Proviamo a rivalutare il lavoro, confrontandoci anche con Marco Aurelio, gli Sdraiati, Piccole donne, Napoli milionaria, Guglielmo di Ockham, gli scettici, Benjamin Labatut e Nuccio Ordine
Di solito i buoni propositi e soprattutto i bilanci sui mesi passati si fanno il 1° gennaio, in modo da iniziare col piede giusto il nuovo anno e cercare di non commettere nuovamente i vecchi errori, cambiando direzione laddove serva. A volte però questa data così simbolica non viene presa in considerazione, e si finisce per fare questi conti quando capita, o quando una serie di circostanze fortuite ci porta a un doveroso riepilogo.
Così sta accadendo in questi giorni anche a me: il 1° gennaio forse ero troppo preso da altri pensieri, o forse non era il momento giusto; ma in questi giorni sto facendo i conti su quello che ho fatto nell’ultimo anno e su quello che intendo fare nel prossimo. Il 2023 è stato infatti un anno molto intenso e per certi versi faticoso, e devo dire che, ripensandoci, non tutti gli sforzi sono stati proporzionati; ovvero, detta in termini più brutali, mi sto rendendo conto che ho dedicato troppo tempo ad alcune cose che forse non lo meritavano del tutto.
Fare di tanto in tanto un bilancio è proprio per questo estremamente utile, a mio avviso: aiuta a capire quali sono le cose che più importano, e dove dirigere le proprie risorse, siano esse energie, tempo o attenzioni. Come dicevano i più grandi filosofi antichi (Seneca in primis), il tempo è la risorsa più preziosa che abbiamo, ma tendiamo a usarlo senza coscienza, sperperandolo dietro a cose poco sensate, o alle richieste degli estranei; e questi bilanci sono utili per correggere un po’ il tiro e riprendere il possesso del proprio tempo.
I prossimi mesi serviranno, dunque, a ristabilire qualche priorità. Niente di dirompente, sia chiaro: continuerò a far video e ad essere molto attivo sul versante della divulgazione storico-filosofica, ma magari cercherò anche qualche altra via per fare quello che faccio. Il canale, d’altronde, continua a crescere a ritmi sostenuti, e capire dove si sta andando e soprattutto dove si vuole andare diventa ormai d’obbligo.
Comunque di questa cosa riparleremo di sicuro, sia in questa stessa newsletter (nella sezione Quello che ho pensato), sia più in generale in futuro, perché sono riflessioni che avranno presto o tardi anche qualche esito concreto. Intanto cominciamo come sempre a presentare quello che ho letto, visto e pensato questa settimana.
ps.: piccola nota campanilistica, prima di cominciare per davvero: questa settimana ho accompagnato i miei ragazzi del liceo in due uscite in città. La prima, il 25 gennaio, è stata dedicata a presentare in Comune a Rovigo un progetto che sto seguendo assieme agli studenti del PCTO Archivio Storico Digitale della mia scuola: si tratta di un approfondimento sulla storia degli Internati Militari Italiani (IMI) che furono detenuti in Germania durante le ultime fasi della Seconda guerra mondiale. Raccoglieremo documenti, li analizzeremo e prepareremo una piccola mostra che sarà ospitata dalla nostra città nel 2025, 80° anniversario della liberazione. La seconda uscita è avvenuta il giorno dopo, il 26 gennaio, ed è stata più “tradizionale”: su proposta del collega di disegno e storia dell’arte, ho accompagnato assieme a lui una mia quinta a visitare la mostra dedicata alla grande fotografa Tina Modotti, che è stata ospitata dalla mia città negli scorsi mesi. Ne avevo già parlato perché personalmente l’avevo già visitata una volta, e d’altronde adesso è un po’ inutile che mi dilunghi con voi perché ormai la mostra ha chiuso; ma mi piaceva rimarcarlo perché Rovigo è diventata ormai la sede di esposizioni molto interessanti e ben curate. Insomma, è una città in cui mancano molte cose, ma che cerca di darsi da fare e che in molti stanno cercando di far crescere, pur tra mille difficoltà. La prossima mostra a Palazzo Roverella sarà dedicata a Toulouse-Lautrec e aprirà il 23 febbraio: io già ve la consiglio a prescindere, se volete venire a dare un’occhiata dove la nebbia (ma ormai anche l’arte) è di casa.
