Qualche nota sul femminicidio e su come lo raccontiamo e lo condividiamo, ma anche sulla maggioranza di governo, su Platone e il suo Simposio, su Telmo Pievani, su Francesco Costa e su John Cleese
C’è un tema di cui, oggi, probabilmente sentite tutti l’esigenza di parlare: l’omicidio (anzi, il femminicidio) di Giulia Cecchettin, la ragazza della provincia di Venezia il cui cadavere è stato rinvenuto sabato pomeriggio in Friuli; e del conseguente arresto di Filippo Turetta, avvenuto il giorno dopo, domenica.
In queste ore non s’è parlato d’altro, ed è logico che sia così. Un po’ perché la vicenda è tragica, lancinante; ha colpito anche me, che in genere davanti alla cronaca nera mantengo un atteggiamento piuttosto freddo e distaccato. Un po’ perché è facile, soprattutto dalle mie parti, sentire quella vicenda particolarmente vicina: i ragazzi coinvolti hanno facce normali, apparentemente vite normali; vengono dalla campagna veneta, come moltissimi dei miei studenti; studiavano Ingegneria Biomedica a Padova, come vari dei miei studenti. E viene facile pensare: Giulia non la conoscevo, ma avrei potuto tranquillamente conoscerla. E avrei potuto tranquillamente conoscere anche Filippo Turetta. Sarebbero potuti essere miei ex alunni: ci ha separati solo qualche decina di chilometri.
Questo, in realtà, può far perdere un po’ la lucidità. Tra gente che invoca la pena di morte ad altra che dice che il problema neppure esiste, siamo stati sballottati sull’onda dell’emotività da un versante all’altro della sfera dei giudizi. E invece bisognerebbe, credo, convogliare questa rabbia e questa delusione in qualcosa di più costruttivo, di più meditato.
Per questo fino a poche ore fa ero intenzionato a non parlare della vicenda qui sulla newsletter di questa settimana; avevo già scritto, prima del ritrovamento del cadavere, un “pezzo” per la sezione Quello che ho pensato che non riguardava questi fatti, ed ero sinceramente intenzionato a pubblicarlo, rimandando casomai alla settimana prossima una riflessione su quanto accaduto. Poi però, rileggendo il testo già pronto, mi son detto: «No, non posso uscire con questo». Mi sembrava un testo completamente fuori scala, segno che anch’io – che vorrei essere così asciutto – non resisto a volte all’onda emotiva.
Ho cercato però, come leggerete, di non entrare comunque troppo nel vivo della vicenda: mi sembrava ulteriormente morboso andare a rimestare nei dettagli di una storia che ormai conosciamo bene. Sono rimasto un po’ sul confine, parlando di quello che c’entra con la morte di Giulia Cecchettin, ma senza addentrarmi. Penso che per ora sia giusto così. E spero che quelle poche note che ho scritto stimolino delle riflessioni: non ho la pretesa di insegnare grandi cose, ma forse qualche appunto su come trattiamo (e comunichiamo) queste vicende può darvi da pensare.
Ma di questo parliamo dopo. Intanto cominciamo, con un po’ di mestizia, col nostro solito giro di libri, film e altro.
Quello che ho letto
Iniziamo dunque dai libri. Questa settimana in lista non ci sono particolari novità, ma almeno il menù è piuttosto variegato visto che troverete un saggio d’attualità, un capolavoro filosofico e un romanzo giallo.
