Per un Capodanno con meno narcisismo, ma anche per parlare di Una poltrona per due, L'attacco dei giganti, Il giro del mondo in 80 giorni, Neil Gaiman, lo schwa e il 2023 nei libri e nei film
E quindi ci siamo, il 2024 è alla fine arrivato. Come avete passato la notte dell’ultimo dell’anno? Con le persone a cui volete bene? Oppure l’influenza, il Covid o le vicissitudini imprevedibili della vita vi hanno costretti a festeggiamenti in tono minore?
Negli ultimi anni ci siamo d’altra parte abituati a sorprese di questo tipo: proprio l’anno scorso – ricordavamo in famiglia – in effetti anche noi siamo stati costretti a un veglione molto sommesso per questioni di salute. Il che, a dirla tutta, non è un vero problema: quello che conta è tutto il resto dell’anno, non certo come si comincia. Alla faccia dei vari detti popolari, che vorrebbero che partire col piede giusto significasse essere già a metà dell’opera.
Io non sono solito prendere grandi risoluzioni, all’inizio dell’anno: mi capita spesso, per la verità, di assumermi degli impegni, o di scegliere di dare piccole svolte alla mia vita (iniziare a fare qualcosa e smettere di fare qualcos’altro, molto banalmente), ma di solito non aspetto il 1° gennaio per imbarcarmi nell’impresa. Quindi non ho grandi progetti a cui tener fede o programmi ben definiti: c’è già un percorso avviato in vari ambiti della mia vita, e direi che, con qualche aggiustamento in corso d’opera, si tratta soprattutto di andare avanti e proseguire.
Se dovessi però fare un augurio a noi tutti, all’Italia intera (e forse perfino al mondo, visto che so che ci leggono anche amici dalle Americhe e da altre zone d’Europa), direi che ci auguro di essere più concreti. Come capirete se avrete la pazienza di leggere i miei sproloqui nella sezione Quello che ho pensato, ultimamente mi capita spesso di pensare alla tendenza che abbiamo, sempre più netta, di parlare tanto e fare poco; di essere bravissimi a parole e poco nei fatti.
Sarà che questa è ormai la società dei social network, dove l’importante è fare le cose solo a patto di essere sempre a favore di fotocamera (perché il racconto, lo storytelling come dicono quelli bravi, pare essere diventato più importante della cosa raccontata), ma a me sembra che ci sia sempre la corsa a dire la propria, anzi a dire la cosa giusta, ma un grande deserto quando si tratta di trasformare quelle parole giusti in comportamenti concreti, in atti.
Insomma – e mi rivolgo soprattutto ai più giovani –, vi auguro di avere il coraggio di fare tanto e mostrarvi poco, di fare le cose giuste anche quando nessuno le vede, e di tenere qualcosa di bello per voi senza condividerlo necessariamente sui social, senza voler “ispirare” nessun altro. Magari, ci potremmo così rendere conto che si ispira di più coi fatti che con le parole, che si diventa davvero “influencer” (che brutta parola!) più con i comportamenti che con le narrazioni. Perché le narrazioni ispirano un momento, e poi vengono in fretta dimenticate; ma le azioni durano.
E questa consapevolezza, ovviamente, la auguro anche a me, perché non bisogna mai dimenticare di stare con i piedi per terra, come diceva il buon Montaigne.
Detto questo, bando alle ciance: il 2024 scorrerà via in fretta e bisogna cominciare a usare al meglio il tempo a nostra disposizione. E quale uso migliore, se non quello dedicato alla cultura, ai libri e ai film? Cominciamo.
Quello che ho letto
In lista questa settimana ci sono tre libri, anche se per la verità ne ho letti (e finiti) di più, approfittando di queste brevi vacanze da scuola; ma diciamo che non voglio bruciarmi tutti gli stimoli in una sola volta: qualcosa me lo tengo per le prossime settimane.
