Quando a scuola il come conta più del cosa, ma parliamo anche di The Bear, Alessandro Barbero, Metropolis, Bertrand Russell, gli Ittiti, Venaria Reale, Una pallottola spuntata, Buridano e Peter Singer
Eccoci qui di nuovo, ormai verso la metà di marzo, per un'altra newsletter piena zeppa di libri, film e contenuti vari. Come forse avrete notato, nelle ultime settimane ho cercato di variare abbastanza la proposta dei video: oltre agli appuntamenti canonici con gli abbonati e ai video più classici di storia e di filosofia, ho ricominciato a dare un po' di spazio a video molto brevi, da un minuto, e sto cercando di rilanciare anche alcune rubriche che si erano “assopite” negli ultimi mesi, come quella del Dizionario filosofico o del Travel Club.
Altre novità però sono all'orizzonte e ci sto lavorando molto in queste settimane, anche se per ora non se ne possono vedere ancora i frutti: si tratta di progetti a lungo termine che saranno pronti tra qualche mese e che spero vi piaceranno. L’impegno necessario per queste cose sta rendendo abbastanza difficile riuscire a dare il giro a tutti gli impegni e agli appuntamenti di queste settimane, ma penso anche che sia necessario dare ogni tanto nuova linfa a questo grande progetto che ormai inizia a coinvolgere sempre più persone e toccare sempre più corde e sensibilità.
Intanto, per ora, proseguiamo col nostro solito iter, partendo dai libri e passando poi ai film, per arrivare infine anche a una questione di attualità. Una questione che, tanto per cambiare, questa settimana è incentrata sulla scuola. Cominciamo.
ps.: avete visto gli Oscar? Contenti dei molti premi a Oppenheimer? E del riconoscimento a Emma Stone? E del film straniero? E de Il ragazzo e l’airone?
Quello che ho letto
E iniziamo allora dai libri, con tre saggi in elenco, uno dei quali concluso proprio nei giorni scorsi.
Saggi scettici di Bertrand Russell: in primo luogo, sto continuando nella lettura di questo testo che vi ho presentato per la prima volta la settimana scorsa. Si tratta di un libro per la verità piuttosto discontinuo, e forse anche poco interessante per il lettore occasionale: al suo interno si passa da discussioni sulla filosofia che andava in voga all’inizio del '900, tra Bergson ed Einstein, a considerazioni più generali sulla politica e sul clima che si respirava in Europa a cavallo tra le due guerre mondiali. Possono sembrare discorsi ormai ampiamente sorpassati, e in buona misura lo sono, ma questo non dovrebbe secondo me inficiare il senso generale del discorso di Bertrand Russell, che mi pare ancora estremamente interessante: quello cioè, come ho già cercato di mostrare la settimana scorsa, di un approccio scientifico e razionale alle grandi questioni che ci dividono e che sono oggi al centro del dibattito pubblico. Negli anni Venti, Russell insisteva sulla razionalità che dovrebbe salvarci dagli odi etnici e dalla rabbia; noi oggi dovremmo insistere sulla razionalità che, con quella stessa forza, dovrebbe salvarci dalle faide politiche, antiscientifiche e irrazionali. Un secolo fa non è andata molto bene, visto che l'appello di Russell è rimasto inascoltato; oggi dovremmo sperare in un esito diverso. I segnali, però, non sono buonissimi; ad ogni modo il libro è lì, pronto a offrire i propri consigli a chi voglia stare a sentirli. Se siete interessati, lo potete acquistare qui.
