Per la serendipità servono idee diverse, senza dimenticare i Sumeri, Francis Ford Coppola, Agostino, Platone, i Longobardi, Gipi, Steinbeck, Zombieland e le morti di Evelyn Hardcastle
Scusate il fatto di sembrare autoreferenziale, ma questa settimana devo partire da un disclaimer: tutto quello che trovate qui in questa newsletter, nel canale YouTube, nei podcast eccetera vi viene offerto gratuitamente (salvo casi eccezionali, ampiamente segnalati). Per vedere i miei video, leggere questa newsletter e così via non avete dovuto sborsare un euro: lo fate se vi va, e se non vi va non lo fate. Nessuno vi obbliga. E questo vale, per la verità, per molte cose che si fanno sul web, mica solo le mie.
Io, da parte mia, faccio tutto questo per passione, per scelta, perché mi pare utile; ma non sono stipendiato da nessuno di voi (o, meglio, sono stipendiato dallo Stato, ma per quello che faccio a scuola e non certo per la mia attività sul web) e quindi non ho vincoli di subordinazione. Detta in altri termini, e forse brutalmente: non vi devo niente e non ritengo di dovermi sdebitare in alcun modo con nessuno di voi (a meno che non siate miei amici o conoscenti nella “vita vera”, ma quello è un altro discorso).
Dico questo perché ultimamente mi capita (non spessissimo, ma purtroppo più spesso di una volta) di ricevere mail inviperite da parte di persone che si reputano offese perché non rispondo o non ho ancora risposto ai loro messaggi. Persone che provano a telefonarmi ad esempio via Messenger (io nemmeno sapevo che si potesse fare, e in ogni caso il telefono non mi squilla quindi non so come dovrei accorgermi della chiamata) e alle quali non rispondo (d’altronde, anche potendo, non risponderei mai a una telefonata via Messenger: se non avete il mio numero di telefono c’è un motivo); e che si dichiarano appunto scioccate o indisposte dalla mia mancata disponibilità a dialogare con loro.
Ora, chi mi segue da molto tempo sa quanto io abbia a lungo provato a rispondere a tutti quelli che mi contattavano; e molti di quelli che mi seguono magari una risposta l’hanno anche ottenuta, presto o tardi (la settimana scorsa ho replicato a delle mail che aspettavano da 12 mesi, pensate un po’). Il fatto è che mi è ormai materialmente impossibile rispondere a tutti: ricevo normalmente 30 o 40 messaggi al giorno tra mail, commenti ai video, messaggi privati sui social network e così via (senza contare i messaggi dai colleghi o dagli studenti legati alla scuola, a cui ovviamente do priorità).
In alcuni casi quelli provenienti dal web sono messaggi veloci, a cui teoricamente potrei rispondere in pochi minuti (poi dipende anche dal mio grado di concentrazione in quel momento, dalla voglia e dalle domande che mi vengono poste); altre volte sono delle mail lunghissime, impegnative, con domande anche complesse, ed elaborare risposte a questi messaggi può portarmi via mezz’ora o più. Facciamo una media: contiamo che io ci metta più o meno 10 minuti a gestire ogni messaggio. Be’, facendo i conti, per stare al passo con tutti, mi ci vorrebbero circa 400 minuti al giorno da dedicare alla corrispondenza. Sarebbero più di 6 ore e mezza al giorno, sabati e domeniche comprese. Sarebbero più di 45 ore settimanali, un lavoro a tempo pieno solo per i messaggi.
Considerate che nel frattempo realizzo però anche video quotidiani che vengono scritti, registri e montati (come minimo mi portano via 3-4 ore di lavoro al giorno, in media), insegno a scuola, tengo PCTO e corsi e correggo verifiche (come minimo 5-6 di media di lavoro al giorno, di media, weekend compresi) e ogni tanto avrei anche bisogno di dormire, mangiare e di passare del tempo con i miei cari.
Questo per dire che dovete – ed è un imperativo – aver pazienza: provo a rispondere a tutti, ma ci potrebbero voler mesi. E se volete un dialogo un po’ più intenso, ho creato apposta la modalità dell’abbonamento su YouTube: lì c’è una chat dove intervengo (anche se pure lì coi miei ritmi) e ci sono un paio di riunioni al mese in cui ci si incontra (anche se virtualmente). Di più è francamente impossibile.
Dico questo non solo per me, non solo per ottenere meno accuse ingenerose via mail: forse, fosse solo quello, basterebbe un po’ più di buona educazione in giro per risolvere la questione. Lo dico perché internet, da questo punto di vista, ci ha abituati davvero male: pensiamo che tutto sia gratis, che tutto sia dovuto. Soprattutto che il tempo degli altri sia gratis: e non è così.