Quello che ho letto
Diamo ora avvio alle nostre rubriche, partendo come sempre dai libri.
Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Benjamin Labatut: quando finisco un libro, di solito preparo sempre una scheda riassuntiva riguardo a quel testo, che va a finire dritta dritta nel mio archivio (digitale) personale. La scheda è piuttosto articolata: all’interno scrivo alcuni dati tecnici, un riassunto dei punti o delle idee salienti dell’opera, e poi trascrivo tutte le citazioni e i passi che ho sottolineato e che mi sembravano interessanti. Infine, do un voto; un voto che non vuol dire nulla, in realtà, e che in genere non comunico a nessuno, ma che mi aiuta a ricordare in maniera sintetica quanto il libro mi abbia colpito e/o convinto. Di solito l’operazione mi riesce piuttosto semplice: ci penso un attimo, uso perfino una veloce griglia e poi arrivo al mio numeretto. Con Quando abbiamo smesso di capire il mondo, però, proprio su questo punto mi sono ad un certo momento bloccato: non è facile definire questo libro, come non è facile valutarlo. Da un lato, mi è piaciuto molto: tiene in effetti abbastanza incollati alla pagina e riesce a raccontare, in modo semplice ma comunque affascinante, alcune importanti storie di scienza. Dall’altro, mi ha lasciato addosso una sensazione assai fastidiosa. Ne accennavo anche la settimana scorsa: Labatut racconta infatti in questo libro una serie di storie realmente accadute ad alcuni grandi scienziati, ma romanzandole, trasformandole quasi, per sua stessa ammissione, in fiction. E questo crea un problema: il lettore, di cosa può fidarsi? Come fa a capire dove finisce la verità storica e dove comincia la finzione? Come fa a distinguere quello che è realmente accaduto a Werner Heisenberg o a Erwin Schrödinger e quello che è invece solo stato immaginato da Labatut? Non solo: il rischio è anche quello di dare un’immagine estremamente romanzata anche del processo della scoperta scientifica, come se fosse un’esperienza mistica, che si può fare solo in sogno o mentre si cammina nudi nella foresta in preda ad attacchi di chiaroveggenza. Insomma, Labatut sa scrivere e sa creare storie appassionanti e sorprendenti, ma il suo giocare a metà strada tra realtà e fantasia rende anche ambigue quelle storie. Alla fine, quindi, che voto ho dato? Nella mia scheda ho scritto in realtà 9, che è un votone: ma l’ho fatto perché io, bene o male, qualcosa di quelle vite già lo conoscevo, e so un po’ orientarmi. Ma il lettore meno esperto, cosa farà? Francamente, non lo so. Se ve la sentite di correre il rischio, il libro lo potete comprare qui.
Pensieri di Marco Aurelio: vi ho già raccontato altre volte del Club del Libro, l’incontro mensile riservato agli abbonati del canale YouTube in cui ci confrontiamo appunto su un libro che abbiamo letto nel mese precedente. A inizio febbraio tocca ai Pensieri di Marco Aurelio, che sto leggendo con grande avidità. Nel volume non c’è niente di più, per la verità, di quello che ci si potrebbe aspettare: si tratta infatti di una serie di massime molto edificanti sulla condotta della vita. Fortissimo è l’influsso stoico, ovviamente, anche se di tanto in tanto fanno capolino anche riferimenti ad Epicuro, a Platone e a Socrate, oltre che ad altri saggi uomini greci e romani; e l’obiettivo è quello di fornire alcune indicazioni su come vivere una vita saggia e morigerata, in cui non ci si lasci trasportare dagli impulsi e in cui si abbia sempre ben presente il proprio posto (piccolo e insignificante) nel mondo. C’è, insomma, più saggezza che filosofia vera e propria, ma dalla lettura di questo libro si esce in un certo senso rincuorati, con qualche energia in più per affrontare il mondo. Non l’ho ancora finito, ma non manca molto. Se vi interessa, potete acquistarlo qui.
