per la forza del suo discorso. Sappiamo tutti che viviamo in un’epoca in cui la depressione pesa parecchio, ma quanto pesi, nel testo di Han, non lo si capisce; sappiamo tutti che oggi sembra emergere un modo diverso di percepire il malessere psicologico rispetto a cinquanta, cento o duecento anni fa, ma quali siano queste differenze, elaborate in modo accurato e approfondito, non è dato saperlo. Detta in altri termini: Han non porta alcuna ricerca a supporto delle sue impressioni, nessun dato empirico, nessuna analisi concreta sul campo. Ci racconta le sue impressioni, e sono impressioni anche interessanti, certo: ma un altro filosofo potrebbe avere impressioni molto diverse, e per quali motivi dovremmo allora dare ragione ad Han e non all’altro? Perché dovremmo credere alle sue analisi, visto che partono da suggestioni e non da rilevazioni? Da questo punto di vista, il discorso di Han può essere affascinante quanto si vuole, ma non è troppo differente da quello che può fare qualsiasi avventore in un bar: anche quest’ultimo, infatti, parla per sentito dire, analizza le impressioni che ricava dal mondo che lo circonda e le commenta, senza fare analisi più approfondite, senza studiare, senza effettuare rilievi. L’unica differenza tra l’avventore del bar e Han è che quest’ultimo ha evidentemente un quoziente intellettivo più alto, scrive meglio e riesce a citare altri filosofi che, come lui, descrivono i fenomeni senza indagarli. Ma dal punto di vista metodologico, tra l’avventore del bar e il filosofo coreano non c’è poi chissà quale grande differenza. Questo, ovviamente, non vuol dire di per sé che le analisi di Han siano sbagliate, ma semplicemente che non fornisce gli strumenti per poterle sottoporre a critica. Capite infatti bene che, se un autore non riporta dati, non dice quanto sia aumentato il disagio psicologico, né da cosa dipenda, con analisi alla mano, diventa assai difficile dire se abbia torto o ragione, se ci abbia visto giusto o abbia esagerato. Il suo discorso diventa infatti, appunto, un discorso da bar: magari affascinante e anche molto coerente al suo interno, ma che non sappiamo minimamente se corrisponda all’effettiva realtà delle cose. Per ho sostenuto che Han sia “troppo hegeliano”: perché Hegel ragionava esattamente così. Cercava una legge che spiegasse il mondo per come lui lo vedeva, e cercava di fare in modo che questa legge fosse onnicomprensiva, cioè spiegasse tutti i fenomeni che a lui interessavano. Quando poi un critico (come ad esempio Schopenhauer, e non solo lui) gli faceva notare dei casi in cui la sua legge dialettica non funzionava, egli si ritraeva dal confronto: non ammettendo che la sua legge potesse avere dei difetti o delle mancanze, ma sostenendo piuttosto che fosse la natura a essere difettosa – a non manifestare, cioè, la logica più profonda delle cose che lui aveva scoperto. Questo atteggiamento, così hegeliano – ma potremmo dire anche crociano e gentiliano, perché anche con questi filosofi siamo da quelle parti – ha segnato a lungo la cultura europea, cosa che, secondo me, è una delle principali cause della nostra arretratezza culturale. Se guardate anche solo il panorama filosofico italiano, siamo pieni di pensatori che si esprimono sui temi più disparati senza portare mai alcun dato a supporto delle loro tesi; pensatori che si ergono a “vate”, a profeta, e che nessuno può contraddire, perché coi profeti è impossibile farlo. Tendiamo a vedere il filosofo o lo studioso come uno che conosce a menadito l’Iliade e l’Odissea, che parla molto bene in pubblico e che sa dire almeno tre parole in greco o