Simposio di Platone: nei giorni scorsi c’è stata qualche inevitabile confusione all’interno del gruppo degli abbonati. Come forse sapete, infatti, ogni mese propongo due iniziative a chi sostiene il progetto su YouTube: da un lato il cosiddetto “Club del Libro”, un incontro appunto mensile in cui discutiamo tramite Google Meet di una lettura comune; dall’altro il “Simposio filosofico”, in cui invece, tendenzialmente in un ambiente più ristretto, parliamo di un tema filosofico su cui ci siamo in qualche modo preparati, documentati o su cui comunque abbiamo riflettuto. L’equivoco è nato dal fatto che il prossimo libro che dobbiamo leggere per il Club del Libro si intitola come l’altra attività, Simposio: si tratta infatti del celebre dialogo di Platone dedicato al tema dell’amore. Al di là di questa premessa, come ho accennato giusto ieri sera ai partecipanti al Simposio (questa volta quello online) il volumetto di Platone è agile e si legge piuttosto in fretta; e, spero, risulterà anche piuttosto interessante. L’ho ripreso in mano anch’io in questi giorni e, nonostante sia forse alla quarta rilettura e nonostante lo spieghi praticamente ogni anno a scuola, devo ammettere che lo trovo ancora accattivante e intrigante. Certo, si tratta di un testo scritto più di 2.300 anni fa, che quindi risente – nel linguaggio e nel modo di esprimersi – della sua epoca; però vi stupirà notare come questo testo si legga probabilmente in modo più agevole di parecchi saggi italiani di un paio di secoli fa, soprattutto per la limpidezza del discorso portato avanti dal filosofo greco. E poi, ovviamente, c’è il tema: l’amore, il suo significato e soprattutto il fatto che questo amore – per Socrate e di rimando per Platone – simboleggia in fondo il compito della filosofia, una ricerca perenne di sapere, di capire, di arrivare al cuore dei problemi. Proprio perché si legge molto in fretta, anzi, ho dovuto anche rallentarlo, per timore di finirlo troppo in fretta e non ricordarmelo più nel dettaglio quando si terrà la riunione del Club del Libro, tra una quindicina di giorni. Se non siete ancora abbonati e volete leggerlo e partecipare alla discussione, qui trovate le modalità per abbonarvi (serve un livello dal Roosevelt in su); se invece volete semplicemente gustarvi il dialogo, lo potete acquistare qui.
Svolta a destra? di ITANES: di questo saggio vi ho già parlato più e più volte, perché me lo sto portando dietro da un po’; d’altronde, è uno dei qui libri che prendo in mano quando non ho voglia di portare avanti gli altri, quando mi sento abbastanza concentrato per poter sottolineare dati, comprendere grafici e rifletterci un po’ sopra. Come ho spiegato altre volte, Svolta a destra? raccoglie infatti una serie di studi e analisi sulle elezioni politiche che si sono svolte in Italia nell’autunno del 2022, quelle consultazioni che hanno portato alla vittoria di Fratelli d’Italia e al governo di Giorgia Meloni. Ogni capitolo, scritto da un diverso studioso, approfondisce un tema grazie all’analisi dei flussi di voto, dei sondaggi, dello spazio dedicato ai vari contendenti dagli organi di informazione. Niente di trascendentale, sia chiaro: alcune di queste analisi sono state presentate, nei mesi scorsi, anche sui principali giornali e telegiornali, magari nascoste dietro alle solite beghe politiche quotidiane; ma trovarsele tutte in fila, in ordine, aiuta comunque a comprendere meglio cos’è successo un anno fa. In sintesi, posso già darvi un indizio: l’elettorato italiano è tendenzialmente statico e tendenzialmente sempre più disaffezionato dalla politica. Il piccolo terremoto dei 5 Stelle di qualche anno fa è già sostanzialmente acqua passata, e gli elettori sono tornati più o meno tutti (o quasi) nella loro comfort zone, cioè nel centro-sinistra se si sentono di sinistra o nel centro-destra se si sentono di destra. La differenza nei risultati elettorali, allora, non sta tanto in un predominio della destra (il numero degli elettori che si ritengono di destra e che si ritengono di sinistra è molto simile), quanto piuttosto nella capacità di portare al voto i propri affiliati e nella capacità di costruire alleanze solide. A sinistra c’era più scoramento e c’era anche una certa incompatibilità tra i vari leader, e quindi la sinistra ha perso malamente; a destra c’era un elettorato più compatto e Giorgia Meloni è stata brava a tenere a bada, a suo tempo, Berlusconi e Salvini, dando l’impressione di un centro-destra unitissimo. In generale, però, l’impressione è che il paese sia da molto tempo ormai bloccato: non esistono proposte politiche nuove (il M5S si è davvero frantumato, e l’analisi del voto è impietosa), il peso dei giovani conta sempre meno e tutto è statico, direi quasi incancrenito. Detta in altri termini: la vittoria di un partito nato da poco come Fratelli d’Italia e la salita a Palazzo Chigi per la prima volta di una donna non sono reali elementi di novità, ma una conferma di un impianto che è ormai solido, plastico, in realtà immobile. Poi, c’è da dire che dall’anno scorso ad oggi varie cose sono cambiate: Berlusconi è morto, sono sorte alcune frizioni all’interno della maggioranza e soprattutto governare è molto più difficile che stare all’opposizione; ma vedremo se tutto questo porterà prima o poi a dei cambiamenti di rilievo. Se volete leggerlo, il libro lo potete acquistare qui.