L’utilità dell’inutile di Nuccio Ordine: qualche anno fa, L’utilità dell’inutile di Nuccio Ordine – tra l’altro scomparso prematuramente nel 2023 – fece un gran parlare di sé, forse perché sintetizzava in modo elegante ed efficace una serie di idee che girano spesso nella mente di chi insegna discipline umanistiche. Anche il titolo è molto bello: discipline come la filosofia, la letteratura, le lingue classiche possono sembrare astruse e inutili, ma in realtà – sostiene Ordine – servono a formare l’individuo, e quindi sono indispensabili. Su questo non posso ovviamente dissentire, insegnando proprio materie di questo tipo, che non ti danno competenze immediatamente spendibili nel mondo del lavoro ma ti aiutano a comprendere te stesso e la realtà. Leggendo le prime pagine del volumetto, però, devo anche ammettere di aver provato anche una sensazione strana, che non so ben definire. Qualcosa, infatti, non mi torna: è vero che la cultura non è solo cultura pratica, ed è vero che le nostre discipline – quelle umanistiche – sono ingiustamente sottovalutate; ma non è forse tanto vero che esista una contrapposizione così netta tra materie umanistiche e scientifiche, tra discipline teoretiche e pratiche. È un tema su cui mi sono interrogato molto negli ultimi anni, e su cui servirebbe a mio avviso una riflessione più approfondita: davvero esistono materie esclusivamente pratiche e materie esclusivamente teoretiche? Davvero la filosofia, ad esempio, non “serve” nel mondo del lavoro? O, invece, è il modo in cui la insegniamo che la fa sembrare una scienza inutile? Così come davvero la fisica è solo una scienza pratica, o non ci consente forse di comprendere meglio la realtà delle cose nel suo aspetto più profondo e astratto? Insomma, il libro di Ordine mi pare comunque interessante e ben scritto, ma per ora si ferma a una dicotomia che forse sarebbe ora di superare o di ridimensionare, almeno a mio avviso. Perché forse, come sosteneva Bruno Latour in un saggio di cui abbiamo parlato qualche mese fa (Non siamo mai stati moderni), in realtà la scienza è politica e la politica è scienza; oppure, in altri termini, ciò che è teoretico è anche pratico e ciò che è pratico è anche teoretico. Ne parleremo comunque ancora perché, nonostante il libro sia breve, sono appena all’inizio. Intanto, se vi interessa, potete comprarlo qui.
Quello che ho visto
Passiamo ora ai film. Sì, ai film, perché in elenco questa settimana non c’è neppure una serie TV (anche se, vedrete, un film della lista non è davvero un film, quanto piuttosto una rappresentazione teatrale).
Piccole donne (2019), di Greta Gerwig, con Saoirse Ronan, Emma Watson, Florence Pugh: avrete forse letto della polemica che è sorta in questi giorni riguardo alle nomination agli Oscar e in particolare a Barbie: la pellicola che l’estate scorsa ha fatto registrare incassi record ha infatti portato a casa diverse candidature (tra cui quella per Ryan Gosling, l’interprete di Ken), ma non per Greta Gerwig come regista né per Margot Robbie come attrice protagonista. Ora, a me a dirla tutta non è sembrato scandaloso che Gerwig e Robbie non fossero candidate: non ho visto tutti i film in lista quest’anno, ma Barbie, per quanto bene gli si possa volere, non è un capolavoro della storia del cinema, e onestamente Gosling lì è stato più bravo delle sue colleghe. Il vero scandalo, mi sono reso conto in questi giorni, è che Gerwig non sia stata candidata (e non abbia vinto) alla miglior regia nel 2020, quando in concorso c’era Piccole donne, che è nettamente superiore a mio avviso a Barbie. L’adattamento di qualche anno fa con un cast stellare (Emma Watson, Florence Pugh, Timothée Chalamet, Laura Dern, Meryl Streep, Louis Garrel, Bob Odenkirk, a cui va aggiunta la bravissima Saoirse Ronan, quasi un alter ego per Gerwig) non l’avevo visto, perché pensavo fosse l’ennesima versione di un classico già visto e rivisto mille volte: da bambino, a causa di mia sorella, mi propinavano spesso