Il tempo costa, il tempo vale. È lecito chiedere del tempo alle persone, soprattutto se abbiamo già un rapporto, se ce lo siamo costruito; ma non è obbligatorio che queste persone ci dedichino del loro tempo. Se lo fanno sono generose; se non lo fanno non vuol dire che siano crudeli, che ce l’abbiano con noi o che ci odino. Se devo scegliere se guardare la partita di calcio di mia figlia (sabato pomeriggio, un bel 4-4 con anche un gol della pupa) o rispondere ai messaggi di uno sconosciuto, scelgo tutta la vita mia figlia, e sarei un padre degenere se facessi diversamente; se devo scegliere se farmi raccontare la giornata dal mio figlio più grande o rispondere a dei messaggi, scelgo mio figlio tutta la vita (anche se lui poi si esprime a monosillabi e mi racconta solo quello che vuole); se devo scegliere se interrogare in geografia il terzo figlio o rispondere ai messaggi, geografia tutta la vita (e poi interrogare è sempre divertente); se devo scegliere se aiutare coi compiti il quartopupo che fa la terza elementare o rispondere ai messaggi, i compiti tutta la vita.
Sono banalità, certo; eppure non ci pensiamo. Ormai chiusi in noi stessi diamo per scontato che gli sconosciuti ci debbano sempre qualcosa. Che al centro del loro mondo ci siamo noi. È un atteggiamento che, a ben guardare, non mi pare troppo diverso da quello di chi un tempo, agli albori della televisione, parlava a Mike Bongiorno mentre quest’ultimo compariva sul teleschermo: crediamo che tutto sia stato fatto per noi e per noi soli. Sembriamo un po’ come il “grano d’uva” di Galileo, convinto che tutto sia fatto da Dio solo per lui.
Bisogna invece che cominciamo a tener conto delle possibilità umane. E impariamo a gustarci un po’ di più quello che abbiamo già davanti agli occhi. Come, in un certo senso, anche questa newsletter, che in un modo o nell’altro è piena di spunti: e ognuno dei libri o dei film che cito può parlare anche lui ad ognuno di voi.
Cominciamo.
Quello che ho letto
Partiamo come sempre dai libri, con qualche novità e movimento nella lista delle letture della settimana.
Uomini e topi di John Steinbeck: come vi raccontavo la settimana scorsa, qualche giorno fa mi è venuta all’improvviso la voglia di rileggere Uomini e topi, il capolavoro di John Steinbeck ambientato negli anni della Grande Depressione. Voglie di questo tipo, a dirla tutta, mi capitano spesso, ma il più delle volte me le faccio passare a forza, perché ci sono talmente tante cose nuove da leggere che non ha molto senso tornare su questioni già affrontate, a meno che non ce ne sia proprio necessità. Per Uomini e topi, però, ho fatto un’eccezione, soprattutto per via della sua brevità: più che un romanzo è infatti una novella, e in un paio di giorni, senza neppure troppa fretta, la si può portare tranquillamente a casa. La storia – senza rivelar nulla del finale – credo sia piuttosto nota, anche perché poi è stata imitata da molti: i protagonisti sono George e Lennie, due braccianti che girano per l’America in cerca di lavoro, sperando di poter mettere da parte qualche soldo per poter prima o poi realizzare il loro sogno, quello cioè di comprarsi un po’ di terra a buon mercato, metter su una fattoria e non dover andare più a elemosinare il lavoro in giro. Nonostante la voglia di faticare dei due, c’è però un problema: mentre George è svelto d’intelletto, Lennie è affetto da ritardo mentale, cosa che lo espone a molti pericoli (e, data la sua stazza, mette in pericolo anche chi gli sta attorno). Il libro l’ho già finito e devo dire che sono rimasto di nuovo incantato dalla bellezza della prosa di Steinbeck e dalla sua capacità, anche tramite alcune immagini che sembrano non c’entrare molto con la trama, di evocare sentimenti che poi torneranno utili; mi riferisco, solo per fare un esempio, alla questione del cane, che forse avrete ben in mente se avete letto il libro. Comunque è davvero un capolavoro: toccante e commovente, nonostante la storia semplice ed assai lineare. Se vi interessa, lo potete acquistare qui.