All’arme! All’arme! I priori fanno carne! di Alessandro Barbero: finalmente sono arrivato a termine della lettura di questo volume, di cui vi ho già parlato nelle settimane scorse. Il finale ha riservato, lo dico subito, qualche sorpresa. Mi lamentavo infatti del fatto che, nella descrizione delle rivolte contadine del Trecento, mancasse un’analisi delle cause di quei movimenti di protesta: ebbene, l’analisi arriva nel finale, nelle conclusioni, anche se in modo un po’ affrettato, e quasi a mo’ di obbligo, come una cosa che “ci tocca assolutamente fare e però era più divertente non fare”. E questo, a dirla tutta, non mi è piaciuto tantissimo: il libro nasce per raccogliere delle conferenze pubbliche, e mi rendo ben conto che i rapporti di causa-effetto siano più noiosi in quei casi di una narrazione appassionante, ma su carta a me pare che serva qualche spiegazione in più rispetto a quando si parla al pubblico di sera. E insomma, un’analisi più approfondita dei moventi secondo me era d’obbligo. Inoltre c’è anche un altro piccolo difetto che ho notato: il costante tentativo di fare il confronto con la storia più attuale. Le ribellioni, qua e là, vengono raccontate in un’ottica di conflitto di classe; e nel finale, si avanza perfino un parallelo – una toccata e fuga, per la verità – tra le rivolte del Trecento e il nostro '68, tra la ribellione dei Ciompi e le proteste studentesche nate in Occidente alla fine degli anni Sessanta e proseguite poi nei Settanta. E mi vien da dire: ma che c’entra? Perché non si può analizzare un fatto storico per ciò che esso è stato, nella sua epoca? Perché questo costante cercare di riportare qualcosa di passato e specifico alle categorie contemporanee? È un’operazione che fanno spesso anche i Wu Ming e, per quanto li apprezzi molto come narratori, trovo spesso fastidiosa: quella cioè di raccontare il passato con gli occhiali dell’oggi (pensate a Q, dove le rivolte religiose della Germania del Cinquecento venivano raccontate come se fossero le lotte tra Brigate Rosse e servizi segreti deviati nell’Italia degli anni '70). Certo che a volte dei contatti tra il passato e il presente ci sono, e fare dei confronti può essere utile e interessante; ma portare sempre il discorso dal passato al presente mi sembra finisca per svilire quel passato, vedendolo solo come un riflesso di categorie e di ideologie a cui nel passato neppure lontanamente si pensava. Q, ad esempio, è un gran bel libro, ma non dà molto conto dell’ansia religiosa che segnava i suoi protagonisti, calcando la mano invece sull’aspetto politico; e All’arme! All’arme! I priori fanno carne!, nel suo tentativo anche nobile di rendere interessanti quelle vicende, mi pare finisca per perdere di vista le motivazioni vere della gente d’allora, diventando un semplice racconto di ribellione che pare a volte fine a se stesso. Certo, un pubblico più generalista probabilmente apprezzerà quelli che a me sembrano dei piccoli difetti: amerà la foga del racconto e la capacità di Barbero di passare dallo ieri all’oggi; e non nego che in una serata all’aperto, sotto le stelle, questo stile non possa avere successo. A me però non ha fatto fare i salti sulla sedia. Comunque sia, il libro, se vi interessa, lo trovate qui.
Quando meno diventa più di Paolo Legrenzi: Paolo Legrenzi è uno studioso che negli ultimi anni ha pubblicato diversi libri interessanti. Dopo una carriera molto lunga e molto proficuo in ambito accademico, insegnando in particolare psicologia a Venezia, una volta andato in pensione si è buttato a capofitto sulla divulgazione (settore in cui aveva comunque già avuto qualche esperienza negli anni precedenti), riuscendo spesso anche piuttosto bene a veicolare ad un pubblico più ampio alcuni dei risultati a cui è giunta la psicologia comportamentale negli ultimi decenni. Attirato dalla facilità della sua scrittura, negli anni ho recuperato diversi suoi libri, anche se non tutti poi alla prova dei fatti mi hanno interessato allo stesso modo. Da un paio di giorni mi sono però buttato su uno dei suoi lavori più recenti, Quando meno diventa più, che tocca temi che tra l'altro ultimamente mi interessano molto. Niente di trascendentale se siete appassionati di filosofia e di psicologia, ma se invece non navigate spesso in queste acque il libro può risultare forse anche per voi accattivante. Il tema è quello della sottrazione: secondo Legrenzi, infatti, la nostra società ha sempre insistito tanto sull’aggiunta, sul “di più”, sull'addizione, dimenticando che però è ugualmente importante anche il meno, la privazione, la sottrazione. Così, lo studioso propone una sorta di storia culturale dei vantaggi del meno, toccando aspetti filosofici, psicologici e perfino economici, in una disamina breve ma interessante. Se vi attira, potete acquistare il libro qui.