Coraline di Neil Gaiman: quando arrivo quasi alla fine dell’anno solare, mi sento in dovere di fare un po’ di conti, di vedere cioè cosa ho fatto e quanto ho fatto in quest’anno. Ne sono la prova anche i due video sui 10 libri e sui 10 film più belli che ho letto e visto quest’anno, che trovate linkati più avanti, nella sezione Quello che ho registrato e pubblicato: modi per fare il punto e raccontare magari anche a voi quello che emerge da questa ricapitolazione. E uno dei conti che faccio sempre, in questo frangente, consiste nel verificare quanti libri sono riuscito a finire nell’anno: non che cambi molto, in verità, averne letti due in più o due in meno, ma per un fatto di mera statistica mi piace capire quanti volumi sono riuscito a mettere in archivio. Ora, se i miei conti sono esatti, fino alla settimana scorsa avevo letto, nel 2023, un totale di 38 libri; anzi, ne avevo conclusi 38 (perché quelli iniziati erano qualcuno di più). Non è affatto una brutta cifra: sono più di 3 volumi al mese, uno ogni 10 giorni circa. Ne sarei abbastanza soddisfatto, se non fosse che nel 2022 di libri invece ne ho completati 48, quasi uno a settimana. Detta così sembra un crollo, un calo netto. In realtà, dietro, ci sono varie motivazioni: nel 2022 ho letto infatti anche svariati libri brevi, soprattutto fumetti, mentre nel 2023 in media mi sono dedicato a volumi un po’ più corposi, che quindi si concludono meno in fretta; inoltre nel 2022 sono riuscito a finire una serie di libri che mi portavo dietro con fatica dal 2021, mentre quest’anno mi sono imbarcato in alcuni volumi impegnativi che non sono ancora riuscito a concludere, e che finirò nel 2024. Insomma, per farla breve, credo che il numero delle pagine lette quest’anno sia molto simile al numero delle pagine lette l’anno scorso, ma il computo dei volumi è invece ben diverso. E allora la settimana scorsa mi son detto: forse però sarebbe il caso di dare un’ultima accelerata, cioè di leggere, in velocità, alcuni volumetti molto brevi, almeno per togliermi la soddisfazione di arrivare a quota 40, o magari anche oltre. E così, guardando in libreria tra i libri brevi ancora da leggere, mi sono rapidamente imbattuto in Coraline di Neil Gaiman, che sì, non avevo ancora letto, nonostante sia probabilmente uno dei racconti più famosi dello scrittore britannico. D’altronde, io con Gaiman ho un rapporto un po’ particolare: lo conosco fin dai tempi di Sandman, quando era ancora solo un oscuro scrittore di fumetti poco noto in Italia, e l’ho seguito lungo tutta la carriera, apprezzandolo spesso per l’impostazione e per le idee ma senza riuscire mai a farmelo davvero piacere fino in fondo. Non ho nulla, in realtà, da obiettare contro il suo stile o la sua filosofia, ma le sue storie non riescono mai a catturarmi davvero, forse anche solo per il fatto che la sua sensibilità (così attenta alla dimensione paranormale e mistica della realtà) è ben diversa dalla mia. Ad ogni modo, bisogna dire che Coraline è una storia particolare: ci sono tutti gli elementi tipici della scrittura di Gaiman, ma declinati in un’avventura pensata per i bambini o al massimo per i ragazzi, e con un sapiente uso delle tecniche thriller. Così ne viene fuori una favola dark che ha il sapore di un Tim Burton con venature più oscure. La storia infatti è quella della piccola Coraline, una bambina in parte trascurata dai propri genitori, che tramite una porta misteriosa passa in una sorta di dimensione alternativa abitata da una “altra” madre, che tenta di trattenerla con sé. Il libro cattura e inquieta allo stesso tempo: non so se sia proprio una buona lettura a Natale, ma se in famiglia volete spaventare qualche giovincello o qualche giovincella può essere sicuramente il libro che fa per voi. Se siete interessati, lo potete comprare qui.
Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne: qualche settimana fa vi raccontavo dell’ennesimo libro ascoltato in auto, con la famiglia al gran completo, durante lunghi spostamenti. E quel libro, iniziato ma al tempo non ancora finito, era Il giro del mondo in 80 giorni, celebre romanzo d’avventura ottocentesco di Jules Verne. Ebbene, quel libro questa settimana – complici le feste – in famiglia l’abbiamo finalmente finito. E, almeno per quanto riguarda mia moglie e il sottoscritto, questa lettura ci ha fatto tornare bambini: ci siamo esaltati davanti alle vicende incredibili e fantasiose di Phileas Fogg, alle ingenuità del suo servitore Passepartout, ai colpi di scena dovuti allo stupido poliziotto Fix. E per fortuna che ricordavo piuttosto bene il finale, altrimenti sarei rimasto ancora più sulle spine. Certo, si tratta di un romanzo per ragazzi, senza alcuna pretesa se non quella di emozionare e sorprendere; e però riesce a svolgere benissimo questo compito, oltre a risultare interessante, oggi, per il fatto di fornire un ottimo spaccato della mentalità positivista di fine Ottocento, piena di fiducia nel progresso e nella scienza, oltre che nel fatto che i ricchi e gli intraprendenti si meritassero il loro successo. Insomma, il libro può tranquillamente appassionare i ragazzi e gli adulti, ma per chi conosce anche un po’ la storia (soprattutto dell’Asia e dell’America, visto che si dilunga molto sull’India, Hong Kong, il Giappone e gli Stati Uniti) può essere anche interessante come documento di un’epoca. Tra l’altro, proprio scrivendo queste righe ho scoperto che su Rai 2 sta andando in onda l’ennesimo adattamento del romanzo, con David Tennant nel ruolo del protagonista: proverò magari a guardarlo. Intanto, se vi interessa la storia originale di Verne, la potete acquistare qui; se invece volete l’audiolibro che abbiamo ascoltato noi (e che è molto ben fatto), cliccate qui.