Le sette morti di Evelyn Hardcastle di Stuart Turton: vi ho già parlato anche di questo romanzo – che pare aver venduto molto, negli ultimi anni –, e se c’eravate nelle puntate precedenti sapete che finora non mi ha particolarmente colpito. In generale, il primo centinaio di pagina mi ha lasciato, anzi, un po’ freddo: i personaggi mi sono sembrati poco delineati e soprattutto poco credibili, e il mistero un po’ troppo ingarbugliato per appassionare veramente. Questa settimana, però, devo correggere in parte il tiro rispetto a quello che ho scritto le volte scorse: pur confermando l’impressione di essere davanti ad un romanzo scritto abbastanza di fretta e senza particolare attenzione psicologica, devo anche ammettere che la trama comincia a presentare qualche motivo di vero interesse. Senza spoilerare troppo, posso dirvi infatti che il libro verte su un mistero dai caratteri gialli (forse addirittura noir), ma la sua particolarità maggiore è che il personaggio che deve indagare sul mistero finisce per rivivere più e più volte sempre la medesima giornata, quella dell’omicidio in questione, reincarnandosi di volta in volta in un corpo diverso e assumendo quindi le fattezze (e il punto di vista) di un diverso protagonista della vicenda. Quest’idea di partenza è il vero pezzo forte di Stuart Turton, il giovane autore, un giornalista prestato alla narrativa: anche perché tira in ballo il classico tema filosofico della libertà in un mondo meccanicamente determinato. Perché ogni volta che il protagonista si trova a rivivere la stessa giornata, cerca di intervenire per cambiarne il corso, apparentemente senza riuscirci; come a dire che il nostro spazio di libertà individuale (ammesso che di vera libertà si tratti) non riesce a modificare l’ordine (necessario?) della storia. Insomma, dal punto di vista filosofico qualche spunto sembra emergere, ma è ancora presto per dare un giudizio complessivo sul libro: sono appena ad un terzo del volume. Comunque, se vi interessa, potete comprarlo qui.
Quello che ho visto
Passiamo ora ai film, anche se, come noterete, anche questa settimana in realtà in elenco ci sono due video lunghi di YouTube (che però ritengo abbastanza interessanti da proporre anche a voi), oltre a un film vero e proprio.
Un pesce di nome Wanda (1988), di Charles Crichton, con John Cleese, Jamie Lee Curtis, Kevin Kline: erano decenni che non rivedevo Un pesce di nome Wanda, il film più “alla Monty Python” dopo lo scioglimento dei Monty Python. Se non sapete di cosa io stia parlando, si tratta di un film britannico degli anni '80 scritto e interpretato da John Cleese, uno dei componenti del celebre gruppo comico appunto dei Monty Python, che rivoluzionò il modo di fare comicità in TV tra la fine degli anni '60 e i primi anni '70 (e in passato ne abbiamo parlato spesso anche qui sulla newsletter). Il gruppo si sciolse ufficialmente nel 1983, dopo il film Monty Python - Il senso della vita, ma i suoi vari componenti non smisero affatto di lavorare, dedicandosi a progetti molto diversi tra loro. Cleese e Michael Palin – altro membro importante del gruppo – tornarono a collaborare proprio per questo film, assieme ad altri attori allora all’apice della carriera come Jamie Lee Curtis e Kevin Kline, per una pellicola che ricordava vagamente lo stile dei Python, mescolato però a toni da commedia più tradizionale. Ne uscì appunto Un pesce di nome Wanda, film che all’epoca divenne un piccolo caso internazionale, capace di fruttare un Oscar come miglior attore non protagonista a Kline (effettivamente molto divertente nella parte dell’ottuso Otto) e vari altri premi in giro per il mondo. La trama è un po’ complicata: un gruppo di ladri compie una rapina in una banca, ma il capo della banda viene subito arrestato; i suoi complici, a questo punto, vorrebbero fargli le scarpe e scappare con la refurtiva, ma il malloppo non si trova. Questo dà il via ad una serie di imbrogli e sotterfugi, che culminano nel tentativo di una bella ladra di sedurre l’avvocato difensore del suo complice, per farsi rivelare l’agognato nascondiglio. Al di là dei colpi di scena, però, quello che conta sono due cose: da una parte il ritmo incalzante, dall’altra alcuni personaggi particolarmente azzeccati, come il tonto e borioso Otto (che però legge e cita Nietzsche) e il balbuziente Ken. Piccola curiosità: nel film il personaggio interpretato da Jamie Lee Curtis si eccita quando le parlano in spagnolo, ma questo accade solo nella nostra versione; in originale (ed è carino verificarlo grazie alle piattaforme di streaming che consentono di cambiare lingua a piacimento) in realtà tutto accade quando le parlano in italiano (e si esibiscono nella nostra lingua sia Kevin Kline che John Cleese). Il film è meno acuto e dissacrante di quelli dei Monty Python, ma forse più accessibile e più facile da vedere ad ogni età. Se volete passare una serata allegra, lo trovate su Amazon Prime Video.