Simposio di Platone: come di sicuro sapete, gli abbonati al canale YouTube hanno diritto – in cambio del sostegno che danno a tutto questo progetto – a una serie di vantaggi, tra cui la partecipazione al cosiddetto Club del Libro, una serata in cui, una volta al mese, ci troviamo online per discutere appunto di un libro che abbiamo letto tutti, in parallelo. Finora di incontri del genere ne abbiamo svolti due: il primo dedicato a Al di là del bene e del male di Nietzsche, il secondo a 1984 di Orwell. Per il mese di dicembre la scelta della comunità è caduta sul Simposio di Platone, dialogo tra i più famosi del filosofo ateniese e sicuramente anche tra i più belli; dialogo che ho già letto per la verità più d’una volta, ma che mi sono rimesso a studiare – per prepararmi all’evento, che si svolgerà comunque tra una ventina di giorni – più che volentieri. Non si tratta di una lettura particolarmente corposa: come per altri dialoghi platonici, il testo è piuttosto contenuto e si legge in poche ore. Casomai, bisogna tener conto che si tratta comunque di pagine intense, in cui ci si deve fermare spesso per annotare idee, spunti, riflessioni. La trama è la seguente: all’interno del libro si rievoca una cena, avvenuta molti anni prima a casa dell’ateniese Agatone, a cui parteciparono personaggi di spicco della polis come Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane e lo stesso Socrate. Durante quella cena, com’era d’uso ad Atene, si iniziò anche a discutere e tutti i convitati furono invitati a tessere l’elogio di Amore, un dio particolare e originale. A quel punto ogni oratore cominciò a parlare e a raccontare dunque la propria visione dell’amore: finora, nel giro di poco, ho già riletto gli interventi di Fedro, Pausania e Erissimaco, e mi sto addentrando in quello, famosissimo, di Aristofane; come forse già sapete, al celebre commediografo spettava infatti il compito di parlare degli androgini. Poi toccherà ad Agatone e infine a Socrate, senza dimenticare la comparsata – anch’essa celebre – di Alcibiade. Insomma, un libro che si legge davvero in fretta (e probabilmente devo cominciare anche un po’ a dosarlo, per non finirlo troppo presto rispetto alla data del Club del Libro) ma che consiglio, perché offre davvero spunti interessanti sia sulla mentalità greca in generale, sia per la riflessione filosofica. Se vi interessa lo potete acquistare in una marea di versioni, ma io in particolare vi consiglio questa.
Le sette morti di Evelyn Hardcastle di Stuart Turton: da quando l’ho citato indirettamente qui nella newsletter, c’è un mio studente che sembra molto impaziente di leggere quello che scriverò di settimana in settimana, anche solo per sapere se il libro che mi ha consigliato – appunto, Le sette morti di Evelyn Hardcastle – mi sta piacendo oppure no; immagino quindi che sia all’ascolto (anzi, in lettura) anche oggi, anche qui. E però devo dire che mi sto rendendo conto, un po’ alla volta, che questo studente mi ha un po’ attirato in trappola. Prima mi ha consigliato un film, Source Code, di cui vi ho parlato qualche settimana fa, interessante e giocato sul tema della possibilità di cambiare il corso del tempo in un universo meccanicistico (in realtà la trama è più da thriller ed action movie, ma si può anche dire che il contenuto filosofico sia questo); poi mi ha consigliato appunto questo romanzo che sto leggendo, e di cui sono arrivato ormai a un quinto delle pagine. All’inizio pensavo che i due suggerimenti fossero scollegati, che il giovane studente mi avesse semplicemente indirizzato verso due opere che lo avevano colpito; invece, man mano che mi addentro nella lettura del libro, mi rendo conto che c’è un collegamento anche molto forte tra le storie, e che quindi lo studente mi sta appunto portando dove vuole lui, gabbandomi. D’altronde, dopo tanti anni a consigliare loro letture collegate al programma o ai vari temi che affrontiamo in classe, ci voleva anche una replica, che per una volta cioè fossero loro a darmi un tema di riflessione, declinato in diverse modalità. Le sette morti sembra, a prima vista, un normale romanzo giallo: c’è una villa misteriosa, c’è (apparentemente) un omicidio, ci sono una serie di possibili indiziati, c’è anche un passato macabro che aiuta a creare l’atmosfera. Ma a tutto questo si aggiunge un protagonista che, fin dalle prime pagine, sembra semplicemente essersi “incarnato” all’interno di un corpo non suo, assumendo un’identità che neppure sa gestire. Avete presente Quantum Leap - A spasso nel tempo, la bella serie di fantascienza di qualche anno fa? Ecco, immaginate che invece di incarnarvi in persone di epoche storiche sempre diverse, siate costretti a risvegliarvi ogni giorno sì in un corpo differente, ma dei diversi partecipanti ad una riunione, potendo così vedere gli stessi accadimenti da diversi punti di vista. Insomma, col passare delle giornate diventa evidente che si rivivrà, pare, sempre lo stesso giorno, ma immedesimandosi in personaggi diversi (e forse, così, dipanando il mistero). Il libro, se devo essere sincero, non mi pare scritto benissimo: tutto è molto affrettato, i personaggi si muovono in maniera poco realistica (dopo un paio di battute sono già amici per la pelle o disposti ad uccidersi a vicenda) e non mi sembra ci sia una gran cura nella descrizioni o anche solo banalmente nella scelta dei termini; è evidente che quello che conta, per lo scrittore, è l’azione, al limite l’idea che sta dietro a tutta la trama, e tutto il rimanente viene facilmente trascurato. Però l’idea potrebbe comunque essere interessante, e vale la pena di proseguire nella lettura. Ve ne parlerò ancora. Intanto, se volete provarlo, lo potete comprare qui.
Quello che ho visto
Sul versante “audiovisivi”, come si diceva una volta, questa settimana troverete suggerimenti particolari: vi parlo infatti di un film e di due interventi che ho invece pescato su YouTube, interventi però molto interessanti (e pure lunghi).