in latino; basta questo, in Italia, per dare autorevolezza a qualsiasi intellettuale; se poi parla del mondo vero o del mondo ideale, a noi, in realtà, non interessa. E così, nelle trasmissioni televisive, abbiamo personaggi come Massimo Cacciari, certo uno studioso e un intellettuale raffinato, che però, molte volte, parla di cose che non conosce proprio: se l’avete mai sentito esprimersi sulla scienza o sull’economia, ve ne sarete ben resi conto. Anche i suoi, spesso, sono discorsi da bar: magari meglio argomentati e più forbiti dal punto di vista linguistico, ma pur sempre discorsi da bar. Per fortuna, là fuori esistono anche intellettuali diversi, sia, anche se minoritari, nella nostra cara vecchia Europa, sia, ancora di più, nel mondo anglosassone. Intellettuali che, quando parlano di un problema, cercano dei dati a supporto delle loro tesi, che cercano dei riscontri empirici, che cercano di fare delle analisi un pochino più approfondite. Han non appartiene a questa schiera: tutte le citazioni presenti ne La società della stanchezza sono solo rimandi ad altri filosofi come lui, come Agamben o Esposito. Filosofi che, di nuovo, fanno analisi non basandosi sui dati, ma al massimo sulle citazioni di altri filosofi come loro, in un meccanismo puramente ricorsivo, in cui ci si parla molto addosso senza mai verificare che questo parlarsi addosso abbia corrispondenza con la realtà. E così abbiamo un saggio che parla di problemi sociali e non cita nemmeno un sociologo; che parla di problemi psicologici attuali e si ferma a Freud, che è morto cento anni fa; che ha il suo massimo punto di riferimento in Nietzsche, anch’egli, per quanto geniale, vissuto in un’altra epoca, e il suo antagonista in Hannah Arendt, classe 1906. Il guaio è che questo atteggiamento in Han è innocuo, ma in altri casi può diventare pericoloso. Ricordo solo che Agamben, durante la pandemia, arrivò a ipotizzare che la pandemia fosse un’invenzione degli Stati (vedi qui e qui), esprimendosi come un qualsiasi complottista. Quelle uscite, che stupirono molti, in realtà si spiegano benissimo col suo modo di intendere il pensiero e la filosofia: un pensiero che non ha bisogno di confronti e dati reali, che non ha bisogno di fare i conti con la realtà. E guardate: purtroppo questo tende a essere l’atteggiamento di buona parte anche della nostra sinistra. Una sinistra che parte da principi condivisibili e legittimi, ma che poi non si chiede mai come quei principi debbano essere messi in pratica, come possano essere attuati, come possano davvero cambiare il mondo. Si dice che serve più giustizia sociale, ma non si pensa minimamente a come, nei fatti e concretamente, questa giustizia sociale possa essere realizzata. Sono tutte petizioni di principio che poi nessuno è in grado di mettere alla prova dei fatti, di misurare e di verificare. Ed è anche questo un modo attraverso cui, alla fine dei conti, la realtà non cambia mai. Perché sognare solo come vorremmo che il mondo fosse, e non affrontare come il mondo è davvero, non ci porta poi tanto lontano. Il libro, se vi interessa, lo trovate qui.
Zia Mame di Patrick Dennis: molto brevemente, vi dico che questa settimana ho continuato a leggere a tempo perso anche Zia Mame, divertente romanzo di Patrick Dennis. Ormai lo schema è noto, anche se sta passando il tempo e siamo ormai arrivati al dopoguerra. Tireremo le somme, spero, presto, anche perché le pagine che mi mancano alla fine sono ormai davvero poche. Lo potete acquistare qui.
Quello che ho visto
E diamo un’occhiata anche ai film e soprattutto alle serie tv che ho visto questa settimana.