sia la versione con Elizabeth Taylor e Janet Leigh, sia quella (anche se alla fine ero già un po’ cresciuto) con Winona Ryder e Christian Bale. L’altra sera però con la famiglia abbiamo deciso di dare una possibilità all’ennesima versione e sono rimasto piacevolmente sorpreso. L’unico difetto della pellicola, a mio avviso, è infatti il casting: se Saoirse Ronan è bravissima nei panni di Jo e ovviamente Meryl Streep è magistrale in quelli della bisbetica zia, non mi ha per nulla convinto la scelta di far interpretare a Emma Watson la sorella maggiore e a Timothée Chalamet – che pare sempre il fratello minore delle protagoniste, più che un loro spasimante – Laurie (senza parlare di Florence Pugh): tutti attori bravissimi, si badi bene, ma che mi sembravano fuori ruolo, non adatti alla parte che dovevano interpretare. A parte questo, la sceneggiatura e la regia sono magistrali: Gerwig ha saputo rivitalizzare un classico, rimanendo fedele alla sua storia e al suo spirito ma allo stesso tempo modificandone gli intenti. Il suo Piccole donne è un vero manifesto femminista, e riesce ad esserlo senza stravolgere quello che già sappiamo delle sorelle March; e senza soprattutto cadere nella retorica, cosa che in casi del genere è sempre piuttosto facile. Da questo punto di vista, come dicevo questa pellicola mi pare nettamente superiore a Barbie: più coinvolgente, più profonda, più chiara anche dal punto di vista del pensiero. E questo film ottenne, a suo tempo, un solo Oscar, per i costumi: Gerwig fu candidata solo per la sceneggiatura, e non vinse neppure quella statuetta. Certo, era l’anno di Parasite, film forse ancora più bello (o quantomeno più sconvolgente), di Joker, di Jojo Rabbit e di Storia di un matrimonio del compagno della stessa Gerwig, però qualcosa in più era lecito aspettarselo. Il film lo ritrovate sia su Netflix che su Amazon Prime Video.
Gli sdraiati (2017), di Francesca Archibugi, con Claudio Bisio, Gaddo Bacchini, Ilaria Brusadelli: quando uscì, qualche anno fa, il libro di Michele Serra intitolato Gli sdraiati, confesso che lo guardai con un certo pregiudizio. Era una fase in cui Serra mi sembrava un po’ involuto, quasi come se avesse perso parte della sua carica corrosiva e fosse diventato boomer, come si dice oggi, cioè un uomo di mezza età che guarda con supponenza ai giovani d’oggi. Il titolo di quel libro sembrò confermare esattamente quell’impressione, e quindi snobbai ampiamente il volumetto. Poi son passati gli anni, e Serra ha incominciato a ironizzare anche su se stesso e su questo suo stesso atteggiamento, tanto che adesso scrive anche una rubrica sul Post intitolata Ok boomer, che mi sembra anche interessante. E così anch’io mi sono reso conto che forse ero stato troppo prevenuto, o forse troppo giovane, o forse adesso, passati dieci anni, sono diventato un po’ boomer anch’io: e quindi, vedendomelo spuntare su RaiPlay, ho deciso di dare una possibilità al film tratto dal romanzo, realizzato nel 2017 da Francesca Archibugi con Claudio Bisio nel ruolo del protagonista. Mi son trovato davanti a qualcosa, però, che non mi aspettavo, e a questo punto mi chiedo se anche il romanzo di Serra mi sorprenderebbe: la storia non è tanto quella di una generazione “sdraiata”, come a suo tempo venne presentata dai giornali, ma di un conflitto generazionale tra genitori apprensivi e figli magari scorbutici, ma che cercano il loro spazio. Insomma, c’è poca politica, ci sono molte dinamiche familiari in questo racconto; e dinamiche neppure troppo originali. La pecca maggiore del film, infatti, è di non incidere davvero: pare una storia che non va da nessuna parte, che lascia molto indifferenti. Ci sono due uomini di generazioni differenti che non riescono a parlarsi, per via di alcune piccole ferite del passato; e alla fine, dopo vari su e giù, invece trovano un’intesa. Fine, non c’è altro. E in tutto questo, non c’è ironia, non c’è vero dramma, manca davvero il mordente. Boh. Lo trovate su RaiPlay.