Quello che ho visto
Passiamo ora ai film e alle serie TV: nel primo caso troverete dei classici (anche se diversissimi tra loro), mentre per quanto riguarda le serie ritorna in elenco The Bear.
Metropolis (1927), di Fritz Lang, con Gustav Fröhlich, Brigitte Helm, Alfred Abel: vi ho già raccontato la settimana scorsa della mia gita a Torino, con annessa la classica visita al Museo del cinema dentro alla Mole Antonelliana. Girando tra le varie sale assieme ai miei studenti, in quei giorni mi sono lanciato, come al mio solito, nei miei classici “pipponi” sul cinema di una volta, citando capolavori di altri tempi e insistendo, da buon boomer, affinché li guardassero una volta giunti a casa. Tra i tanti film di cui abbiamo discusso, complici i manifesti che erano appesi lungo le varie pareti del museo, c'è stato anche Metropolis, sul quale anche un paio di allievi si sono soffermati perché ne avevano sentito parlare. E così, qualche giorno fa, incappando per caso di nuovo in questo titolo, ho provato a vedere se per caso fosse presente sulle piattaforme di streaming, voglioso di rivederlo dopo qualche anno dall’ultima visione. A sorpresa, effettivamente c'era, disponibile su Amazon Prime Video nella versione ricostruita e rimusicata negli anni '80 da Giorgio Moroder. Il film, ve lo dico subito, è in realtà muto, ma non spaventatevi troppo: è anche uno dei capolavori di Fritz Lang, anche se da un certo punto di vista piuttosto controverso. Ancora oggi, tra i critici c'è infatti chi lo adora e chi invece lo ritiene sopravvalutato. E in effetti, guardandolo, si può anche capirne il perché. Visivamente, la pellicola è originalissima: realizzata nel 1927, risente delle avanguardie artistiche della Germania di Weimar, con immagini futuristiche che convivono con impianti o rimembranze addirittura babilonesi o mesopotamiche. La recitazione è tipicamente espressionista, ma in un film muto c'era anche da aspettarselo; il problema è casomai la trama, che dal punto di vista politico risulta molto ambigua. Ambientato nel 2026 (che per noi è dopodomani, ma quando uscì Metropolis era cento anni avanti nel futuro), il film immagina una società vagamente distopica in cui i ricchi vivono in un ambiente fantascientifico che però si regge in piedi grazie al lavoro spersonalizzato e quasi schiavistico di una gran massa di operai che abita nel sottosuolo. Il figlio di un grande industriale scopre improvvisamente il lato oscuro del suo mondo, invaghendosi anche di una giovane donna, Maria, che si occupa dei figli degli operai e tiene vive le loro speranze, annunciando quasi misticamente l'arrivo prossimo venturo di una specie di salvatore. A causa di un piano ordito dall'industriale padre e del protagonista, però, un robot con le sembianze di Maria viene mandato tra gli operai, con lo scopo di tenerli sotto controllo ma finendo per sobillarli e incitandoli alla ribellione. Ne nasce un tumulto che rischia di distruggere anche le abitazioni degli stessi operai, tumulto risolto dal ritorno della vera Maria e del figlio dell'industriale, che viene individuato come il nuovo Messia in grado di trovare la pace e la collaborazione tra industriali e operai. A pensarci bene, si capisce perché il film piacesse tanto a Hitler: la morale infatti è che una ribellione da parte degli operai sfruttati sarebbe solo controproducente, e che è molto meglio affidarsi a una figura salvifica, appunto un Messia, che sappia trovare un compromesso tra il popolo e i capitalisti. È abbastanza chiaro che Hitler poteva facilmente vedere sé stesso in questo ruolo, come un pacificatore, una guida, un salvatore. Il film, tra l'altro, fu scritto da Lang assieme alla moglie di allora; e se lui poi, qualche anno dopo, sarebbe diventato un fiero oppositore del regime nazista, lasciando per questo anche la Germania, la moglie, già prima del divorzio, si avvicinò invece all'ideologia hitleriana, rimanendo nel paese anche durante la guerra. Se vi interessa recuperarlo, lo trovate come detto su Amazon Prime Video.