Welcome to Wrexham episodio 2.03 (2022), di e con Ryan Reynolds e Rob McElhenney: avrete letto che il Wrexham ha appena conquistato, nel Regno Unito, la terza promozione di fila, tanto che l’anno prossimo giocherà in Championship, il corrispettivo della nostra Serie B. Non male per una squadra di provincia, legata a una città da poche decine di migliaia di abitanti, nello sperduto Galles. Una squadra che conosciamo – o almeno che io conosco da qualche mese a questa parte – grazie soprattutto alla serie tv Welcome to Wrexham, di cui vi ho parlato varie volte proprio su queste colonne. La serie è trasmessa su Disney+: la prima stagione è disponibile anche con doppiaggio in italiano, mentre dalla seconda in poi è disponibile solo con sottotitoli, mantenendo la lingua originale inglese. E perché mai Disney+ dovrebbe dedicare spazio a una squadra che all’inizio, nella prima stagione, giocava praticamente tra i dilettanti, nella quinta categoria britannica? Be’, la scelta non è stata casuale: il documentario segue la squadra perché in quel momento venne acquistata da due star di Hollywood, Ryan Reynolds, l’attore di Deadpool e di molte altre pellicole di grande successo, e Rob McElhenney, star della serie It’s Always Sunny in Philadelphia. L’investimento di questi due americani in una squadra gallese attirò ovviamente l’attenzione del pubblico, anche perché i nuovi proprietari promettevano di fare ingenti investimenti per cercare, appunto, di portare la squadra a livelli più alti. Dopo quasi quattro anni, non si può certo dire che non ci siano riusciti, viste le notizie di questi giorni. Io, per la verità, con la serie sono relativamente indietro, visto che sono ancora alla seconda stagione: nella prima, il Wrexham aveva mancato la promozione per un soffio, perdendo agli spareggi; ora, nella seconda – che immagino si concluderà con un trionfo – sta giocando molto bene. Ma la serie tv riesce soprattutto, in maniera davvero encomiabile, a restituire la passione della città, l’entusiasmo dei tifosi e, ogni tanto, anche le delusioni, che nelle serie minori sono immancabili. Nell’episodio che ho visto questa settimana (e che ho guardato proprio dopo aver saputo della promozione), c’è però anche un elemento che merita di essere sottolineato: l’invidia delle squadre rivali. L’episodio, infatti, si sofferma sul fatto che, da quando la squadra è stata comprata dai due americani, tutte le altre formazioni della stessa categoria abbiano iniziato letteralmente a odiare il Wrexham. Ora i gallesi sono diventati “quelli pieni di soldi”, quelli che vogliono vincere a tutti i costi, e che – in un certo senso – approfittano della benevolenza dei due proprietari per umiliare involontariamente le altre squadre; e quindi sono quelli da odiare. Se ci pensate, accade davvero sempre così, anche fuori dal calcio: quando una persona che conosciamo, e a cui magari vogliamo pure bene, inizia improvvisamente ad avere successo – specialmente se quel successo arriva senza particolari motivi, per pura fortuna –, ci viene spontaneo provare una certa invidia, un mal recondito odio nei suoi confronti. Nel caso del Wrexham è andata proprio in questo modo: finché perdevano, i giocatori del Wrexham erano simpatici a tutti; ora che sono pieni di soldi – soldi che, in realtà, non si sono “meritati”, ma che sono arrivati perché due investitori li hanno scelti quasi a caso su una mappa – sono diventati i più odiati del Regno Unito. Ci sta: è inevitabile che sia così. Ma questo dovrebbe anche farci molto riflettere su come esaltiamo o critichiamo le persone e le cose, e su quanto pesino il caso, il successo imprevedibile e la fortuna nel formare il nostro giudizio. La serie la trovate, come detto, su Disney+.
Black Mirror episodio 7.05 - Eulogy (2025), di Charlie Brooker e Ella Road, con Paul Giamatti e Patsy Ferran: per due settimane di fila vi ho parlato della nuova stagione di Black Mirror, prima recensendo il primo episodio e poi usandolo come spunto per una riflessione più ampia. Questa settimana, finalmente, ho visto un’altra puntata della serie, non procedendo in ordine ma saltando direttamente a quella di cui avevo letto il giudizio migliore online. Si tratta di un episodio interpretato da Paul Giamatti, attore sempre molto bravo, che anche in questa puntata offre un’ottima performance. La trama è piuttosto semplice: in un futuro prossimo venturo viene inventato uno strumento capace di ridare letteralmente vita alle vecchie fotografie, quelle analogiche che tutti noi – se appartenete alla mia generazione – abbiamo usato per molto tempo nella nostra vita. Solo che questa nuova tecnologia permette di andare più a fondo del previsto, dato che consente di collegare la mente del soggetto alla foto, il ricordo all’immagine su carta, e di fatto di entrare letteralmente dentro al ricordo. Sarebbe molto bello avere una tecnologia del genere, credo, ma in certi casi anche angosciante o drammatico; e questo è proprio il caso della storia che viene raccontata: un uomo di mezza età viene infatti coinvolto in una sorta di elogio funebre per una vecchia amica scomparsa. Gli viene chiesto di mandare un ricordo, e questo lo porta a tirar fuori da una scatola alcune vecchie fotografie. Inizia così a rivivere ricordi molto dolorosi, riaprendo cicatrici mai veramente chiuse. Non vi dico altro, perché penso che la puntata valga la pena di essere vista e gustata senza anticipazioni; vi basti sapere però che, in realtà, il peso della tecnologia qui è tutto sommato molto limitato: ciò che conta davvero è l’emozione umana. La trovate su Netflix.