Napoli milionaria! (1962), di Eduardo De Filippo, con Eduardo De Filippo, Regina Bianchi, Antonio Casagrande: come ho accennato sopra, con i ragazzi del mio PCTO stiamo iniziando in queste settimane a lavorare a un progetto legato agli IMI, gli internati militari italiani durante la Seconda guerra mondiale. Una realtà che i ragazzi di oggi, e non solo loro, non conoscono quasi per nulla; e che, anche quando la imparano a scuola, conoscono sempre da distante, come una cosa fredda, avulsa da sé. Insomma, per farla breve, ho pensato che un film o una storia di vita vissuta potessero aiutare i ragazzi ad immedesimarsi nelle vicende del 1944 e 1945. A quel punto, mi sono imbattuto in Napoli milionaria! di Eduardo De Filippo, facilmente reperibile su RaiPlay anche in una versione con lo stesso De Filippo come protagonista; e proprio oggi pomeriggio ho deciso di farla vedere ai miei studenti. La commedia – ammesso che di commedia si possa parlare – è d’altronde un mio vecchio pallino: l’ho sempre trovata bellissima e commovente, e anni fa per un certo periodo l’ho fatta anche leggere ai miei studenti all’interno di un progetto sulle passioni e i sentimenti (è perfetta per parlare di avidità). Insomma, le sono molto affezionato. Certo non è un’opera facile: scritta e recitata in napoletano, rischia di risultare ostica a chi non mastica molto quella parlata (e infatti oggi, mostrandola ai ragazzi del basso Veneto, ogni tanto dovevo mettere pausa e spiegare quello che stava succedendo); ma il gioco vale la candela, e la fatica è pienamente ripagata dall’umanità della storia. È per questo che la commedia la consiglio anche a voi: anche solo la recitazione di Eduardo è incantevole, senza contare l’emozione di una storia di perdizione e, forse, rinascita. La trovate su RaiPlay.
Quello che ho pensato
Volete sapere qual è la domanda che mi sono sentito porre più volte in quest’ultimo anno, da persone tra l’altro tra loro diversissime? Vi do un indizio: non è una domanda di storia (pochi in questo campo chiedono, molti sono quelli che credono di sapere); non è neppure una domanda di filosofia, anche se su questo tema di quesiti ne arrivano molti, spesso riguardanti cose tra loro molto differenti.
No, la domanda più frequente riguarda tutt’altro. È: “Come fai a fare tutte le cose che fai?”. Me lo chiedono gli studenti, in primis, perché loro sono forse gli unici (famiglia a parte) che sanno effettivamente quanto io lavori, visto che possono misurare il tempo impiegato a scuola nei vari progetti e quello a casa per il web (e in più, a volte, conoscono anche i miei figli, e quindi monitorano anche quando devo accompagnare un pargolo in trasferta con la squadra o quando ne devo supportare un altro in un altro campo). Ma me lo chiedono anche alcuni colleghi e soprattutto la gente su internet.
Si tratta, a ben guardare, di una domanda che ha a volte anche un retrogusto amaro. C’è, cioè, un po’ d’ammirazione ma anche un po’ di costernazione per quello che riesco a fare. E questo perché – lasciatemelo dire – ultimamente in Italia e in generale nel mondo occidentale abbiamo un grosso problema col lavoro. Da qualche decennio, infatti, si è imposta l’idea che per vivere bene si debba lavorar poco (o, meglio ancora, nulla); e che il lavoro sia sempre sfruttamento, che il lavoro sia cioè il modo che il capitalismo avrebbe inventato per tenerci sotto torchio.
È una lettura, questa, che ha dei precisi antecedenti filosofici, ma che finisce per non rendere giustizia a mio avviso a ciò che invece di buono e di importante c’è nel lavoro. Provo a spiegarvi il mio punto di vista con un breve excursus.
I primi ad aver parlato in termini filosofici di lavoro sono stati, com’è noto, prima Adam Smith e poi Karl Marx. Per loro, pur nelle diverse prospettive, il lavoro non era nulla di male, in sé e per sé: anzi, il lavoro era in fondo la caratteristica più essenziale dell’uomo, ciò che distingueva davvero l’essere umano dalle bestie. I filosofi classici avevano sempre pensato ad un uomo idealizzato, ma ora – sosteneva in particolare Marx – era arrivato finalmente il tempo di occuparsi dell’uomo per com’era veramente, e cioè dell’uomo che lavorava. Tutta la concezione del materialismo storico verteva, non per nulla, proprio attorno al lavoro.
Il problema del lavoro non era dunque il lavoro in sé, ma casomai era quello che gli gravitava vicino; e cioè, nel caso di Smith, i vincoli al lavoro produttivo e, nel caso di Marx, il fatto che il capitalista sfruttasse il lavoratore, imponendogli un plus-lavoro, un lavoro cioè aggiuntivo che non veniva remunerato. Questo generava alienazione, sfruttamento, ingiustizia. In un mondo però in cui il lavoro fosse stato ben retribuito, libero, creativo, quelle ingiustizie sarebbero venute a cadere. Quindi il lavoro era sì legato in qualche misura alla negatività (e in particolare allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo), ma poteva essere redento. Perfino nel futuro migliore che Marx auspicava, gli uomini non avrebbero affatto smesso di lavorare.