Telmo Pievani - “Le basi morali in un mondo senza Dio”: giusto la settimana scorsa vi avevo proposto una recentissima conferenza che Telmo Pievani ha tenuto alla Casa della Cultura di Milano. Probabilmente da quel momento in poi l’algoritmo di YouTube mi ha profilato e adesso non fa altro che propormi interventi di Pievani nelle più disparate occasioni; il che non è di per sé un male, ma forse a volte un po’ di pausa tra una proposta e l’altra non guasterebbe. Ad ogni modo, anch’io sono vittima dell’algoritmo e, dopo aver scansato alcune conferenze che non mi attiravano, sono stato catturato dal titolo di questo intervento, che per la verità risale a più di dieci anni fa ma, a quanto ho capito, è stato pubblicato su YouTube solo ora: “Le basi morali in un mondo senza Dio”. Il titolo sembra provocatorio, ma appena si fa partire il video ci si rende conto che si tratta di un intervento che Pievani tenne appunto nel 2011 all’interno di un convegno organizzato dall’UAAR, l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti; e quindi il tema è pienamente in linea con gli intenti dell’organizzazione. A ben guardare, dopo aver visto il video (che non è lunghissimo) ci si rende conto che il titolo è però anche in parte ingannevole; nel senso che il tema della morale atea viene sì affrontato, ma molto di striscio, mentre ciò che interessa sottolineare a Pievani è altro; ma forse proprio per questo la conferenza mi ha molto interessato e direi anche che mi è stata utile. In questi giorni, infatti, sto spiegando a scuola, in filosofia, Darwin (sì, esatto: Darwin), soprattutto per cercare di far capire l’impatto che la teoria darwiniana ebbe sull’Europa e sul pensiero di fine Ottocento; e quell’impatto è stato sagacemente riassunto da Pievani nel suo intervento. Il punto chiave è infatti questo: che la teoria darwiniana ci presenta un mondo contingente, non segnato dalla necessità. Ovvero: che la storia della nostra specie (e di tutte le altre specie viventi) non è una storia guidata da una forza superiore che fa accadere le cose, una storia che non poteva essere diversa da come è stata, ma una storia di eventi contingenti, di casualità. Detta in altri termini: poteva andare anche diversamente. Potevano esserci i dinosauri al posto nostro, oppure potevamo avere la pelle verde, oppure altre cose ancora. L’esito di noi, qui e ora, così come siamo, non era affatto necessario. E questo apre a riflessioni di portata dirompente, se ci si pensa un attimo. Riflessioni che lascio per il momento a voi: il video, se vi ho incuriositi, lo trovate qui.