Il cowboy col velo da sposa (1961), di David Swift, con Hayley Mills, Maureen O’Hara, Brian Keith: forse non ve l’ho mai raccontato, ma mia moglie ha una radicata passione per i film della sua infanzia. Certo, direte voi: l’abbiamo tutti; ognuno ricorda con un certo affetto i film e i libri con cui è cresciuto. Però devo dire che, nel caso di mia moglie, questa passione è un po’ più forte della media, sicché, inevitabilmente, ci sono dei film – per la verità neppure particolarmente belli – che in famiglia siamo costretti a rivedere e a riproporre costantemente ai nostri figli, perché lei li ritiene imperdibili nella formazione dell’individuo. Questi film sono quasi tutti della Disney, e sono quelle pellicole che, in effetti, nei primi anni Ottanta si facevano spesso vedere ai bambini. Sto parlando di classici cartoni animati come Il re leone, La sirenetta, Robin Hood, Gli Aristogatti, che in effetti abbiamo visto tutti decine di volte; ma nel caso di mia moglie bisogna aggiungere anche dei film in live-action degli anni Sessanta e Settanta: l’immancabile Mary Poppins, certo, ma anche Pomi d’ottone e manici di scopa, Il maggiolino tutto matto, Quattro bassotti per un danese e via discorrendo. Tra questi, poi, un posto di primaria importanza nell’immaginario della mia dolce consorte è riservato a Il cowboy col velo da sposa, titolo italiano poco comprensibile di una simpatica commedia disneyana basata su uno scambio di persona. La trama, credo, la conoscerete già, ma ve la racconto lo stesso: in un campeggio estivo, due ragazzine, molto somiglianti tra loro, finiscono – dopo qualche screzio iniziale – per stringere amicizia. Solo alla fine della vacanza, però, scoprono di essere sorelle gemelle, e che i loro genitori avevano divorziato quando erano molto piccole, portando ognuno con sé una figlia diversa, e facendo in modo che le due ragazze crescessero senza sapere nulla l’una dell’altra. Nonostante una situazione eticamente molto discutibile, le due ragazze decidono quindi di far tornare insieme i loro genitori, e per mettere in pratica il loro piano progettano di scambiarsi: ognuna finisce così col genitore che non ha mai conosciuto. Ne nascono diverse gag e situazioni anche divertenti, anche se ovviamente il film è scontatissimo e il finale si può prevedere fin dalla prima scena: vi basti sapere che anche il mio figlio più piccolo, quello di nove anni, dopo dieci minuti aveva già capito come sarebbe andata a finire. Nonostante tutto, il quartopupo il film se l’è goduto lo stesso, e forse può ancora funzionare con i bambini più piccoli. Lo trovate su Disney+.
Quello che ho pensato
Complice il libro che ho pubblicato qualche mese fa, in questi ultimi tempi mi sono trovato spesso a parlare di sicurezze e incertezze, di dubbi e fragilità. E ne ho parlato sia affrontando il tema dal punto di vista degli adolescenti, anche (ma non solo) in ambito scolastico, sia però cercando di analizzarlo anche per quanto riguarda gli adulti, perché non è che questo clima di incertezza non colpisca anche loro.
Ecco, riflettendoci sopra vorrei ora aggiungere un ulteriore tassello a cose che ho già detto in varie occasioni: cioè che una delle basi di questa diffusa fragilità, di questa incertezza dilagante è forse anche da ricercare in una sempre maggiore incapacità di trovare in se stessi le ragioni del proprio agire.
Cerco di articolare meglio il discorso, e di renderlo più chiaro perché mi rendo conto che così come le ho dette queste cose non significhino granché. La domanda che ci dobbiamo porre, a mio avviso, è questa: perché facciamo quel che facciamo? O, meglio ancora: per chi facciamo quel che facciamo?
Per un adolescente, ovviamente, rispondere a questa domanda è piuttosto complesso, lo è sempre stato. L’adolescenza è il momento in cui si smette di essere bambini, di obbedire cioè risolutamente ai genitori, e si comincia a cercare di definire la propria personalità. Per rispondere alla domanda del paragrafo precedente: è il momento in cui teoricamente si smette di fare le cose per mamma e papà, e si comincia a farle per se stessi.