Così non schwa di Andrea De Benedetti: ci sarebbero molte cose da dire su questo breve pamphlet che l’anno scorso cercava di entrare nel dibattito sullo schwa. Le prime due che mi vengono alla mente però sono queste. Primo, ciò che un anno o due fa sembrava ineludibile, su cui tutti dovevano esprimere la loro opinione, oggi è quasi completamente dimenticato: nessuno parla più di schwa, segno che alle volte ci incartiamo a discutere di cose per il puro gusto di discuterne, dimenticandocene fin troppo facilmente quando veniamo distratti da altre questioni “di vitale importanza”, di cui ci dimenticheremo altrettanto rapidamente. Secondo, mi ha subito stupito la differenza di trattamento riservata al volumetto, nelle recensioni degli utenti, su Amazon e su GoodReads (importante social network di lettori): nel primo caso le recensioni sono molto positive, e il voto medio è 4,5 su 5 (altissimo, per gli standard di Amazon), mentre su GoodReads il voto medio è invece 3,36 sempre su 5. I lettori di Amazon gli danno insomma 9, quelli di GoodReads 6 e mezzo. Non è una differenza da poco, ma che dice, secondo me, poco del libro e molto di come la gente si rapporta alla questione schwa: su GoodReads ci sono molti che si considerano attivisti, e che infatti rimproverano al libro di De Benedetti non di essere incoerente o scritto male, ma di aver criticato con un po’ di supponenza il punto di vista degli attivisti; su Amazon, invece, scrivono persone di età probabilmente più alta, che infatti elogiano il libro non per come è scritto ma proprio per aver criticato con un po’ di supponenza il punto di vista degli attivisti. Alla fine, quello che realmente De Benedetti ha scritto conta cioè fino ad un certo punto; conta di più la posizione (politica) del lettore. Che è in fondo lo stesso problema dello schwa in generale: a nessuno (o quasi) interessa se funzioni, si tratta solo di essere a favore o contro quest’idea per posizionarsi da qualche parte, anzi per sentirsi dalla parte giusta. Il punto più forte del saggio di De Benedetti sta proprio qui: aver mostrato che il rapporto costi-benefici, nell’uso dello schwa, è negativo, perdente, perché i costi (cioè le difficoltà ad imporre questa possibile riforma linguistica) sono enormemente maggiori dei vantaggi (la supposta inclusività). Ci sono modi, in effetti, molto più semplici di risolvere la questione del maschile sovraesteso: ad esempio usare sempre e comunque maschili e femminili insieme. Non dire, cioè: «Salve, ragazzi» (dimenticando così le ragazze), ma «Salve, ragazzi e ragazze» (o «ragazze e ragazzi»). Sarà più lungo, ma è comunque più facile di «Salve, ragazzə», che quasi non si trova sulla tastiera del computer, non si riesce a scrivere in corsivo e soprattutto nessuno sa bene come pronunciare. E, guardate bene, è una soluzione semplicissima, facile da adottare, che probabilmente non avrebbe neppure generato troppi problemi o troppi dibattiti (l’unico suo limite: non tener conto delle persone non binarie, ma ogni soluzione ha qualche limite). Eppure una soluzione così semplice non la propone nessuno. Perché? Forse perché lo scopo di chi propone lo (o la? o lə?) schwa a volte non è, temo, risolvere un problema, quanto proprio creare uno scontro e una polemica; polarizzare il dibattito. Altrimenti, una soluzione così astrusa non si spiega. Il libretto – veloce, forse incompleto ma comunque interessante – se volete potete comprarlo qui.
Quello che ho visto
E per quanto riguarda i film? In realtà, come noterete, nell’elenco di questa settimana c’è una sola pellicola cinematografica, e pure piuttosto datata, mentre il resto del menù è completato addirittura da due cartoni animati.
L’attacco dei giganti episodi 1.07-1.08 (2013), di Tetsurō Araki: un paio di settimane fa vi avevo detto di essere abbastanza stupito dalla velocità di evoluzione della trama de L’attacco dei giganti, uno degli anime di maggior successo degli ultimi anni che però io, disgraziatamente, non avevo ancora visto. E quando lo scrivevo non avevo ancora guardato le puntate 7 e 8, che oggi mi portano a calcare ancora di più la mano: senza che vi riveli i colpi di scena contenuti nelle trame di questi due episodi, qui, infatti, avvengono degli ulteriori eventi inattesi e il mistero si fa più fitto. Non so ancora dire, per la verità, se la serie mi stia piacendo: il suo carico di violenza e di dramma mi pare a volte eccessivo; ma di sicuro mi incuriosisce e mi sta facendo venir voglia di andare avanti e vedere cos’altro mi riservano i prossimi episodi. Se vi interessa, la serie la trovate su Amazon Prime Video.