PDR #57 - Francesco Costa spiegato bene: non so se conoscete Francesco Costa; se no, dovreste. È un giovane (almeno per i miei standard, visto che è più giovane di me) giornalista che negli ultimi anni ha cominciato a farsi molto notare, soprattutto per la capacità di analisi e per l’equilibrio che spesso dimostra nel raccontare i fatti. La sua occupazione principale è quella di essere vicedirettore de Il Post, il giornale online che già altre volte abbiamo citato; ma oltre a quello, tiene ormai da anni un seguito podcast mattutino, Morning, e da qualche tempo ha cominciato a caricare anche video su YouTube dedicati alla sua grande passione, gli Stati Uniti d’America, raccontati da diversi punti di vista (sociale, economico, politico…), ma sempre con un taglio simpatico e comunque interessante. Spesso i giornalisti, quando si imbarcano in analisi storiche e sociali, rischiano di essere superficiali, di farsi prendere troppo dalla voglia di semplificare (o dalla voglia di parlare senza conoscere bene l’argomento di cui parlano); ma nel caso di Costa questo problema non si pone, perché il giornalista siciliano riesce a trovare un buon equilibrio tra divulgazione e precisione, equilibrio che consente di arrivare al succo del discorso e di cogliere tratti importanti di quello che si vuole raccontare. Per questo, quando l’algoritmo mi ha proposta la lunga intervista che Costa ha rilasciato a Daniele Rielli, mi è venuto subito voglia di guardarla; e devo dire che mi sembra un buon investimento di tempo, perché Costa parla ovviamente anche un po’ di sé ma si concentra soprattutto sui problemi di cui si occupa di solito per lavoro, ovvero la situazione dell’Italia, la realtà del mondo dell’informazione e gli immancabili Stati Uniti. Insomma, è un’ora e mezza interessante, che vi consiglio: l’intervista potete recuperarla qui.
Quello che ho pensato
Come vi ho già anticipato all’inizio, la sezione Quello che ho pensato questa settimana l’avevo già scritta, e ho dovuto toglierla. L’avevo scritta nei giorni scorsi, come a volte faccio per portarmi avanti col lavoro, ma, quando questo pomeriggio mi sono messo a rileggerla per sistemarla, mi sono reso conto che non poteva più starci. Da giorni non si parla d’altro che del caso di Giulia Cecchettin, e per quanto sia convinto che davanti a situazioni del genere serva anche un po’ di silenzio, mi sono reso conto che il tono di quello che avevo scritto strideva con la situazione. La riflessione era infatti credo anche interessante, ma un po’ ironica, un po’ divertita (riguardava tutt’altro: il punto centrale erano i meme, pensate un po’), e però credo che pochi abbiano voglia di scherzare in questi giorni.
Quindi via tutto, si ricomincia da capo. Parliamo del caso del momento; ma cercherò di farlo senza morbosità, proponendo alcune riflessioni a latere, su cui mi pare pochi si siano espressi. Ah, e ultima premessa: do per scontato che tutti sappiate di cosa sto parlando; altrimenti, qui trovate un buon riassunto.
Primo spunto: esiste, è evidente a tutti, un problema grosso come una casa, quello della violenza sulle donne. Anzi, ne esistono vari, di problemi, che però si richiamano l’uno con l’altro e che in questa vicenda sembra (dico sembra, perché in realtà di cose certe – sulle motivazioni dietro al gesto – ne sappiamo ancora poche) convergano. Proviamo ad elencarli, giusto per fare il punto. C’è, e non certo da oggi, un maschilismo oppressivo, violento, che facciamo una gran fatica a eradicare: facciamo progressi in tanti settori, ma in questo no, o ne facciamo comunque troppo pochi. C’è poi una difficoltà, prettamente maschile, ad accettare la rottura e il superamento di certi stereotipi, come se alcuni (o forse molti) di noi non riuscissero ad accettare di arrivare secondi, di non controllare una donna con cui hanno un rapporto, di dover accettare le decisioni e le scelte altrui. C’è, anche, una difficoltà sempre più forte a stare al passo con le aspettative della società, della scuola, della famiglia; e poi, legato a questo, c’è un malessere che è sempre più presente ed evidente, soprattutto nelle nuove generazioni.
Secondo: tutto questo non giustifica Turetta, non gli dà attenuanti. Credo nel libero arbitrio e nella responsabilità individuale. Tutte le analisi sociali e sociologiche che si possono fare – e che anch’io voglio poter fare, e sento il dovere di fare – aiutano a comprendere, ma non giustificano. Vanno fatte perché bisogna capire cosa c’è dietro a certi comportamenti, e come intervenire per fare in modo che quei comportamenti non si ripetano (o che si ripetano sempre meno spesso); ma questo non assolve nessuno. Detta in altri termini, Turetta può aver avuto tutti i modelli negativi di questo mondo, ma era un ragazzo che aveva studiato, che faceva sport, che aveva una vita sociale: anche fosse cresciuto in una realtà orribile, aveva i mezzi culturali per affrancarsi dai modelli negativi.