Attendersi l’inatteso: per un’intelligenza serendipitosa: come ho appena scritto, questa settimana è stata una settimana soprattutto di visioni su YouTube. Complice il fatto che qualche settimana fa vi ho parlato di Fabio Minazzi, da un po’ l’algoritmo mi propone alcune conferenze che si tengono alla Casa della Cultura di Milano, spesso coordinate od organizzate proprio da Minazzi. E tra queste conferenze – che consiglio in toto, perché alcune sono davvero molto interessanti – ce n’è una, recentissima, che spicca sulle altre: quella che ha avuto come ospite Telmo Pievani, intento a spiegare il suo concetto di “serendipità”. Di questo concetto vi parlerò più in dettaglio tra qualche riga, nella sezione Quello che ho pensato, tutta incentrata su riflessioni partite proprio da quel video; ma qui possiamo dire che il concetto – che Pievani ha presentato soprattutto nel suo libro del 2021 che potete acquistare qui – consiste nella capacità di alcuni scienziati di uscire dagli schemi canonici, di rivoluzionare le proprie procedure e di imbattersi così, quasi per caso, in scoperte innovative ed importanti. “Attendersi l’inatteso”, come titolava la conferenza, significa infatti aggiungere un tocco di casualità e di creatività alla scienza; un caso ed una creazione a loro modo controllate, irregimentate dentro a schemi concettuali, ma pur sempre a loro modo anarchiche. Perché, approfondendo un confronto che già Pievani fa con l’intelligenza artificiale, ciò che contraddistingue l’intelligenza umana non è solo la capacità di pensare logicamente, di dedurre le conseguenze dai principi in maniera rigorosa, ma anche di aggiungerci un pizzico di anarchia, di pazzia, di creazione, di fantasia. In ogni scoperta scientifica c’è più arte – nel senso creativo del termine – di quanto si pensi; in ogni teorema di Euclide c’è più arte di quanto si pensi; in ogni dimostrazione filosofica c’è più creatività di quanto si pensi. Il che ci porta a dire, in un certo senso, che anche le discipline sono meno nettamente separate di quanto si pensi, che il pensiero artistico o umanistico fornisce quegli spunti da cui parte a volte anche la scienza (e viceversa). La conferenza è insomma interessante, e Pievani sa parlare in modo chiaro, preciso ma allo stesso tempo anche semplice: la potete recuperare qui.
PDR #56 - Gipi: “Ad attaccarmi sono stati quelli che credevo amici”: se seguite i social sapete bene che la comunicazione online vive di fiammate: ogni due o tre giorni, infatti, balza agli onori della cronaca una notizia che normalmente sarebbe di minor conto, ma che suscita grande indignazione nel pubblico; questa notizia, riproposta sui social, comincia velocemente a fare il giro del web, rinfocolandosi e rafforzandosi nel comune disgusto, fino a diventare la notizia del giorno, quel fatto di cui tutti parlano ovunque; poi, all’improvviso, la cosa scema via, e tutto viene dimenticato nel giro di un altro paio di giorni, giusto in tempo perché una nuova “notizia del giorno” susciti di nuovo l’indignazione dei più. È un circo mediatico che alimentiamo noi stessi con questa gara a chi è più disgustato, con questo dibattere sterile che in realtà non ci porta da nessuna parte, ma finisce soprattutto per alimentare il nostro ego, per farci sentire importanti nel dare il nostro giudizio morale sul malcapitato di turno (che a volte è anche un imbecille, certo, ma che forse non meriterebbe tanta attenzione). Circa due anni e mezzo fa, nella primavera del 2021, in mezzo a questo tritacarne social era finito anche un fumettista che ho sempre trovato interessante ed intelligente, Gipi, al secolo Gianni Pacinotti, autore di opere come LMVDM - La mia vita disegnata male e Unastoria, oltre che regista, illustratore e altro ancora. All’epoca, Gipi pubblicò una vignetta che voleva essere ironica su certi slogan femministi; non tanto per porsi, direi, contro il femminismo in sé, ma più che altro contro l’esagerazione retorica che sta dietro appunto agli slogan. La vignetta, secondo me, non era forse delle più riuscite, ma rimasi stupito dallo scandalo e dalla levata di scudi che subito si levò: anche perché nessuno attaccava Gipi per aver fatto una vignetta poco incisiva, ma lo si accusava addirittura di voler colpevolizzare le vittime di stupro. Il clima, infatti, era ed è più o meno questo: tu puoi dire una cosa, ma poi qualcuno interpreterà quello che tu dici come più vuole; e quindi se vuoi ridicolizzare un modo superficiale di fare lotta politica (che sia femminista o meno, poco importa), sarai automaticamente etichettato come un nemico della lotta politica tout court. Ad ogni modo, da quella storia francamente non ho più sentito parlare di Gipi, né io mi sono troppo interessato alla sua situazione: davo per scontato che se ne fosse fregato, e fosse passato oltre. Poi qualche giorno fa mi sono imbattuto su YouTube in una recentissima intervista realizzata da Daniele Rielli che torna su quella questione – perché Gipi alla fine ci ha realizzato sopra un libro, appena pubblicato da Coconino, acquistabile qui – ma poi si allarga anche ad alcune recenti scelte di vita del fumettista. Ad esempio, tramite questa lunga chiacchierata – che si rivela bellissima ed interessantissima – sono venuto a sapere che in pratica Gipi da qualche mese ha “adottato” un gruppo di rom, spingendoli a regolarizzarsi tramite i documenti, a prendere la licenza media, a prendere la patente e a cercarsi un lavoro fisso, in un’opera che ha qualcosa di commovente. E Gipi racconta il tutto con grande leggerezza e semplicità, tanto che non si può alla fine non volergli bene. L’intervista è un po’ lunga, perché dura ben due ore e mezza, ma ogni minuto è secondo me importante: la trovate qui.