Poi, nel Novecento, qualcosa è cambiato, soprattutto tra i marxiani. Sociologi come Horkheimer e Adorno hanno iniziato ad avanzare l’ipotesi che non fossero solo gli operai ad essere sfruttati, ma anche i capitalisti stessi, i borghesi. Da chi? Be’, da loro stessi: il capitalismo, a loro avviso, era diventato un sistema così perverso che anche gli imprenditori ne erano diventati schiavi. Anche i capitalisti lavoravano troppo.
Il concetto di per sé era interessante, ma allo stesso tempo vago e indistinto: se i capitalisti lavorano più del dovuto, allora anche loro generano un plus-valore? E dove finisce questo plus-valore? Nelle tasche di chi? Senza contare che questa forza chiamata “capitalismo” finiva per diventare un elemento sovrumano, impersonale, quasi una Provvidenza al contrario che guidava la storia e l’uomo verso la rovina. Ma è davvero così? I capitalisti sono davvero schiavi di loro stessi, come Ulisse che si fa legare al palo della sua nave per subire, sadomasochista, la tortura del canto delle sirene?
Non so se i pensatori della Scuola di Francoforte avessero ragione: personalmente, credo che avessero colto qualcosa di vero, ma allo stesso tempo mi pare che i loro eredi siano diventati un po’ grossolani e spesso, con le loro polemiche, manchino il bersaglio. Perché sono onestamente più d’accordo con Marx che con loro: il lavoro può essere alienante, ma solo a determinate condizioni; il lavoro può essere sfruttamento, ma solo a determinate condizioni. Detta altrimenti: il lavoro non è un male in sé.
Oggi si tende a pensare tutto il contrario, non solo tra marxisti e post-marxisti. Il lavoro fa male – si dice –, il lavoro aliena, il lavoro ci impone ritmi sempre più forsennati, il lavoro ci toglie l’anima eccetera eccetera. Il lavoro pare a volte essere quasi la causa di tutti i mali: e infatti c’è chi ripete incessantemente che dobbiamo lavorare meno, e che l’età dell’oro arriverà quando le macchine lavoreranno al posto nostro.
Io, francamente, ho un po’ paura di un mondo in cui gli uomini si dedicano solo all’ozio. Avete mai visto com’è un essere umano che non lavora, che passa tutto il tempo a rimuginare o a guardare la televisione? È un uomo spesso instupidito, logorroico, che pensa e ripensa sempre agli stessi argomenti, monomaniaco, privo di contatto con la realtà. È un uomo che dà troppo peso a particolari insignificanti: e non è un caso che quando ci imbattiamo in una persona che fa rilievi particolarmente stupidi, commentiamo dicendo: «Deve averne molto, di tempo da perdere».
Il lavoro non ci tiene solo impegnati, impedendoci di dare troppo peso a cose secondarie; il lavoro ci mantiene attivi, dinamici, stimolati. Il lavoro costituisce quella sfida di cui parlavamo anche la settimana scorsa: una vita senza momenti di difficoltà, senza ostacoli da superare, senza problemi da affrontare non avrebbe senso. Per questo mi impaurisce la prospettiva di una vita completamente senza lavoro: quale sarebbe il suo obiettivo? Mangiare, dormire e ascoltar musica tutto il giorno? Solo quello?
Poi, certo, c’è lavoro e lavoro; ci sono turni di lavoro e turni di lavoro. E si può e si deve propendere per un lavoro gestibile, ben pagato, che non ti rubi l’energia vitale ma anzi te la alimenti; però chiunque abbia lavorato a qualcosa di creativo, di appassionante, di stimolante sa quanto il lavoro possa essere qualcosa che dà lo slancio più che toglierlo. Basti pensare anche solo a questo: i membri della Scuola di Francoforte e tutti gli intellettuali che se la prendono tanto col lavoro, in realtà lavorano anch’essi (ai loro libri, ai loro seminari, ai loro articoli, alle loro trasmissioni televisive).