Terzo: dobbiamo imparare a raccontare meglio le cose. La narrazione di questa vicenda è stata morbosa, in tutte le sue dimensioni. L’avrete forse notato anche voi: l’enfasi che i giornali mettevano sulle storie personali dei protagonisti; il ricorso a foto rubate dai social network, spesso foto giocose, intime, allegre; l’uso, costante, dei nomi di battesimo dei due ragazzi coinvolti, a farceli sentire ancora più vicini di quanto già non fossero, a presentarceli costantemente come i ragazzi della porta accanto. Certo: sembravano proprio i ragazzi della porta accanto, anzi lo erano; però credo sia chiaro che queste strategie di “avvicinamento” servono a creare empatia, in ultima istanza a farci fare più clic, a farci stare ancora più in ansia, a spingerci alle lacrime. E vien da chiedersi: perché in questo caso – che è sicuramente tragico – sì, e in mille altri casi no? Perché quando a morire è una donna di 50 anni in circostanze praticamente identiche i giornali non scatenano lo stesso meccanismo? Perché quando a morire sono migliaia di bambini in zone povere del mondo non si scatena (se non raramente) lo stesso meccanismo? Se aprite l’home page di Repubblica, nel momento in cui scrivo, trovate la notizia di una bambina di 2 anni morta al largo di Lampedusa: ma è solo la settima notizia nella pagina, e viene dopo la qualificazione della Nazionale agli Europei e cinque articoli diversi su Giulia Cecchettin, articoli di commento a fatti già avvenuti, articoli che di fatto non aggiungono nulla di nuovo a quello che già si sa. Non voglio sminuire il femminicidio, ovviamente; solo dobbiamo capire quanto il framing sia rilevante, quanto il modo di porci le notizie ci influenzi sul loro valore; e quanto siamo in mano a chi costruisce i notiziari, in pratica.
Quarto: i social ci fanno male, ne sono sempre più convinto. Non in sé, ma per l’atteggiamento che ci portano ad assumere: ci fanno male, in particolare, proprio quando ci sono casi del genere. Nei giorni immediatamente successivi a quello che è successo è stato tutto un profluvio di opinioni. Ne parlavo coi miei studenti di quarta stamattina: tutti si sentono in dovere di dire la loro. E questo “dire la loro” non porta quasi mai ad un pensiero ragionato, calmo, profondo; è spesso solo uno sfogo sull’onda del dolore. Attenzione: ci sta, è umano, è normale sfogarsi, ci mancherebbe altro. Il problema è che non si va quasi mai oltre. Per una settimana tutti posteranno commenti durissimi: alcune donne attaccheranno i maschi (colpevoli di violenza o di non opporsi alla violenza; e poco importerà che i loro commenti verranno letti magari solo dai maschi che in genere si dichiarano già femministi e che si oppongono davvero alla violenza), mentre alcuni maschi o attaccheranno le femministe (e poco importerà che non ci siano femministe tra i loro follower), o chiederanno scusa per qualcosa che non hanno fatto. La cosa più assurda è stato leggere del ministro Tajani che diceva: «Come uomo chiedo scusa a tutte le donne». Ma perché? Sei un ministro, stai al governo (e ci sei stato per anni): se pensi davvero di avere delle responsabilità, le hai in quanto uomo di potere; e se ti senti responsabile in quanto uomo di potere, ti dimetti, non fai dichiarazioni ai giornali. Noi invece viviamo di dichiarazioni, facciamo solo quello. Poi, il dramma vero è che tra un mese o due del caso Cecchettin nessuno parlerà più. Succede così ogni volta: siamo nel tempo in cui ognuno deve dire la propria sul fatto del giorno, salvo poi dimenticarsene appena arriva un “fatto del giorno” nuovo. Sarò un po’ brusco, scusatemi, ma penso che dobbiamo davvero iniziare a fare una riflessione su questo: a che pro? A cosa serve stare sempre seduti sul divano a fare dichiarazioni, a condividere post indignati creati ad arte per avere engagement, per avere retweet, per diventare virali? E a che serve ogni volta puntare semplicemente il dito contro qualcuno?