Zombieland - Doppio colpo (2019), di Ruben Fleischer, con Woody Harrelson, Jesse Eisenberg, Emma Stone: qualche settimana fa vi ho parlato di Benvenuti a Zombieland, divertente film a metà strada tra l’horror e la commedia che ho rivisto volentieri assieme alla mia famiglia. In questa settimana, però, abbiamo completato l’opera, perché abbiamo guardato anche il sequel uscito più di recente, Zombieland - Doppio colpo, in cui sono tornati – a distanza di dieci anni – tutti i protagonisti della pellicola originale, ormai cresciuti e/o invecchiati. A loro, come già nel primo film, si sono aggiunti poi per la verità pure degli ospiti speciali, come Rosario Dawson, Luke Wilson, lo stesso Bill Murray. L’esito complessivo? Un film godibile, simpatico, forse non al livello del primo – soprattutto perché si perde l’effetto sorpresa, ora che siamo abituati al pazzo mondo in cui i personaggi si trovano a muoversi – ma comunque divertente. Ci sono alcune forzature soprattutto riguardo alle scelte dei personaggi, ma ci sono anche alcune scene che strappano davvero la risata; inoltre gli interpreti sono tutti bravi e ben calati nella parte (soprattutto Harrelson, Eisenberg e Stone, che ormai sono delle sicurezze qualsiasi film facciano). Insomma, se vi piacciono gli horror, o almeno le commedie con un po’ di sangue che sprizza qua e là, può essere una scelta discreta. Lo trovate su Netflix.
Quello che ho pensato
Ripartiamo da Telmo Pievani e da quello che vi ho in parte già scritto nella sezione Quello che ho visto riguardo alla serendipità. Là, sfruttando le parole del filosofo della scienza che insegna a Padova, vi ho spiegato che la “serendipità”, come lui la chiama, consiste nell’incappare fortunosamente in indizi importanti per le scoperte scientifiche; indizi che però si è in grado di interpretare solo se si ha una “mente preparata” ad accoglierli, ad analizzarli, a interpretarli.
Ovviamente, si tratta di una cosa assai importante. Di fatto quella che lui chiama “serendipità” è la capacità di innovare, di intuire qualcosa di inaspettato, di far fare veri e forti progressi alla scienza (ma, aggiungerei, a tutta la società umana). Quando si studia e si lavora senza essere “serendipitosi” si fanno di sicuro dei progressi, ma sono dei progressi lenti, graduali; piccole implementazioni progressive. La scoperta “serendipitosa” è invece quella che ti fa fare un inatteso balzo in avanti, quella che innova davvero, che rivoluziona un settore. Molte delle più grandi scoperte della scienza sono di questo tipo: la penicillina di Fleming, i raggi X di Röntgen, la saccarina di Fahlberg e altre ancora. Forse potremmo inserire nella categoria pure l’eliocentrismo di Copernico, considerando che l’astronomo trovò la chiave per l’universo nei testi dei filosofi antichi e non direttamente nel cielo.
Questo, mi verrebbe da dire, può però accadere anche nelle nostre vite. Anche noi facciamo un percorso simile a quello degli scienziati: abbiamo davanti una realtà – noi stessi e il mondo che ci circonda – ignota, che vediamo ma che all’inizio non capiamo, e sulla base degli indizi che ci vengono forniti (i nostri pensieri, le nostre emozioni, le nostre stesse azioni, ma anche l’agire di chi ci sta attorno) cerchiamo di capire se c’è una legge che soggiace a ciò che siamo e ai nostri rapporti umani e sociali. Convinti che, trovata la legge, saremo in grado forse di governare meglio il nostro passato e magari pure il nostro futuro, almeno in parte.
Anche in questo caso possiamo procedere per piccoli e graduali aumenti della nostra conoscenza, utilizzando gli schemi concettuali che già abbiamo per capire meglio qualcosa di quello che avviene, per interpretare le mosse dei politici o degli amici, per inquadrare le nostre ansie e paure, per comprendere meglio le dinamiche familiari. Però di tanto in tanto possiamo incappare in qualcosa di inatteso, che ci fa capire d’improvviso una cosa a cui non avevamo mai pensato prima; e che magari, una volta capita, ci aiuta davvero a vivere meglio, o comunque a guardare con maggior tranquillità al dipanarsi degli eventi.