Una poltrona per due (1983), di John Landis, con Dan Aykroyd, Eddie Murphy, Jamie Lee Curtis: non è Natale senza Una poltrona per due, dicono in molti. Questo film, negli ultimi anni, è infatti diventato per la TV quello che Last Christmas degli Wham! è per la musica: l’elemento che fa davvero capire che il Natale è arrivato. A dire la verità, però, io non rivedevo la pellicola di John Landis da parecchi anni, tanto che nemmeno i miei figli (e il più grande, di anni, ormai ne ha 16) l’avevano ancora mai vista. Nella mia memoria, tra l’altro, il ricordo non era quello di un gran film: mi ero convinto che raccontasse una storia abbastanza banale, scontata, e che riuscisse anzi a piacere ancora così tanto proprio per la sua prevedibilità e per il fatto di essere sostanzialmente innocuo. Qualche giorno fa – a Natale già superato – ho però proposto al resto della famiglia di vedere questo benedetto film, più che altro perché pensavo che poteva essere utile fornire ai figli qualche coordinata su questa pellicola di cui a dicembre parlano tutti; così l’abbiamo recuperata su Sky. Ecco, devo dire che rivedere il film dopo tanti anni mi ha fatto cambiare idea: certo, non si tratta di un capolavoro, ma Una poltrona per due è in realtà proprio un bel film, intelligente e divertente al tempo stesso. Sì, si capisce fin dall’inizio come andrà a finire e che il bene trionferà, però la satira è pungente: i due fratelli Duke sono ritratti come avidi e cinici, la fidanzata di Dan Aykroyd come una donna algida e superficiale, e così tutto il gruppo di amici, mettendo ben in evidenza le forti venature razziste e snob dei loro comportamenti. E in più tutto il meccanismo della borsa, del profitto slegato dal lavoro, viene sostanzialmente messo alla berlina. Forse, dal punto di vista morale, manca la redenzione finale: perché i due eroi “sconfiggono” i due cattivi al loro stesso gioco, in un certo senso sostituendosi a loro, diventando ancora più ricchi di loro; quando forse, per una vera e propria vittoria etica, avrebbe avuto più senso la scelta di uscire dalla logica del profitto iper-capitalistico. Ma si era pur sempre all’inizio degli anni '80, e si poteva essere anti-reaganiani (avete notato le foto di Nixon e di Reagan sulle scrivanie dei fratelli Duke?) solo fino ad un certo punto. Ad ogni modo, un film migliore di quanto mi dicesse la memoria, e che non a caso a suo tempo rivitalizzò o lanciò le carriera di tutti gli attori coinvolti: Dan Aykroyd dimostrò di poter essere protagonista anche senza John Belushi (morto l’anno prima) al proprio fianco; Eddie Murphy, che aveva appena 22 anni ed era al suo secondo film, diventò una star; Jamie Lee Curtis rese evidente di poter recitare anche in commedie; Ralph Bellamy e Don Ameche, i due fratelli Duke, poi sono letteralmente spettacolari. Lo trovate ancora su Sky.
Il giro del mondo di Willy Fog episodi 1 e 2 (1983), di Fumio Kurokawa: vi ho già parlato, nella sezione Quello che ho letto, di come la lettura (anzi, l’ascolto) de Il giro del mondo in 80 giorni abbia risvegliato in me e mia moglie alcuni ricordi d’infanzia. Ricordi legati sì al libro, ma, soprattutto nel caso di mia moglie, anche al cartone animato tratto dalla storia di Verne, cartone che lei ricorda benissimo e che a metà degli anni '80 andava in onda sulle reti Mediaset (anzi, all’epoca Fininvest). Così, dopo aver finito il libro, la mia gentile signora si è ingegnata a cercare di recuperare il cartone: e dopo averlo cercato su tutte le diverse piattaforme, si è accorta che le varie puntate sono addirittura disponibili su YouTube (qui trovate la playlist completa, in ordine). Insomma, ci siamo messi coi bambini a guardarne un paio di episodi, trovando l’adattamento globalmente abbastanza fedele al libro di Verne, se non fosse per il mutamento di nome del protagonista (da Phileas Fogg, che evidentemente suonava troppo ottocentesco, a Willy Fog) e di Passepartout (trasformato, non so perché, in Rigodon), oltre che per l’aggiunta di un ghiro che fa da spalla proprio al domestico. Certo, al di là dell’effetto nostalgia il cartone appare piuttosto datato, un po’ lento e convenzionale, ma comunque può risvegliare bei ricordi. Cercatelo, se volete, su YouTube.
Quello che ho pensato
Sarà che queste parole le sto scrivendo durante le feste natalizie, e il clima è quello che è. Sarà, anche, che so già che usciranno nella newsletter del 1° gennaio, data sicuramente particolare, perché è quella che tradizionalmente associamo ai buoni propositi, ai cambi di rotta, alle grandi risoluzioni. Per un motivo o per l’altro, però, la sezione Quello che ho pensato di questa settimana, ve lo dico già, sarà diversa dal solito, forse perfino dura, o quantomeno più dura del normale; ma ci sono cose che prima o poi vanno dette. Non prendetevela, non ce l’ho con nessuno in particolare: ce l’ho con me e ce l’ho con tutti noi. Non chiudetevi dunque neppure sulla difensiva, cercate di cogliere qualcosa, da questo discorso, che possa essere da stimolo per voi e per quelli che avete attorno.