Certo, per operare questa svolta, per cominciare cioè ad essere adulti, bisogna iniziare a capire cosa si vuole, smarcandosi allo stesso tempo dai genitori e dalla loro volontà. Se insegnate nella scuola, vi sarete probabilmente resi conto di quanto tutto questo sia, ultimamente, più complicato di un tempo. Se una volta i diciottenni erano ben affrancati dai loro parenti, mezzi ribelli e mezzi cafoni, oggi mi sembrano molto più “mammoni”, desiderosi di compiacere il padre e la madre (allo stesso modo in cui, credo, i genitori sono molto più desiderosi di un tempo di compiacere i figli). E così è perfino difficile che questi ragazzi abbiano ambizioni autonome, passioni indipendenti, desideri tutti loro. «Cosa vuoi fare all’università?» «Non ne ho idea, prof» «Be’, ma cosa ti piace, cosa ti appassiona?» «Non ne ho idea». I dialoghi che imbastisco, spesso, funzionano così.
Certo, non tutti i ragazzi rispondono in questo modo, non tutti sono incerti o spersi; e però quelli che vivono queste difficoltà mi sembra siano di più di un tempo. La loro incertezza non riguarda neppure solo la scelta universitaria: a dirla tutta, non sanno nemmeno per chi studiano. Per loro stessi? No, perché non sanno se ne valga la pena. Spesso lo fanno per i genitori, a volte perfino per i professori, che vogliono sempre compiacere.
C’era un tempo in cui agli studenti non importava granché del giudizio dei prof; o, meglio, in cui un giudizio negativo di un docente veniva facilmente fatto scivolare via. «È un cretino», ci dicevamo ai miei tempi, quando un prof ci riteneva incapaci. Perché noi sapevamo bene quanto eravamo bravi o no, quanto eravamo capaci o meno di far le cose; e non era certo un giudizio buttato là da un cinquantenne a turbarci. Anzi, eravamo forse perfino troppo strafottenti nel credere di capirne di più dei professionisti.
Oggi purtroppo avviene il contrario. Noi docenti non diamo più, di solito, i giudizi netti di un tempo, ci muoviamo coi piedi di piombo e con mille (e doverose) cautele, eppure i ragazzi non sanno allontanarsi dai nostri voti. Noi ci sforziamo continuamente di dire che il voto non rappresenta nient’altro che un giudizio su quel preciso compito, su quelle precise risposte, e che non ha nulla a che vedere con la persona, e forse neppure con le sue potenzialità; eppure i ragazzi non riescono a farsi scivolare via quei voti, quelle medie. Si identificano spesso e volentieri in quei voti; perché non sanno chi sono, e credono di essere i voti che ricevono.
E ancora: pensate ai social network, che occupano una parte non irrilevante della vita di molti adolescenti. Pensate a Instagram, e mettetevi nei panni di un ragazzino o, peggio ancora, di una ragazzina: per chi pubblica le sue foto? Mica per sé, o meglio: mica per esserne soddisfatto/a. Lo fa, spesso, per piacere agli altri.
Vi sarà capitato di vedere quelle ragazze (e ormai, spesso, anche quei ragazzi) che davanti a un monumento o a un bel paesaggio si mettono in posa, cercano la giusta postura del corpo e costringono il fidanzato o la fidanzata di turno a provare dieci o venti pose diverse, fino a trovare la foto giusta per il social network? Una volta, con le nostre vecchie macchine fotografiche analogiche, facevamo foto che sviluppavamo due settimane dopo e che vedevamo solo noi (anche perché nessun altro voleva guardarle): le foto erano bruttine, realizzate solo a nostro uso e consumo, e avevano l’unico scopo di rafforzare i nostri ricordi. Oggi le foto sono ad uso e consumo degli altri, perlopiù.
Tutto questo avviene perché vogliamo avere successo, si dice sempre, e credo sia anche vero. Ma bisogna capire cosa intendiamo per successo: perché anche gli adulti, credo, ambiscono a raggiungere dei traguardi e ad avere, quindi, dei successi. Ma la vera differenza sta nel sapere chi li pone, quei traguardi: se tu hai un obiettivo e lo raggiungi, persegui un successo che hai scelto tu, che riguarda te e che quindi rende felice te; se invece raggiungi obiettivi posti da altri, che non ti danno soddisfazione ma che servono solo a piacere, si crea un problema.
Ecco, credo che la chiave per capire cosa sto cercando di spiegarvi stia proprio qui: per chi facciamo le cose? Chi vogliamo compiacere: noi o gli altri?