La serendipità, dunque, non è importante solo se fate ricerca in un laboratorio; perché anche la nostra vita, da un certo punto di vista, è una sorta di laboratorio, magari molto più complesso di quello del biologo o del fisico ma pur sempre un laboratorio. “Creare serendipità”, se vogliamo continuare a usare le espressioni di Pievani, è utile insomma anche per fare filosofia e non solo scienza.
Proprio in quell’intervento, però, il relatore spiega anche che è difficile se non proprio impossibile dare una formula della serendipità: che non c’è un algoritmo che ti permette di crearla a tavolino, a priori, proprio per la sua natura casuale e imprevedibile; ma spiega anche che è però possibile individuare delle condizioni “ambientali”, se vogliamo dir così, che possono favorire quella serendipità. Detta in altri termini: non c’è una formuletta magica che ti permette di fare queste scoperte imprevedibili, ma puoi costruire un ambiente e una serie di cose che rendono più probabile che queste scoperte avvengano.
Tra gli elementi citati da Pievani ce ne sono alcuni molto interessanti: lui parla ad esempio dell’esigenza di lentezza, perché quando si ha fretta (anche coi finanziamenti che vengono erogati per una ricerca) non c’è tempo per pensare in maniera diversa ai dati; parla di “trascuratezza controllata”, cioè della necessità ogni tanto di improvvisare e di rompere gli schemi; ma parla anche e soprattutto di due cose che a me stanno molto a cuore, cioè di interdisciplinarietà e della necessità di “uscire dalla bolla”. Soffermiamoci un attimo su questi due punti, che a ben guardare sono anche piuttosto semplici da comprendere e si rinforzano a vicenda.
Noi esseri umani abbiamo tanti difetti, ma uno dei più importanti è che tendiamo a chiuderci in noi stessi, e direi anche nei nostri pensieri. Chi più chi meno, siamo tutti condizionati da una sorta di disturbo ossessivo che ci porta a guardare le cose sempre e solo da un punto di vista (il nostro, sostanzialmente), magari anche con una certa capacità di analisi ma trascurando gli approcci diversi. Ne parlavo anche in apertura di questa newsletter, lamentandomi del fatto che i miei stalker personali che provano a telefonarmi su Messenger non sono in grado di mettersi nei miei panni (e forse nemmeno in quelli di nessun altro).
Per farvi capire cosa intendo, vi propongo un esempio che probabilmente si avvicina a qualcosa che avete tutti vissuto nella vostra esistenza. Poniamo che, per una questione banale, litighiate con il vostro compagno o la vostra compagna di vita (o un genitore, un fidanzato, l’amica del cuore, chi volete voi): sulla prime, sarete risoluti nel difendere la vostra posizione, convinti che l’altro sia in torto e che voi abbiate assolutamente ragione. Litigi del genere ne nascono tutti i giorni.
Poniamo però che passino degli anni, che voi cresciate e maturiate, e che a distanza di diverso tempo possiate ritornare con la mente a quel vecchio litigio, magari sfruttando un diario che tenevate, uno vecchio scambio via chat che ricompare all’improvviso o altre cose del genere. Di cosa ci si accorge, in genere, in casi di questo tipo? Che ci eravamo focalizzati solo sui noi stessi, che magari avevamo anche ragione a difendere la nostra prospettiva e le nostre esigenze, ma che avevamo completamente ignorato le esigenze altrui e le prospettive altrui; che eravamo stati ciechi, senza nemmeno rendercene conto, e non per cattiveria o egoismo, ma proprio per una sorta di impossibilità di vedere la questione dall’altro lato.
Facciamo un altro esempio. Immaginate di crescere in una famiglia storicamente di sinistra, di essere figli e/o nipoti di uno storico dirigente del PCI, e che tutti all’interno del vostro ambiente siano comunisti o comunque esponenti di una sinistra radicale. A meno di conflitti e di ribellioni giovanili, è facile pensare che anche voi crescerete proclamandovi di sinistra, attenti ai diritti dei più deboli, interessati alla giustizia sociale e così via. Immaginate però che ad un certo punto, magari andando a studiare all’università, usciate da questo ambiente e vi innamoriate perdutamente di un’altra persona; e immaginate che discutendo con questa persona scopriate che essa non è affatto comunista, ma liberale e liberista. Questo può provocare, ovviamente, un conflitto interiore, anche qualche litigata: ma potreste anche accorgervi che l’altra persona sostiene il proprio punto di vista in buona fede, con argomentazioni che hanno anche una loro solidità, e che forse il vostro comunismo è in buona parte ingenuo, perché non avete mai provato a metterlo in discussione. Non dico che cambierete idea, ma capirete di non aver mai davvero affrontato il problema e di aver guardato le questioni sempre e solo da un’unica prospettiva. Dal confronto – difficile e faticoso, a tratti perfino doloroso – con la persona di cui siete innamorati uscirete di sicuro più maturi, in grado magari di rinnovare le vostre idee, in certi casi di cambiarle e in certi altri di mantenerle, ma comunque con una maggior consapevolezza.