The Bear episodio 2.07 (2023), di Christopher Storer, con Jeremy Allen White, Ebon Moss-Bachrach, Ayo Edebiri: ho parlato già varie volte di The Bear, la premiatissima serie statunitense che viene trasmessa in Italia da Disney+. Però devo anche dire che è impossibile non parlarne e non parlarne bene: ogni volta che ne vedo un nuovo episodio rimango infatti stupito dalla qualità di tutti gli aspetti della sua realizzazione, dalla sceneggiatura alla recitazione, dalle inquadrature fino alla scelta delle canzoni d'accompagnamento. Questa settimana in particolare ho visto il settimo episodio della seconda stagione, intitolato Forchette e incentrato completamente sulla figura di Richie, il cugino del protagonista Carmy, magistralmente interpretato da Ebon Moss-Bachrach. In questo episodio il personaggio – che ha un caratteraccio ed è spesso al centro dei litigi che avvengono nel ristorante – viene mandato da Carmy a fare una settimana da stagista in un importante ristorante stellato di Chicago. Lì può rendersi conto non solo dei ritmi di lavoro di camerieri e cuochi, ma soprattutto dell’attenzione che il personale riserva a tutti i clienti. Questo amore per i dettagli e per la buona resa del lavoro sembra rinvigorire il personaggio di Richie, ma in un certo senso rinvigorisce anche noi, perché sembra darci un senso nella vita: in un mondo incerto, privo di direzione e pieno dolore, forse una soluzione valida all’assurdità della vita è fare bene quel poco che si fa, farlo con dedizione e amore, farlo pensando di donare qualcosa in maniera completamente gratuita a qualcuno che ne trarrà giovamento. Come ho già detto, bellissimo. Se vi interessa, le prime due stagioni dello show sono disponibili su Disney+.
Una pallottola spuntata (1988), di David Zucker, con Leslie Nielsen, Priscilla Presley, Ricardo Montalbán: penso che Una pallottola spuntata non abbia bisogno di molte presentazioni e che l'abbiate già visto tutti, a meno che non siate proprio giovanissimi: si tratta di un classico del cinema demenziale, uscito nel 1988 e con però due seguiti arrivati negli anni successivi. La storia è quella di un imbranato agente della polizia di Los Angeles, Frank Drebin, violento, macho e totalmente incapace, alle prese con diverse minacce terroristiche. Il film, pur nella sua incredibile leggerezza, è però anche pieno di grande inventiva: nonostante lo abbia visto diverse volte, non riesco a non ridere davanti ad alcune gag, come quella della sagoma della vittima disegnata sull'acqua o dell'esclamazione “Bingo!” all'apertura del cassetto della scrivania. Assieme a L'aereo più pazzo del mondo, un capolavoro del cinema demenziale, l'apice di quello che di meglio si poteva realizzare in quell’ambito. Se non l'avete visto è sicuramente da recuperare, ma anche se l'avete già visionato merita una nuova possibilità, per una serata tranquilla e scanzonata. Al momento mi pare sia disponibile solo su Paramount+, ma forse vale la pena di comprarlo in DVD (la trilogia costa pochissimo).