Quinto: penso davvero che dobbiamo lavorare per cambiare le persone, non per accusarle; che dobbiamo lavorare per fare le cose, non per commentarle. È un discorso che vale per il maschilismo e la violenza, ma vale per mille altre cose (il cambiamento climatico, ad esempio). Le persone a volte fanno cose orribili, è vero; a volte fanno anche cose superficiali, stupide, senza sfociare in cose gravissime; altre volte ancora sono solo indifferenti, non si pongono neppure il problema, non capiscono. In tutti questi casi le persone sbagliano, e se volessimo fare i puritani potremmo tirar fuori il nostro bell’indice e indicarli tutti al pubblico ludibrio. Potremmo fare le nostre belle reprimende sui social, come facciamo spesso: scrivere frasi che poi diventano virali (proprio ora, sempre su Repubblica che in queste cose ci sguazza, c’è l’articolo all’autrice di una di queste frasi virali, come se fosse il nuovo punto di riferimento mediatico). Ma questo, come dicevo prima, in realtà non ci porta da nessuna parte: raramente ho visto persone cambiare vita dopo essere stati attaccati da degli sconosciuti; raramente ho visto persone cambiare atteggiamento per via di una frase virale (e dico “raramente” per esser buono: in realtà non l’ho visto mai). Provate a pensare a voi stessi: quand’è stato che avete capito che dovevate cambiare qualcosa nella vostra vita? Nella mia esperienza, questo avviene generalmente in due circostanze: o quando una persona che stimiamo comincia a farci ragionare, possibilmente senza accusarci, con l’intento davvero di darci un consiglio di vita; o quando viviamo sulla nostra pelle i nostri errori, quando ci scontriamo – di faccia, di muso – con la realtà. Ad esempio, capiamo di esserci comportati male quando una persona che stimiamo ce lo fa notare, oppure quando la persona che abbiamo fatto soffrire si mette a piangere davanti a noi. In ogni caso, c’è sempre l’interazione con qualcun altro di mezzo: dobbiamo vederlo, dobbiamo sentirlo sulla pelle di aver sbagliato. Dobbiamo rendercene conto noi, direttamente, grazie al volto dell’altro. Se stiamo da soli, sul nostro divano, a dispensare saggezza tramite il cellulare, non facciamo passi avanti e non li facciamo fare agli altri. Direte: sì, ma il divano è il punto di partenza, il social è l’avvio di un percorso. Forse sì, ma forse anche no; anzi, vi dirò che a me pare che sia più no che sì. Ci indigniamo per un mese e poi basta, e il mondo intanto non cambia: e lo stesso vale per il cambiamento climatico, per la guerra a Gaza, per mille altre cose. Scriviamo “Che schifo il mondo” e poi torniamo a cercare meme su TikTok. Dobbiamo uscire dai social, rimboccarci le maniche, mettere via il cellulare e cominciare a fare cose per davvero; dobbiamo ricominciare a sporcarci le mani. Il che vuol dire: parlare con le persone, coinvolgerle, far fare loro esperienze. Parlare in faccia alla gente, anche a costo di trovarci delle porte chiuse. Fare volontariato, ad esempio, questo sconosciuto: tra i giovani lo fanno ormai in pochi, pochissimi. Dovremmo donare il nostro tempo, gratis, per gli altri, e non solo per sfogare la nostra rabbia e il nostro ego. Se mi piacessero le frasi un po’ strappalacrime, direi: dovremmo passare da un ripiegamento su noi stessi a un’apertura verso gli altri.