Quindi non c’è di per sé nulla di male nel lavorare, a patto che questo lavoro sia almeno in parte voluto e non imposto, sia equo e abbia una ricaduta anche sugli altri. Se queste condizioni si realizzano, si lavora volentieri, perché il lavoro diventa quasi un hobby: va alternato con i giusti momenti di pausa e col tempo da dedicare alla famiglia e agli affetti, ma si fa anche piuttosto volentieri.
«Come fa a far tutto?», dunque. La risposta, nel mio caso, ormai credo sia abbastanza chiara: trovando passione in ciò che faccio. Se devo scegliere tra due ore passate davanti a uno show televisivo e due ore passate a montare un video, scelgo senza dubbio quest’ultima possibilità. Certo, montare un video è un po’ più stancante che spegnere il cervello davanti alla TV, ma è meno impegnativo di quanto si creda. E una volta che si impara a conoscersi e a conoscere le proprie forze, si capisce anche quando è il momento di registrare un video (che è stancante) e quando di montarlo (che è più riposante). Si impara, cioè, a dosare le energie, e ad usarle in modo produttivo e saggio nell’arco della giornata.
Il segreto principale è dunque essenzialmente questo: aver voglia di fare quello che si fa, e farlo con saggezza. Una volta c’erano – e forse ci sono ancora – uomini che si chiudevano in garage per intere domeniche a lavorare ad un ingranaggio o a un’opera di falegnameria, per pura passione, arrivando tranquillamente a dedicarsi a quest’attività per 10 o 12 ore consecutive, nonostante si trattasse pur sempre di un’attività manuale; allo stesso modo, si possono dedicare ore alle proprie passioni, e farlo davanti a un computer, ad un libro o a una telecamera è anche meno faticoso, dal punto di vista fisico.
A questo, ovviamente, va poi aggiunto altro: servono organizzazione, ritmo, capacità di concentrazione, ottimizzazione dei tempi e delle pratiche di lavoro. Per realizzare i primi video del canale, nel 2020, avevo bisogno di 10-12 ore; oggi normalmente in 4 ore ne porto a termine uno, anche migliore di quelli di qualche anno fa. Ci ho preso la mano, ho trovato i modi per fare più in fretta e ho anche investito del tempo nel creare dei sistemi che funzionano e mi alleggeriscono le operazioni ripetitive. Qualche volta ne ho parlato anche nei video, magari in futuro tornerò a parlarne ancora. Se vi interessa, qualche spunto potete trovarlo qui.
Ma c’è una cosa ancora più importante della passione, anche se ad essa si collega: la scelta. Scrivevo all’inizio, riprendendo Seneca, che il tempo è la cosa più importante che abbiamo, perché è l’unica cosa che si esaurisce senza che possa mai ritornare a crescere (i soldi possiamo perderli ma, se siamo fortunati, riguadagnarli; le persone care possiamo perderle ma, se siamo fortunati, riconquistarle o trovarne altre; ma il tempo non torna mai). Proprio per questo dobbiamo custodirlo gelosamente e scegliere come impiegarlo, senza concederlo a questioni che non ci interessano davvero.
Ecco, il segreto di avere tanto tempo a disposizione è tagliare di netto tutto ciò che ci ruba tempo senza motivo. Le chiacchiere inutili per riempirsi la giornata, i pettegolezzi, le notizie superficiali dei giornali, le trasmissioni TV di puro intrattenimento, i giochini sul cellulare, i social network che fungono solo da distrazione… tutte cose che assorbono decine, centinaia, migliaia di ore della nostra vita, rubandocele senza che ce ne accorgiamo.
Riappropriamoci del nostro tempo e utilizziamolo per creare qualcosa, per costruire mondi, relazioni, amicizie, filosofie. Usiamolo per cose che abbiano senso, e che abbiamo consapevolmente scelto: e il tempo si moltiplicherà magicamente.
Si tratterà di lavorare, sì, ma non sarà più un lavoro che fa sentire sfruttati, un lavoro da cui si vuol scappare: sarà un lavoro che nobilita, che rende esseri umani a pieno titolo, che finisce anche per costruire qualcosa di valido per gli altri.
Proprio l’altra sera, all’interno della diretta col professor Alessandro De Nicola, ricordavamo la celebre frase di Voltaire alla fine del Candido: bisogna coltivare il proprio giardino. Ovvero: bisogna fare la propria parte. È questo il lavoro, nel senso più ampio e più bello del termine: fare la propria parte in una società, apportare qualcosa di positivo – anche se piccolo – al nostro tempo, con la fatica e l’impegno ma anche con la passione. Quello è tempo ben impiegato, quello è lavoro che dà frutto.