Quello che ho pensato
Ogni anno escono libri sulla bellezza del latino o del greco. Solo per citare alcuni titoli recenti, menzionerei Viva il latino di Nicola Gardini, Siamo tutti latinisti di Cesare Marchi o La lingua geniale di Andrea Marcolongo. Ma allo stesso modo, ogni anno sento colleghi tessere le lodi di queste materie coi genitori indecisi su quale scuola far fare ai loro figli, e poi lamentarsi del fatto che sempre meno persone s’iscrivano al classico o allo scientifico tradizionale (quello, appunto, col latino).
Capisco il problema e, contrariamente a quanto questo inizio farebbe pensare, non sono in procinto di affermare che le lingue morte non servano; perché per la verità oserei sostenere una tesi ancora più ardita: che in realtà nessuna materia, di per sé, serva.
Sarebbe un discorso lunghissimo da fare e soprattutto da sostenere con validi argomenti, ma qui vorrei tentare un accenno attorno a un discorso che mi ronza in testa da diversi anni, e che non ho mai realmente visto scalfito dai commenti o dalle idee di decine (se non centinaia) di colleghi. E il discorso è questo: che quello che manca alla scuola italiana non è mai questa o quella materia, questa o quell’ora, questo o quel modo di porre il programma, ma un approccio al sapere che sia ben strutturato. E l’approccio al sapere è (o dovrebbe essere) in buona misura indipendente dai contenuti specifici.
Per spiegarmi meglio, vorrei provare a partire da una domanda molto semplice, e però proprio per questo in realtà quasi inedita: uno studente, cosa deve apprendere a scuola, alle superiori? Anzi, limitiamo ulteriormente il campo, per non complicarci troppo la vita: cosa deve apprendere a un liceo? Non ovviamente un mestiere, perché il liceo prepara essenzialmente all’università, dove ci si specializzerà verso una professione. Si dice di solito: il liceo ti deve dare un metodo di studio. Sì, certo; ma è ancora poco. Fosse solo quello, basterebbero molte meno ore e probabilmente anche meno anni di lavoro.
Qualcuno potrebbe allora aggiungere: il liceo ti deve dare le basi di tutte le materie. Sì e no, risponderei io. Perché sicuramente quando sei dentro a un liceo impari a barcamenarti in tante discipline, ma quelle basi non sono certo durature. Io a scuola andavo molto bene, ero bravo anche in matematica, eppure oggi non ricordo una virgola di tutto quello che ho fatto dopo il biennio delle superiori; è già una grazia se riesco a risolvere un sistema, figuriamoci impostare uno studio di funzione. Cosa mi ha lasciato la matematica – fatta per 5 ore a settimana per 5 anni – a livello di contenuti? Poco o nulla.
Non parliamo del latino: ai miei tempi, in seconda superiore, al liceo scientifico il latino era la materia con più ore nel quadro orario, ben 5 (mentre ad italiano ne erano dedicate solo 4). E cosa mi è rimasto? Quasi nulla. Non saprei tradurre nemmeno una versione di seconda superiore, ora come ora. Non ricordo le regole, se non in maniera molto confusa. Arrivo a malapena a ricordare fino alla terza declinazione, poi il nulla assoluto.
Si potrebbe ancora rispondere: ok, sì, ma i contenti non sono la cosa veramente importante. Ciò che è importante è la forma mentis. Ecco, sì: su questo sono d’accordo. Più che di metodo di studio (che poi è un nome elegante per parlare di un mix di dedizione, concentrazione e organizzazione), parlerei di forma mentis. E però, allo stesso tempo, mi chiedo: la scuola italiana, il liceo italiano, la dà questa forma mentis? E se sì, quale?
Perché siamo pieni di materie che dovrebbero insegnarci a ragionare: la filosofia, in primis; e poi però anche il latino, la matematica, la fisica, l’informatica, l’italiano, l’inglese, le scienze naturali… Tutte lavorano sui ragionamenti, sulle argomentazioni e sulle prove, sul metodo scientifico e sul metodo storico, sulla critica e la contro-critica, certo con diverse peculiarità ma con lo scopo di insegnare ai ragazzi come si conduce un ragionamento sensato.