Quale dovrebbe essere il buono proposito di quest’anno che sta iniziando? Secondo me ce n’è uno molto urgente, che dovremmo cercare di perseguire tutti: vivere un po’ meno dentro di noi e un po’ più fuori di noi. Vivere un po’ meno per noi stessi e un po’ di più anche per gli altri.
Badate bene: non penso che la nostra epoca sia, di per sé, un’epoca egoistica. Si fa beneficienza, si fa volontariato, c’è tutto sommato ancora un senso di solidarietà e di aiuto reciproco. Non è questo il problema; il problema è che siamo non egoisti ma egocentrici. Che pensiamo sempre e solo a noi stessi, alla nostra realtà, al nostro piccolo mondo; anche quando facciamo beneficienza, lo facciamo in primo luogo per noi, e solo dopo per gli altri.
Vi faccio solo qualche esempio, per farvi notare come questo ripiegamento su noi stessi mi pare sempre più evidente. Prendiamo la scuola: un tempo, fino a 30 o 40 anni fa, i figli si mandavano a scuola e dovevano cavarsela; se andavano bene erano bravi, se andavano male erano meritevoli di rimprovero, ma nessun genitore si sentiva poi così tanto coinvolto o responsabile dei loro risultati. Salvo eccezioni rarissime, nessun genitore, davanti a un 4 di uno studente, si diceva: «È colpa mia» e si sentiva particolarmente in colpa per questo. Mai. Era sempre e solo colpa del ragazzo. Così come nessun genitore, davanti a un 8, si diceva: «È merito mio». C’era il genitore da un lato e c’era il ragazzo dall’altro; e i risultati del ragazzo riguardavano il genitore solo di rimando, di sponda, mai direttamente. Oggi non è più così: i genitori si sentono sempre più spesso chiamati in causa; si sentono sempre più spesso responsabili dei loro figli fino alla maggiore età, e a volte anche oltre, cosa che crea anche discreti problemi di maturità e maturazione ai giovani di oggi.
Questo, ovviamente, non vuol dire affatto che quei genitori siano egoisti: tutt’altro. Assumere questo atteggiamento nei confronti dei figli ti obbliga, anche, a sacrificarti molto di più per loro, a star loro dietro continuamente, a faticare il doppio; e però, fa sì che quei figli finiscano per vivere spesso nella tua ombra, non diventando (se non relativamente tardi) persone complete e autonome, ma rimanendo a lungo un riflesso di te. Attenzione: ci sono ancora tantissimi genitori che vivono in maniera sana il rapporto coi figli; ma questa tendenza a far vivere i figli come estensione del proprio ego è sempre più diffusa.
Facciamo un altro esempio: l’esplodere della psicologia, della ricerca del “benessere mentale”, di forme più o meno varie di spiritualità. Oggi sempre più persone cercano di capirsi, di sondarsi: vanno dallo psicologo, dallo psichiatra, dal guru, dal consulente; perfino a me, che non ho nessuna qualifica, spesso si chiedono dei consigli di natura interiore. Ora, in questo non c’è nulla di male, anzi: la salute mentale è importante, e rivolgersi a uno specialista può essere più che utile. Ma il ricorrere sempre più spesso a forme di aiuto di questo tipo non è solo dovuto, mi sembra, a una maggior apertura e a una maggior consapevolezza davanti a queste pratiche, bensì anche al fatto che siamo sempre più chiusi in noi stessi. È il sintomo di un malessere generale, diffuso, che consiste in un mondo che si riduce – magari non per scelta – sempre più alla propria cameretta.
Terzo esempio: a nessuno interessa più la politica. E non intendo, si badi bene, la politica dei partiti, questo o quel leader, questa o quella formazione. A nessuno interessa più la politica intesa come idea di comunità. Decenni di antipolitica, mescolati alla pesantissima crisi delle vecchie ideologie, hanno prodotto un individuo che si interessa alla politica solo quando la politica ha qualcosa da dargli in cambio (perlopiù sgravi fiscali), o solo quando può trarre dalla politica una soddisfazione del proprio ego. Nessuno vuole fare più niente, né vuole difendere i diritti (o reclamare i doveri) degli altri. Vi basti questo ulteriore esempio: da anni è difficilissimo, nella mia scuola, trovare dei ragazzi che si candidino alla carica di rappresentante d’istituto. Da quattro o cinque anni non riusciamo ad avere più di una lista in corsa (quindi i candidati risultano tutti automaticamente eletti, per mancanza di concorrenza); e spesso perfino quest’unica lista è incompleta, con meno candidati dei posti disponibili. Che è un po’ quello che succede anche nei piccoli comuni, dove si fa sempre più fatica a trovare sindaci e assessori disponibili ad assumersi l’onere di lavorare per la comunità.