È chiaro che sto un po’ generalizzando, ovviamente, e che sto facendo lo stesso errore che, qualche paragrafo sopra, imputavo a Byung-chul Han: sto andando avanti per impressioni (anche se per la verità qualche riscontro empirico ce l’ho). Ma, perdonatemi: questo non è un libro, è una semplice riflessione a voce altra. Se mai inserirò questi discorsi in un libro (il che non è impossibile), mi documenterò in maniera più approfondita e vi porterò i dati, come ho cercato di fare in Anche Socrate qualche dubbio ce l’aveva (dove parliamo un po’ anche di questi temi).
In ogni caso, meglio chiarire: anche in passato cercavamo l’approvazione altrui, e non è vero che oggi tutti i ragazzi siano così in difficoltà. Ci sono infinite vie di mezzo tra i due estremi che, per comodità, vi ho presentato. Ma mi pare esserci una tendenza forte, facilmente riscontrabile, verso uno spostamento verso il desiderio di compiacere gli altri, di un sempre maggior perfezionismo.
Ho appena finito di leggere, come vi ho raccontato più sopra, La società della stanchezza di Byung-chul Han, il quale sostiene che l’aumento dell’ansia tipico dei nostri tempi sia da imputare alla tendenza esasperata alla performance, propria di questa fase storica. Già la settimana scorsa vi dicevo che, nell’analisi del filosofo coreano, riscontravo alcuni elementi interessanti, ma anche l’incapacità – a mio modestissimo avviso – di cogliere il problema più profondo.
E quello che ho scritto oggi serve proprio a motivare questa asserzione. Certo, il lavoro esagerato quasi sicuramente incide sulle ansie che tormentano alcuni di noi; ma, di nuovo, se ci si ferma al lavoro esagerato si rimane, credo, un po’ in superficie. Gli schiavi dell’antichità lavoravano molto più di noi, ma non ci risulta avessero tutti i nostri problemi psicologici: e dunque?
A me vien da pensare che forse anche l’iper-lavoro sia solo un’evenienza di un problema più profondo; e che anche il capitalismo – che Han ritiene la causa ultima dei nostri mali – sia solo uno tra i tanti problemi. Sospetto che anche senza il capitalismo avremmo le stesse ansie, gli stessi disturbi; e che quindi il capitalismo sia un sintomo, non la malattia.
Quale sarebbe, dunque, questo benedetto problema più profondo? È presto detto: secondo me è il fatto di non sapere chi siamo, di non sapere neppure chi vogliamo essere, di non avere un’identità. Vi dicevo: per chi facciamo quel che facciamo? Non ne abbiamo idea: per gli altri, ma si tratta di “altri” spesso indefiniti, poco chiari. Per il web, per il mercato, per il successo, per la società, per la mamma e per la nonna: usiamo queste espressioni, ma sono solo palliativi per non dire che in realtà non sappiamo nemmeno noi per chi facciamo quel che facciamo.
Il guaio, insomma, è che non facciamo le cose per noi ma per entità indefinite e invisibili. Ed è paradossale, se ci pensate bene: perché in realtà non siamo mai stati così egoisti, egocentrici ed egoriferiti come oggi. Ci mettiamo al centro di ogni cosa, ma non ci conosciamo; pensiamo che il mondo giri attorno a noi, ma poi, se smettiamo per un attimo di guardare il mondo, neppure capiamo bene chi siamo.
Ci sarebbe ancora molto altro da dire, molto altro da approfondire, e probabilmente dovrei fare qualche ricerca e portarvi qualche dato più serio, ma non ne ho lo spazio qui e forse neppure il tempo. Per il momento lasciamo tutte queste cose come spunti, meritevoli di un ulteriore approfondimento, prima o poi.
Però provate a pensarci anche voi: non vi pare che ci sia questo bisogno disperato di approvazione, un’approvazione che deriva dal non auto-approvarsi mai davvero?