Quello che ho registrato e pubblicato
Siamo arrivati al momento in cui facciamo il punto sui video e sui podcast usciti durante la settimana. Ecco l’elenco completo:
Ockham: Dio e la metafisica: seconda parte dell’approfondimento su Guglielmo di Ockham, incentrata sulla teologia
Lo scetticismo come antidoto al narcisismo: nuovo capitolo della mia (anti)-filosofia incentrato sui nostri tempi attuali e le loro caratteristiche
E se Mussolini non fosse mai entrato in guerra? "Il Ducetto" di Alessandro De Nicola: una presentazione con l’autore, online e in diretta
La scommessa su Dio di Pascal (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
La Sinistra storica di Depretis al potere (per il podcast “Dentro alla storia”)
La politica economica ed estera di Depretis (per il podcast “Dentro alla storia”)
Hayao Miyazaki e la Seconda guerra mondiale
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
Il canale YouTube | Instagram | Facebook | Twitter/X | TikTok | Threads
Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Il pensiero cinese: questo libro del sinologo francese Marcel Granet uscì per la prima volta nel 1934, e rappresentò per gli europei una mezza rivoluzione, perché fino ad allora la filosofia orientale rimaneva perlopiù ignota in Occidente, se non per alcuni accenni, per alcune figure, per alcuni spunti. Mancava, insomma, una trattazione sistematica. Granet – che sarebbe scomparso solo pochi anni più tardi – colmò questa lacuna, con un’opera che divenne subito un classico. Non certo un testo facile, ma un libro comunque da affrontare. Lo si trova a 16 euro e può essere acquistato qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
Chiudiamo come sempre con una panoramica sui video in arrivo. Qualcuno mi ha scritto, nei giorni scorsi, chiedendomi se le serie iniziate proseguiranno: non sono ancora riuscito a rispondere a tutti ma ovviamente la risposta è “sì”, quello che inizio prima o poi lo porto a termine (anche se ovviamente coi miei tempi). Quindi abbiate fiducia. Intanto, ecco quello che ci attende questa settimana:
domani – e qui lo annuncio ufficialmente – arriverà la diretta mensile riservata agli abbonati, per fare il punto su quello che è accaduto in questo primo mese del 2024;
mercoledì e giovedì toccherà ai podcast, con la conclusione del discorso su Pascal e l’introduzione all’Italia di Crispi;
venerdì sarà la volta dell’undicesimo video dedicato alla lettura integrale e commentata del Saggio sulla libertà di John Stuart Mill;
sabato finiremo il piccolo ciclo anche su Charlie Chaplin, con un video dedicato stavolta alla sua poetica e alle sue idee;
domenica, se tutto va bene, sarà quindi la volta del nuovo video sulla storia dei consumi;
lunedì prossimo, infine, ritornerà il podcast filosofico, con l’inizio di Spinoza.
E questo è quanto. Passate una buona settimana, fate la vostra parte in questo matto mondo e cercate di incoraggiare gli altri a fare lo stesso. E noi ci vediamo qui, puntuali, tra sette giorni giusti.
Per quanto riguarda il suo PCTO sui campi di internamento, le consiglio la visione di questo film del 1947, Natale al campo 119. Saluti, Daniele Lupi
https://www.dailymotion.com/video/x8psix5
No , non dovrebbe esistere una contrapposizione tra materie scientifiche e materie umanistiche,
come scrisse negli anni 60 C. P. Snow nel suo libro "Le due culture" che andrebbe riletto.
L anno scorso stavo studiando il greco antico e il lineare B venne decifrato da Michael Ventris
nel 1952 con l aiuto delle tecniche di decifrazione che Alan Turing aveva inventato per leggere
i messaggi dei nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale : un bell esempio di unione della cultura scientifica , (la decifrazione dei codici e' una parte della matematica ) e il predecessore
del greco antico . Adesso , meglio in Novembre dell anno scorso , stavo provando a studiare
la geometria euclidea con un libro dal matematico , storico della scienza , filosofo Federico Enriques "Gli elementi di Euclide nella critica antica e moderna" , opera nella quale lui si avvale
di collaboratori che conoscevano il greco antico . Ecco come le scienze e le materie umanistiche
di fondono e collaborano !