Ecco, se in campo scientifico questo risultato si raggiunge con l’interdisciplinarietà e col confronto con “bolle” diverse, in campo umano il meccanismo è simile. Abbiamo bisogno di confrontarci con chi la pensa in maniera diversa da noi, con le idee alternative, con gli approcci e i punti di vista più disparati. Perché senza questo lavoro faticoso e difficile rimaniamo adoratori di un’idea che non abbiamo mai davvero provato a mettere in discussione, come bambini cresciuti che credono ancora a Babbo Natale senza aver mai provato a porsi la domanda se Babbo Natale esista davvero oppure no.
Il problema è che uscire dalla bolla e confrontarci col diverso non è facile, e molto – nella nostra società odierna – ci spinge nella direzione esattamente opposta. Pensate alla scuola: da anni, se non da decenni, il Ministero (che ha mille difetti, ma su questo punto credo abbia ragione) sta cercando di far lavorare gli insegnanti a un maggior collegamento tra le varie discipline, spingendo i docenti a lavorare per “nodi pluridisciplinari”, in modo che i ragazzi colgano l’unità del sapere e non si formino una mente iper-settoriale.
Questa è, credo, la via giusta, ma servono anche docenti in grado di promuovere questa interdisciplinarietà: servono cioè insegnanti formati in maniera meno settoriale e più ampia. È inutile, alle superiori, avere un docente esperto di fisica quantistica che non sa nulla di storia o di letteratura (o che addirittura le disprezza); o un docente di filosofia che critica a priori tutti progressi della scienza.
E, dirò di più: anche le nostre scuole superiori devono imparare ad essere più pluridisciplinari. Serve un equilibrio e un pluralismo tra le varie discipline: non ha più senso un liceo classico in cui si fanno così poche materie scientifiche, o un istituto tecnico industriale in cui si fanno poche materie umanistiche. Bisogna aumentare il carico di diversità: e quindi introdurre, ad esempio, informatica al classico o filosofia all’Itis, solo per fare un paio di esempi.
Ma ancora più importante è la questione della bolla. Come sottolinea anche Pievani nell’intervento da cui siamo partiti, da qualche anno gli algoritmi dei social network ci hanno spinti sempre più a chiuderci in noi stessi, rifiutando il confronto col diverso. Tecnicamente, questo è avvenuto perché gli algoritmi ci monitorano e ci profilano, e così facendo provano a scoprire cosa ci piace e cosa non ci piace, cosa pensiamo e cosa non pensiamo, in modo da proporci costantemente contenuti che potrebbero piacerci. L’effetto immediato di tutto questo è quello di rafforzarci nelle nostre convinzioni e nei nostri interessi, evitando che facciamo i conti con quello che ci dà fastidio vedere.
Prendiamo un esempio concreto: poniamo che una persona, all’inizio della guerra che si sta combattendo ora a Gaza, sia andata ad aprirsi la pagina di un sito web pro-Palestina, perché magari – pur sapendone poco della questione – ha sempre avuto una vaga simpatia per il popolo palestinese. E che l’abbia fatto però partendo da Google, che ha quindi monitorato il suo spostamento. Da quel momento in poi, Google comincerà a proporre (nelle sue news, e perfino nelle sue notifiche) altre pagine a favore dei palestinesi, senza mai proporre alcunché dal punto di vista israeliano. Questo porterà inevitabilmente la persona in questione a rafforzare la sua iniziale idea, a non porsi nemmeno il dubbio se Israele abbia anch’esso delle ragioni. L’esito inevitabile quale sarà? Che la persona in questione entrerà in una bolla abbastanza chiusa, che non comunica con le altre e che tende quindi a radicalizzarsi nelle sue convinzioni. Ovviamente il discorso può essere fatto anche al contrario: entrare in una pagina filo-israeliana e poi convincersi che Israele debba distruggere il popolo palestinese.
Purtroppo di queste bolle abbiamo parlato spesso, negli ultimi mesi, rimarcando come – a mio avviso – ci sia bisogno invece di farle scoppiare, queste bolle; di cercare cioè di porsi anche nella prospettiva altrui, senza necessariamente cambiare idea, senza diventare per forza sempre equidistanti, ma almeno facendo scelte più consapevoli e mature.
Basta entrare in qualsiasi social network per rendersi conto, però, che questo non avviene. Siamo tutti arrabbiati e convinti di aver ragione, tutti rancorosi e incapaci di guardare le cose dalla prospettiva degli altri: proprio come quegli innamorati che litigano senza capire che l’altro potrebbe certo avere torto, ma potremmo essere anche noi ad aver torto; e che magari, spesso, abbiamo in parte ragione e in parte torto entrambi.
Il risultato qual è? Credo che sia sotto gli occhi di tutti: una società sempre più divisa e arrabbiata, che non riesce ad affrontare davvero i problemi, rimandandoli; o che spera di affidarsi “all’uomo forte” perché non è in grado di dirimere da sola le questioni. La sfiducia che ci pervade nei confronti della politica, ma a volte perfino anche della scienza, dell’università e della scuola, è secondo me proprio figlia di tutto questo: non ci fidiamo degli altri perché ci confrontiamo sempre meno con gli altri e ci apriamo sempre meno alle riflessioni degli altri.