Quello che ho registrato e pubblicato
Facciamo ovviamente anche il punto su quello che è uscito questa settimana sul canale:
Come funziona il Conclave: la storia da ieri a oggi: visto che sta per cominciare la riunione dei cardinali per eleggere il nuovo papa, parliamo del Conclave
Sparta, la polis oligarchica: un po’ di storia greca, per conoscere una delle poleis più famose e importanti
La filosofia e il pragmatismo di John Dewey: un filosofo americano ingiustamente trascurato dalle nostre parti, che invece ha ancora molto da dire
Vita e contesto storico di Cesare Beccaria (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Cesare Beccaria e il successo internazionale (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
L'inizio della Guerra Fredda (per il podcast “Dentro alla storia”)
Imparare il silenzio da Wittgenstein
Benjamin Franklin scrive agli americani [Email dall'oltretomba]
Einstein scrive a Netanyahu [Email dall'oltretomba]
Guareschi scrive a Donald Trump [Email dall'oltretomba]
@scrip79A Trump piace vestirsi, sui social, da papa e da Jedi; ma non aveva detto che, anche senza quegli abiti, avrebbe risolto la guerra in Ucraina in 24 ore? Giovannino Guareschi, il creatore di Don Camillo, ha deciso di scrivergli due righe. #guareschi #trump #doncamillo #peppone #papa #jedi #ucrainaTiktok failed to load.
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Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
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La consolazione della filosofia di Boezio: come si passa dall’antichità al Medioevo, dal punto di vista culturale? La risposta, almeno per quanto riguarda l’Europa occidentale, può probabilmente esser trovata in questo classico testo di Severino Boezio, che ebbe una grandissima fortuna per secoli e che ancora oggi viene letto e studiato. Scritto in carcere prima dell’esecuzione capitale, è ricco di allegorie e messaggi, sia cristiani che laici. Lo si può comprare qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
C’è poi un ulteriore modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ce n’è uno chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate, passando anche per il Club del Libro e il Simposio. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
È inoltre da poco ufficiale la notizia di un mio nuovo libro. Solo che questa volta io, più che scrivere, ho registrato. DeA Scuola e Garzanti Scuola stanno infatti per far uscire un nuovo manuale di storia per le superiori intitolato La storia in scena, scritto da Giuseppe Patisso, Daniela De Lorentiis e Fausto Ermete Carbone, a cui ho collaborato anch’io per una cospicua parte video. Al grande progetto lavoriamo da molti mesi, ma ormai siamo in dirittura d’arrivo e, se siete docenti, potrete adottarlo se vorrete già dal prossimo anno scolastico. Tra l’altro, oltre a me ci ha messo le mani anche Aldo Cazzullo, ma non mancano anche gli storici di fama internazionale. Io in particolare ho realizzato decine di videoreel che introducono tutti i capitoli dell’opera, e in più ho preparato un ciclo di venti videolezioni specifiche (e inedite) sulla storia delle donne dal Medioevo ai giorni nostri. Ecco intanto la copertina del primo volume, ma nelle prossime settimane vi mostrerò anche altri dettagli:
Ultima cosa da ricordare: in tutte le librerie è presente il mio nuovo libro, Anche Socrate qualche dubbio ce l’aveva. Il sottotitolo rende piuttosto chiaro di cosa si occupa: Come lo scetticismo filosofico può salvarti la vita nell’epoca della performance. In pratica riprendiamo il pensiero di alcuni grandi filosofia (Socrate, Occam, Montaigne, Hume, Popper e altri ancora) e cerchiamo di trarne degli insegnamenti per vivere meglio oggi, in un mondo in grande cambiamento; e cerchiamo di farlo tramite uno stile non difficile ma stimolante. Il libro è disponibile sia in formato cartaceo che ebook. Ecco qualche link per l’acquisto:
Quello che c’è in arrivo
E chiudiamo come sempre anche con qualche anticipazione su quello che vorrei proporvi nei prossimi giorni:
domani si comincia col podcast storico, incentrato sugli effetti della Guerra Fredda in Europa;
mercoledì vi proporrò un video (che in realtà era già previsto per questa settimana, ma che ho dovuto rimandare) sulla disobbedienza civile;
giovedì arriverà uno short dedicato a John Stuart Mill, nell’anniversario della sua morte;
venerdì sarà la volta di un video della serie LibSophia, dedicato all’idea di Mercato;
sabato e domenica spazio, quindi, di nuovo ai podcast, con una puntata sull’illuminismo napoletano e una sull’Europa orientale nel dopoguerra;
lunedì prossimo, infine, si terrà la riunione del Club del Libro per gli abbonati, quindi se siete dentro tenetevi liberi.
E questo è tutto. Ci si rivede qui tra sette giorni esatti oppure venerdì ad Adria, se siete da quelle parti. Ciao!