Poi, come dicevamo anche sopra parlando dello schwa, ci sono tanti che si dicono attivisti, che sui social scrivono di politica, che piazzano un pronome di fianco al proprio nickname: ma questa non è vera politica per la comunità, perché la comunità (il tuo vicino di casa, il tuo genitore, il tuo collega di lavoro) neppure si accorge del tuo pronome. La tua presa di posizione sui social non cambia il mondo; il tuo post in cui dici che è una vergogna che il tal politico abbia detto la tal cosa non cambia il mondo.
Sono solo impressioni personali? Sì, mi rendo ben conto che potrebbero essere anche idee campate per aria, suggestioni raccolte da piccole vicende individuali. Per la verità, però, anche la psicologia e la sociologia stanno da tempo indagando quella che pare essere una tendenza diffusa. Vari studi (ad esempio qui e qui) sembrano rimarcare, negli ultimo 10 o 15 anni, un netto aumento dell’individualismo (inteso come vivere in una dimensione puramente individuale: quello che sopra ho chiamato egocentrismo) nei paesi occidentali e sviluppati, anche se con toni e modalità diverse da paese a paese. E questi studi risalgono a prima del Covid: oggi la situazione potrebbe essere anche peggiore, perché certo quella fase non ci ha fatto bene da questo punto di vista.
Ma il problema, dicevo, è di lunga data. Un libro importantissimo, in questo senso, è stato quello di Christopher Lasch, La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive, pubblicato in italiano se non erro per la prima volta nel 2001, ma risalente in originale a qualche anno prima. Lasch già mostrava come in Occidente il concetto di socialità fosse sempre più in crisi, con un deterioramento dei legami sociali a favore di una corsa alla pura auto-realizzazione personale. Quello che conta non è riuscire a migliorare il mondo, con tutti gli inciampi del caso, ma solo migliorare se stessi. Il noi non conta più, sostituito sempre più spesso dall’io; o al massimo da un tu che ricade però pur sempre nell’io (io e te, non noi).
Nelle note editoriali del libro di Lasch, ad esempio, si leggono parole che suonano inquietantemente attuali: «Superficialmente tollerante, [l’uomo di oggi] è in realtà privo di ogni solidarietà e vede in ciascuno un rivale con cui competere. Si ritiene affrancato dai tabù, e non ha tuttavia alcuna serenità sessuale. Loda il rispetto delle norme e dei regolamenti, ma nella segreta convinzione che non si applichino nei suoi confronti. Non ha interesse per il futuro, e nemmeno per il passato, che gli appare come un insieme di modelli superati, con mode e atteggiamenti antiquati. Vive, così, in un mondo dell’eterno presente che rispecchia pienamente la miseria della sua vita interiore, un mondo che fa della nostalgia “un prodotto commerciale del mercato culturale” e che “rifiuta immediatamente l’idea che in passato la vita fosse, per certi aspetti rilevanti, migliore di quella d’oggi”».
Il calo della natalità, solo per citare un altro esempio che riguarda da vicino la nostra Italia, è indubbiamente legato anche a questa dimensione. Certo: ci sono i problemi del lavoro, una mancanza di equità nei permessi genitoriali tra padri e madri, la mancanza di asili nido e tutto il resto; però c’è anche un ripiegamento su se stessi che porta a dire: prima devo realizzarmi io, poi eventualmente penseremo a qualcos’altro.
(Non che si debba, come dicono certi esponenti del governo, avere come massima aspirazione il mettere al mondo dei figli; nella vita è giusto che ognuno trovi la sua aspirazione, che può essere mettere al mondo dei figli, adottare dei cani o dei gatti, scoprire una nuova cura per il cancro o far soldi a palate da condividere coi propri cari; ma mi piacerebbe che questa aspirazione non fosse solo declinata in una chiave individuale, ma un po’ più ampia, che vada oltre il singolo)
Questo ripiegamento su se stessi non è, ripeto, una mossa egoistica o pigra: perché anche per realizzare se stessi bisogna faticare, e molto. Spesso queste scelte sono anzi più faticose e dolorose delle altre, perché l’autorealizzazione – come le ansie della società contemporanea ci insegnano – può essere fonte di uno stress ben maggiore di quello dei nostri nonni e delle nostre nonne; perseguire la carriera può essere più stressante che far dei figli. Non è egoismo, ma appunto egocentrismo, termine che uso in modo puramente tecnico e non moralistico: ci viene estremamente più facile pensare prima a noi stessi, al nostro io, perché tutto ci spinge in quella direzione.
Questa potrebbe sembrare una tendenza naturale delle società evolute, e in parte è sicuramente così: la specializzazione lavorativa, la diffusione pervasiva di mezzi di comunicazione a distanza, perfino il modo in cui le malattie si propagano tendono a spingerci naturalmente verso una dimensione più intima dell’esistenza, meno sociale. Tutto lo sviluppo economico sembra dirci: non c’è bisogno che tu esca, puoi rimanere a casa; non c’è bisogno che tu faccia amicizia dal vivo, puoi conoscere persone a distanza; non c’è bisogno che ti sporchi le mani col mondo, puoi farle sporcare al robot di turno.