Come se ne esce? Ovviamente con uno sforzo. Ne parlavo anche, qualche giorno fa, in questo video, focalizzandomi sul bias di conferma, sulla nostra tendenza a cercare conferme più che smentite alle nostre idee; perché sentirci confermati in quello che già crediamo di sapere ci dà sicurezza e forza, mentre metterci in discussione ci fa sentire incerti e deboli. E invece è solo provando ad uscire dalla bolla che cresciamo, miglioriamo, capiamo più profondamente ciò che siamo e con chi ci relazioniamo.
Il fatto è che questo sforzo, me ne rendo ben conto, va anche dosato. Se all’improvviso ci buttiamo in un ambiente ostile, rischiamo di uscirne con le ossa rotte; se iniziamo a litigare tutto il giorno su Twitter con chi la pensa in modo diverso da noi rischiamo solamente di sentirci crescer dentro la bile e uscirne profondamente depressi.
Il confronto con le idee diverse va portato avanti coi tempi e coi modi giusti, gradualmente e senza sentirci immersi, all’improvviso, in un mondo senza più punti fermi o certezze.
Per questo – e scusate le fissazioni professionali – si dovrebbe partire proprio dalla scuola: da un luogo in cui queste diverse opinioni vengono presentate in un ambiente comunque controllato, sicuro, senza gente arrabbiata che ti urla dietro o ti lancia shitstorm addosso; in un ambiente che si affronta all’età giusta, quando si ha ancora una mente giovane e aperta al cambiamento; in un ambiente, per dirlo in un’unica parola, educativo.
Se educhiamo generazioni aperte al confronto, curiose di sentire i punti di vista altrui, senza verità già in tasca ma interessate alla ricerca, abbiamo persone che poi, qualche anno dopo, da adulte, potrebbero essere più propense a non farsi rinchiudere in bolle asfissianti. Persone, cioè, più “serendipitose” e aperte alla scoperta. Ci riusciremo?
Quello che ho registrato e pubblicato
Inevitabilmente, ora tocca all’elenco dei video e dei podcast che sono usciti questa settimana, in modo da poterli recuperare se ve li siete persi:
“La città di Dio” di Sant’Agostino: un video che mancava ancora nel catalogo, ma importante anche per la filosofia della storia
La filosofia di Francis Ford Coppola: parliamo del pensiero che sta dietro ad alcuni capolavori del cinema, come Il padrino e Apocalypse Now
Accadi e Sumeri in Mesopotamia: andiamo molto indietro nel tempo, conoscendo le prime civiltà mesopotamiche
Storia dei consumi 10: radio ed industria musicale: negli anni '20 negli USA cominciarono ad entrare nelle case i suoni
“Sulla libertà” di Stuart Mill - parte 9: continua la lettura integrale e commentata del capolavoro di John Stuart Mill
Dio come garante dell’evidenza (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Dal colonialismo all’imperialismo (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
Il canale YouTube | Instagram | Facebook | Twitter/X | TikTok
Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Italia longobarda di Stefano Gasparri: la storia dell’Italia sotto i longobardi è affascinante e significativa; solo che spesso la conosciamo poco. Questo testo dell’importante medievista Stefano Gasparri, già un classico nel suo genere, ci aiuta a fare il punto su quella fase della storia della nostra penisola, in modo chiaro e abbastanza conciso. Tra l’altro, il volume costa solo 12 euro e non può mancare nella biblioteca di un appassionato. Lo si può acquistare qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
Chiudiamo come al solito anche con qualche anticipazione su quello che dovrebbe arrivare nei prossimi giorni:
giovedì, se tutto va bene, parliamo di Rinascimento dal punto di vista storico;
venerdì, invece, probabilmente ritornerà la Filosofia per ragazzi, con una puntata dedicata alla politica platonica;
sabato vorrei riuscire a realizzare un Tutto Socrate in un’ora;
domenica, infine, potrebbe esserci l’appuntamento del Simposio per gli abbonati al canale dal livello Leopardi in su (ma vi darò conferma più avanti, in base a come finirà l’apposito sondaggio);
negli altri giorni, invece, spazio ai podcast, con Cartesio e l’imperialismo.
E questo è davvero tutto. È stata una newsletter perfino più lunga del solito, forse anche un po’ più pessimista e arrabbiata del solito, ma ogni tanto anche qualche piccolo sfogo ci vuole. Fatene buon uso. Ci rivediamo qui tra sette giorni esatti, quando avrò da raccontarvi anche del mio giro (l’ennesimo) al Parco di Monte Sole a Marzabotto e del mio incontro con i ragazzini di una scuola media qui della zona (sul tema dei social network). A lunedì!
Dopo aver letto "Il Simposio" consiglio di vedere "Il banchetto di Platone" , di Marco Ferreri.
Il film racconta interpretando con profondita' quello che ha scritto Platone.