Sesto: in questi giorni si è detto che per affrontare il tema della violenza e della disparità di genere bisogna lavorare nelle scuole. Sì, certo, ben venga: ma attenzione, le scuole questo lavoro spesso lo fanno già. L’educazione alla convivenza, alla pace, al rispetto, alla parità in molti casi è già presente. Si può far meglio, sì; si può far di più, certo. Ma ho il sospetto che il grosso del problema non stia nella scuola, bensì fuori. E la scuola non può sempre sopperire a tutto. Ultimamente, per ogni problema, si dice: ci penserà la scuola. Al problema ambientale penserà la scuola; alla mancanza di senso civico penserà la scuola; al razzismo penserà la scuola; al maschilismo violento e non violento penserà la scuola; all’inclusione, alle ansie dei ragazzi, alle fragilità penserà la scuola. Ok, bene, ci proviamo, ma non è che ci state un po’ sopravvalutando? Come possiamo far tutto da soli? E, soprattutto: non è che questa è una facile scappatoia? Visto che non riusciamo a far niente noi, a casa, nello sport, nelle associazioni, chiediamo alla scuola di farlo per noi, al posto nostro? Be’, ho una notizia: sappiate che la scuola da sola non riesce a far niente. Perché il ragazzino ce l’abbiamo davanti a noi, quando va bene, 30 ore a settimana; ore in cui è assonnato, distratto, e in cui dobbiamo appunto fare anche mille altre cose. Nelle altre 90 ore settimanali che passa fuori dal letto sta con i genitori, con gli amici, a sport, da solo al computer, con le cuffie, sul cellulare, davanti alla TV: le 30 ore che passa in classe rappresentano solo un quarto della sua settimana. Anche ad essere i migliori insegnanti del mondo, la scuola non può fare miracoli. Serve uno sforzo collettivo, uno sforzo più ampio: servono famiglie attente e che forniscano modelli positivi, associazioni che si diano da fare, nonni che capiscano, allenatori che educhino, programmi televisivi adatti, social attenti (ed educanti più che giudicanti). Serve un lavoro serio, una revisione costante, una capacità di cambiare e, di nuovo, di rimboccarsi le maniche. Altrimenti sono tutte parole al vento, sono le ennesime occasioni sprecate.
Quello che ho registrato e pubblicato
Parliamo ora dei video e dei podcast che sono usciti questa settimana:
Rinascimento: i luoghi della cultura: parliamo di università, corti e accademie, luoghi importanti nel Rinascimento non solo italiano
Lo Stato ideale di Platone [Filosofia per ragazzi 18]: torna la nostra serie di video per i ragazzi più giovani, parlando dello Stato in mano ai filosofi
Il Parco di Monte Sole e Marzabotto: torna anche il Travel Club, con una capatina in luoghi tragici (ma importanti) del nostro passato recente
Il dualismo cartesiano e la fisica (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Fisica cartesiana e sue conseguenze (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
La conquista imperialista dell’Africa (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
Il canale YouTube | Instagram | Facebook | Twitter/X | TikTok
Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Trattato sulla tolleranza di Voltaire: di solito i libri di filosofia non cambiano la storia; cambiano al massimo il pensiero di alcuni uomini, uomini che poi, magari molti anni o addirittura molte generazioni dopo, cambiano la storia. Insomma, l’influsso del pensiero filosofico è sempre presente, ma segue a volte vie tortuose. Non è però questo il caso degli scritti di Voltaire, scritti che sempre si inserivano nel dibattito del tempo e lo influenzavano in maniera indelebile. Da questo punto di vista non si può non citare (e non leggere) il Trattato sulla tolleranza, che è un classico e che ha influito pesantemente sul Settecento. Vale quindi assolutamente la pena di comprarlo e leggerlo, anche perché non risulta particolarmente difficile. Lo potete acquistare qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
Chiudiamo anche col solito giro delle cose che vorrei lanciare sul canale durante questa settimana:
mercoledì si parte, se tutto va bene, con Tutto Socrate in un’ora, un grande riassunto sul maestro di Platone e di molti altri;
giovedì vorrei poi riuscire a realizzare una nuova puntata del Corso di logica;
domenica sera credo che sarà la volta della diretta mensile riservata agli abbonati;
lunedì arriverà infine un nuovo video dedicato alle prime civiltà mesopotamiche;
nei giorni che non ho elencato, invece, spazio ai podcast, con nuove puntate dedicate a Cartesio e alle guerre boere.
E questo è tutto, siamo di nuovo arrivati alla fine. Ci vediamo qui tra sette giorni esatti, anche per parlare, per una volta, di qualcosa di più leggero (e ce ne sarebbe bisogno, visti i tempi che corrono). Intanto, fate i bravi e buona settimana!