E però, pensiamoci un attimo: tutto questo arricchisce o impoverisce la nostra esperienza di vita? Detta in maniera più netta: da quando questa tendenza ha cominciato ad imporsi, stiamo meglio o stiamo peggio?
A me, brutalmente, pare che stiamo globalmente peggio. Che ci sentiamo più soli e spersi; soprattutto, che ci sentiamo più incerti, insicuri della strada che stiamo facendo. Ed è un po’ paradossale, se ci pensate bene: perché più tempo passiamo a pensare alla nostra vita, meno la capiamo; più rimaniamo da soli con noi stessi, meno stiamo bene con noi stessi.
Può darsi che questo tipo di esperienza l’abbiate vissuta sulla vostra pelle, in determinati momenti della vostra vita. A me è capitato più volte: pensare troppo alimenta i problemi, vivere aiuta a risolverli. Quando c’è una grande questione, come ad esempio una grande decisione da prendere, non serve a nulla star dentro casa per due settimane a pensare, a scandagliare ogni possibile esito delle nostre scelte, a spaccarci la testa; è molto meglio pensare facendo, agendo. Agire spazza via dalla strada tutto ciò che è inutile, tutto ciò che è di troppo; e ti costringe a fare i conti solo con quello che conta davvero, con quello su cui vale la pena soffermarsi, tralasciando tutto il resto.
Agire spazza via, soprattutto, questo narcisismo imperante, questo ripiegamento nel nostro io, come se fossimo gli unici abitanti della Terra. Avete notato, per inciso, quanti film, quanti fumetti, quanti libri negli ultimi anni si chiedono come vivremmo se fossimo soli al mondo? Come a dire: la fantascienza rielabora quello che in realtà già pensiamo di vivere, perché ci sentiamo di fatto già soli al mondo.
Agire però ci costringe a uscire da noi stessi e fare i conti con la vita. Abbiamo bisogno di questo, nel 2024: di tornare un po’ ad agire, e ad agire assieme agli altri. I nostri ragazzi hanno bisogno di fare i conti con i loro compagni di classe, anche quando sono antipatici e fastidiosi; e i nostri giovani di frequentare un po’ meno la palestra e un po’ più il campo di pallone. Abbiamo bisogno di fare più politica e confrontarci più con gli altri, anche quando questo implica delle litigate e un certo fastidio alla bocca dello stomaco. Abbiamo bisogno di sopportare i parenti noiosi o razzisti, e parlarci, senza rintanarci dentro al cellulare per evitare di litigare. Abbiamo bisogno anche di tornare a votare, e votare chi abbia un progetto di comunità in cui non si chiede solamente, ma anche si dà, in cui non si va in giro a pretendere vantaggi ma ci si rimbocca le maniche per offrire giustizia agli altri prima che a noi.
Abbiamo bisogno di essere meno approfittatori e più dispensatori (di aiuto, di gioia, di umorismo, di cultura). Abbiamo bisogno di fare cose gratis per gli altri, per il gusto di farle, anche quando non otterremo nulla in cambio (anzi, soprattutto quando non otterremo nulla in cambio).
Abbiamo bisogno di restare qui, senza scappare, davanti alle difficoltà. Abbiamo bisogno di sacrificio, di sofferenza, a patto che questo sacrificio serva agli altri.
Abbiamo bisogno di far figli, o di adottare bambini, o anche solo di adottare animali, esseri viventi, piante, o di fare volontariato, o di amare qualcuno sul serio: di sacrificarci insomma per qualcun altro. Qualcuno che non sia solo un’estensione del nostro ego, che non sia solo una propaggine di noi; ma qualcuno che abbia una propria autonomia, un proprio pensiero, delle proprie esigenze. Qualcuno che ci possa deludere, che ci possa sputare in faccia.
E, forse vi stupirà, ma lo dobbiamo fare anche per egoismo. Sì, perché la vita del narcisista non è mica una vita felice: è una vita di costante fuga, come ci insegnava già Kierkegaard; è una vita in cui si evita il confronto vero con l’esistenza, in cui si rimanda il conto con noi stessi. Ed è per questo che abbiamo bisogno di così tanti psicologi, pillole e palliativi: la vita del narcisista è incredibilmente insoddisfacente.
La vita della socialità, invece, sarà una vita più difficile perché ci costringerà a compromessi, ma sarà una vita molto più remunerativa. Quando ci si sacrifica per gli altri, alla fine si ottiene sempre qualcosa in più da quegli altri, si espande il proprio io; quando ci si sacrifica per se stessi, non si ottiene nulla di più del proprio io, di quello cioè che si aveva già in partenza.