Con tutta questa forma mentis e tutti questi liceali, sarebbe lecito aspettarsi un discorso pubblico di alto livello. E invece a me pare che il livello – in tv e sui giornali – sia spesso estremamente basso, e che anzi negli ultimi anni sia addirittura peggiorato. Non so se sia una mia impressione, ma mi sembra che tv, giornali e web siano pieni zeppi di fallacie logiche che non si cerca neppure più di mascherare, neppure più di “infiorettare”.
L’ultimo caso? Il delirio di Jorit, l’artista napoletano che nei giorni scorsi ha difeso pubblicamente Vladimir Putin, affermando che l’Occidente non ha il diritto di attaccarlo, a causa del caso Assange. Si tratta di una dichiarazione francamente assurda: fosse anche vero che l’Occidente stia ingiustamente tormentando Assange, in che modo questo alleggerirebbe la posizione di Putin? È come se io ammazzassi un passante e poi dicessi: «Sì, però, agenti, adesso andateci calmi con questa cosa che mi volete arrestare: guardate che in America so di un poliziotto che stupra le donne!» Suona assurda, come giustificazione, giusto? Perché, anche ammettendo che in America ci sia un poliziotto che stupra le donne, questo non mi renderebbe affatto innocente. Eppure ormai il nostro dibattito pubblico è continuamente inquinato da frasi che suonano esattamente così, da benaltrismi, cherry picking e assurdità talmente numerose che non si sa neppure più come rispondere: e il fatto che vengano pronunciate senza alcun pudore sembra, a tratti, quasi renderle accettabili.
Ce n’è molta di strada da fare, insomma, sulla forma mentis, perché quello che abbiamo costruito in questi quasi 80 anni di scuola repubblicana non ha ancora dato molti frutti. La filosofia, evidentemente, non basta, come non bastano il latino, la matematica, la fisica, l’italiano. Proprio perché, come dicevo all’inizio, temo non sia una questione di materie né di ore, ma di struttura. Detta altrimenti: il problema, di per sé, non è che i ragazzi non vogliano più fare latino, ma forse il modo in cui insegniamo.
Come facciamo filosofia al liceo, ad esempio? Molto spesso in modo nozionistico: chiediamo ai ragazzi di ripetere più o meno a memoria quello che hanno studiato; al limite di rielaborare un attimo, con parole loro, il pensiero di Aristotele o Platone. Ma può bastare imparare la dottrina delle idee per dire di saper pensare? Io penso di no; perché dovremmo in realtà chiedere ai ragazzi di non ripetere la dottrina delle idee, ma di ripensarla, di criticarla o di sostenerla, e non solo di ripeterla. Chiaramente prima dobbiamo spiegargliela e fargliela capire; ma da lì dobbiamo poi chiedere loro qualcosa in più.
Come insegniamo il latino o l’italiano? Anche qui, tante regole da mandare a memoria, una buona parte di nozionismo e, di solito, scarso slancio, scarsissimo senso critico. Diamo ormai le regolette per ogni cosa, così che anche la stesura del testo diventi un compito quasi meccanico, da svolgere senza pensare. E, diciamolo, molte prime prove anche alla maturità sono evidentemente svolte col cervello spento, col cervello che va avanti in modo automatico. D’altronde, forniamo agli studenti l’analisi critica di ogni opera che leggono, già bell’e pronta: e mi chiedo, non sarebbe meglio lasciar perdere le poesie più complesse, e farli esercitare invece sull’analisi critica di prose più semplici? A che serve sapere a memoria cosa dice la critica su Leopardi, quando spesso non si ha il coraggio di avventurarsi da soli nell’analisi neppure di un articolo di giornale?
E la matematica? E le scienze? Anche lì si potrebbero elencare difetti simili: non si salva quasi nessuno. È tutto (o quasi) un ripetere, un replicare, un continuare a fare come ti hanno insegnato. E non è difficile capire perché gli insegnanti, in questo contesto, si sentano più degli esaminatori che degli insegnanti veri e propri: ti mostrano “come si fa” e vogliono che tu faccia più o meno così, come ti hanno insegnato. E se assomigli a loro ti premiano, se ti discosti da loro ti puniscono: è naturale che sia così se non ti si lascia spazio d’espressione.