Per questo Spinoza ci aveva visto meglio di Nietzsche. Quest’ultimo ci invita, a ben guardare, a una vita estremamente individualista: davanti alla fine delle illusioni e alla morte di Dio, la sua soluzione è quella di diventare padroni di noi stessi, fidandoci solo della nostra prospettiva. Quello di Nietzsche è egocentrismo allo stato puro.
Spinoza, che pure partiva da alcune considerazioni simili a quelle di Nietzsche, più saggiamente proponeva una vita diversa: perché da un lato, certo, c’era bisogno di dominare se stessi, di trovare una propria dimensione (in quella che Spinoza chiamava la “vita secondo ragione”); ma se si voleva essere davvero felici, bisognava fare un passo in più, passando all’amore intellettuale di Dio.
Cos’era quell’amore di Dio? Niente di mistico, perché per Spinoza Dio era essenzialmente la realtà, la natura. E allora amare Dio significava amare il mondo, vederlo come un tutto molteplice, plurale, ma allo stesso tempo unito e necessario. Significava capire che non c’erano, in realtà, un io e un tu, ma che siamo tutti intrecciati in maniera indissolubile, e che c’è solo un noi. Un po’ quello che anche Jean-Luc Nancy, grande studioso anch’egli di questi tempi narcisistici, sintetizzava nella formula “Essere singolare plurale”: l’essere è il legame che si instaura tra il singolo e il molteplice, tra l’individuo e la società, tra l’uomo e la natura.
Dobbiamo, per farla breve, ritornare ad avere dei legami. Negli ultimi anni ne abbiamo recisi molti; ma sono questi legami che rendono sensata l’esistenza.
Ecco allora che il buon proposito per il 2024 – o almeno quello che io vi auguro di perseguire – dovrebbe essere questo: imparare ad essere sì singolari, ma anche plurali. Provateci, e poi a fine anno, a fine 2024, vedrete se ne è valsa la pena.
Quello che ho registrato e pubblicato
Facciamo come al solito anche il punto dei video e dei podcast usciti questa settimana; non sono stati molti, a causa delle feste, ma spero che siano comunque interessanti:
I 10 libri più belli che ho letto nel 2023: a fine anno bisogna sempre fare il punto su quello che si è fatto, anche dal punto di vista culturale
I 10 film e serie più belli che ho visto nel 2023: come da regola imposta da questa stessa newsletter, oltre che dei libri bisogna parlare anche dei film
Il platonismo inglese e il libertinismo (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
La vita e le opere di Blaise Pascal (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Austria e Russia a fine Ottocento (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
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Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
La cultura del narcisismo di Christopher Lasch: visto che ne abbiamo parlato nella sezione Quello che ho pensato, oggi ho pensato di proporvi quello che è un classico della sociologia degli ultimi decenni: La cultura del narcisismo di Christopher Lasch. Io lo lessi per la prima volta all’università, per un esame in cui non capivo bene cosa c’entrasse col resto del programma, e devo dire anche che per molto tempo mi sono dimenticato dei suoi contenuti; ultimamente però mi sta ritornando alla mente, visto che è anche molto importante (e non è escluso che presto non mi rimetta io stesso a leggerlo). Se volete farmi compagnia, e vi assicuro che (stando alla mia memoria) ne vale la pena, lo si può comprare qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
Cosa ci aspetta nella settimana appena cominciata? Intanto il ritorno a un buon ritmo di video e podcast (ne usciranno se tutto va bene sette, senza pause, quindi le vacanze sono ufficialmente finite); ma poi, in particolare, questi temi:
mercoledì vorrei far uscire il primo video di una nuova miniserie, dedicata alla storia delle Olimpiadi (o, meglio, alle Olimpiadi più importanti dal punto di vista storico);
giovedì arriverà un nuovo capitolo della serie dedicata alla filosofia e alla storia degli scrittori, con una prima puntata su Luigi Pirandello (a cui ne seguiranno altre);
venerdì torneremo a parlare di storia antica, con le prime civiltà dell’estremo oriente;
domani e probabilmente sabato e domenica prossimi ci sarà spazio poi per i podcast, con puntate su Blaise Pascal e sui paesi extraeuropei a inizio Novecento;
infine, domenica o lunedì (o comunque poco dopo) per gli abbonati ci sarà l’appuntamento del Club del Libro, in cui discuteremo del Tractatus di Wittgenstein: la data la definiremo meglio tra qualche giorno con apposito sondaggio.
E questo è tutto. Vi auguro allora di iniziare al meglio questo 2024 e soprattutto di tener fede il più possibile agli eventuali buoni propositi; ricordando, comunque, che questi buoni propositi sono fatti anche per essere mancati, e che quello che conta non è arrivare da qualche parte, ma iniziare a muoversi. Buon anno!
No , un momento , professore . bisogna distinguere , facendo attenzione a non confondere egoismo ed egocentrismo , si tratta di due atteggiammenti ben diversi per la psicologia!
L egocentrico non e' un egoista , che agisce per procurare un danno agli altri e favorire se stesso , ma soltanto chi , in buona fede , mette se stesso al centro del mondo ,
nei suoi pensieri !!!