Sì, lo so, sto probabilmente esagerando. Quella che sto descrivendo, in realtà, è la scuola di quaranta o cinquant’anni fa, mentre oggi qualcosa è cambiato: lo ammetto. Ma la scuola non ha mutato completamente faccia: pur tra varie differenze, l’approccio è rimasto quello di un tempo. Anche i libri di testo sono strutturati così: nozioni da imparare e ripetere. Quindi il problema – per quanto meno grave di un tempo – è rimasto.
Questo un po’ è inevitabile, ovviamente: per poter svolgere una critica, servono prima delle basi. Per poter criticare un testo, bisogna capire come funziona l’analisi critica e bisogna partire da alcuni esempi. Eppure mi pare che ai ragazzi – fino praticamente all’università – si chieda sempre un approccio passivo, di chi subisce la cultura invece di farla. Una cosa che poteva forse funzionare un tempo, in una società bloccata come la nostra, ma che oggi dovrebbe cedere il passo a qualcosa di diverso. Dove sta la creatività, a scuola? Dove sta il lavoro cooperativo (ma non per fare una ricerchina da quattro soldi, quello vero)? Dove sta l’elaborazione di qualcosa di autonomo? Dove sta la personalità?
Insomma, latino o non latino, filosofia o non filosofia, discipline STEM o non STEM: non è questo, in realtà, il problema. Il problema è più profondo, di metodo, di idea di mondo. E quello non lo si cambia in fretta.
Quello che ho registrato e pubblicato
Ora passiamo ai video e ai podcast che abbiamo pubblicato questa settimana sul canale:
Ittiti, Assiri e la seconda Babilonia: si torna a parlare di storia antica, concentrandosi sulle ultime importanti civiltà mesopotamiche
A priori e a posteriori: spieghiamo il significato e la storia di un paio di importanti espressioni filosofiche (e non solo filosofiche)
La reggia di Venaria Reale: una nuova puntata del Travel Club dedicata ai dintorni di Torino
Gli affetti primari e secondari per Spinoza (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
La Guerra di Libia e la fine del giolittismo (per il podcast “Dentro alla storia”)
L’asino di Buridano
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
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Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Liberazione animale di Peter Singer: contrariamente a quello che pensano alcuni dei miei studenti, la filosofia non è affatto morta, ma continua oggi ad alimentare il dibattito su alcuni temi molto caldi. Uno di questi è indubbiamente quello dei diritti degli animali e il volume più importante in questo settore è sicuramente Liberazione animale di Peter Singer, che ha ormai diversi decenni sulle spalle ma che rimane ancora oggi molto stimolante e attuale. Tra l'altro sta per uscirne una nuova versione riveduta e ampliata, ma io vi consiglio per ora di partire dal testo base (che costa anche meno): lo si può comprare qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
Cosa vedremo (probabilmente) nella settimana appena cominciata? Ecco i video e i podcast previsti, salvo sorprese, sul canale:
domani e dopodomani si parte subito coi podcast, con una puntata dedicata a Spinoza (dovremmo finire l’Etica) e una sull’inizio della Prima guerra mondiale;
giovedì forse riuscirò a realizzare un video di filosofia su Telesio;
per venerdì avrei messo in programma una nuova puntata della serie dedicata alla storia dei consumi, ferma da qualche tempo;
sabato e domenica sarà poi di nuovo la volta dei podcast, con forse l’ultima puntata su Spinoza e la continuazione della Prima guerra mondiale;
lunedì prossimo, infine, ho messo in elenco uno short dedicato al paradosso del mentitore.
E questo è tutto. Passate una bella settimana, divertitevi e studiate, com’è bene sempre fare. Ci rivediamo qui tra sette giorni esatti.