Su Godard, Galileo, Tommaso e Camus, ma anche House of the Dragon, la Rivoluzione francese, la democrazia, l'Iran, la guerra, il femminismo, il cristianesimo e il potere
Settembre, il mese della ripartenza, è terminato. La scuola è ricominciata, sul canale YouTube abbiamo dato il via al sistema di abbonamenti e nel frattempo ci sono pure state le elezioni politiche. Insomma, tutto ha ripreso a marciare, anche se forse non riusciamo ancora a concentrarci del tutto sulla nostra routine, visto che la crisi incombe: i prezzi continuano a salire e intanto Vladimir Putin minaccia a spron battuto l’uso delle armi nucleari.
Al di là di questo avvio, insomma, i prossimi mesi saranno davvero decisivi e forse duri. Tenete gli occhi aperti e la barra dritta: ci sarà molto da osservare, pensare, capire. E, come diceva Voltaire, ci sarà anche da «coltivare il proprio giardino», cioè fare la propria parte, con umiltà, costanza e fatica. Lavorare per il bene comune è un’operazione che si fa giorno per giorno, nel proprio piccolo, ma è sempre più fondamentale in un mondo popolato (anche) da imbecilli e, passatemi il termine, stronzi.
Intanto questo bene, ora, cerchiamo di farlo nel nostro piccolo parlando dei libri, dei film e delle riflessioni di questa settimana.
Quello che ho letto
Partiamo come sempre, appunto, dai libri. Questa settimana ritrovate in lista un bel romanzo comico che ho cominciato a presentare nelle ultime newsletter, ma anche due nuovi volumi dal taglio più filosofico.
Il mito di Sisifo di Albert Camus: il libro da cui partiamo è un classico del Novecento, sia dal punto di vista letterario che filosofico: si tratta infatti del più celebre saggio di Albert Camus, importante scrittore di opere come Lo straniero e La peste e Premio Nobel per la letteratura nel 1957. Nonostante io abbia letto entrambi i romanzi sopracitati più anche altre opere di Camus, non avevo finora mai affrontato Il mito di Sisifo, di cui avevo sempre letto e sentito parlare ma solo in forma indiretta. Il libro (scritto tra l’altro quando Camus non aveva ancora trent’anni) è breve e in effetti, dopo appena pochi giorni, sono già quasi alla fine, nonostante stia cercando di centellinarlo e di gustarlo con tempi lenti; ma non tradisce le attese. Partendo dalla domanda fondamentale – se sia il caso o meno di suicidarsi –, Camus conduce la sua analisi dell’esistenza umana, insistendo molto sull’assurdità della stessa ma, nel medesimo tempo, su come nessun altro filosofo abbia in fondo affrontato compiutamente quest’assurdità, se non proponendo il più delle volte delle vie di fuga irrealistiche o illusorie. Perfetto compendio alle opere di Sartre, il libro è una riflessione interessante sul senso della vita, ancora oggi estremamente attuale. Lo si può comprare qui.
I diciotto anni migliori della mia vita di Alessandro De Angelis: l’altro volume a cui facevo riferimento all’inizio parlando di “libri dal taglio filosofico” non è, ad esser sincero, un vero libro di filosofia, quanto piuttosto la biografia di uno scienziato; ma di uno di quegli scienziati che con le loro idee e forse ancora di più con la loro vita hanno fatto anche la storia della filosofia. Sto parlando ovviamente di Galileo Galilei, il grande fisico pisano, di cui De Angelis – a sua volta astrofisico – ci racconta in questo libro edito da Castelvecchi gli anni patavini. Come ricorderete, infatti, tra il 1592 e il 1610 Galileo visse a Padova, dove insegnò proficuamente e dove cominciò a fare le prime importanti scoperte, che l’avrebbero portato poi a sposare il sistema copernicano e ad incappare nel famoso processo, nella condanna e nell’abiura. Per ora il libro l’ho cominciato da poco, ma si respira, mi sembra, la giusta aria. Certo, il rischio è quello di subire in un certo senso un costante confronto con la Vita di Galileo di Brecht, ma mi pare che De Angelis, bellunese di nascita e padovano d’adozione, miri a sottolineare soprattutto i legami di Galileo con la città veneta. D’altra parte, devo anche dirvi che il volume mi è stato regalato proprio da un professore dell’Università di Padova con cui ho collaborato negli ultimi mesi, e quindi questo taglio mi sembra molto adeguato e mi piace. Vi darò un giudizio comunque più ampio sul libro quando sarò andato un po’ più avanti nella lettura. Intanto, se vi interessa, lo si acquista qui.
Il buon soldato Sc’vèik di Jaroslav Hasek: di questa satira del militarismo vi ho già parlato la settimana scorsa, ma sto continuando a leggere il volume – che comunque è bello corposo – con grande interesse. Hasek, tra l’altro morto giovanissimo, era davvero pieno di inventiva e non risparmiava nessuno: dopo aver preso in giro per pagine e pagine la polizia politica austro-ungarica e i tribunali, da qualche capitolo se la sta prendendo con la chiesa. Sc’vèik, infatti, è ora entrato a servizio di un cappellano militare che però alza un po’ troppo il gomito: e gli esiti sono clamorosamente comici e dissacranti. Il libro lo si compra qui.
Quello che ho visto
Passiamo ai film e alle serie TV. Un po’ sollecitato dagli abbonati al canale – coi quali ho fatto la prima diretta riservata (e se non sapete di cosa sto parlando, passate alla sezione Quello che puoi fare per sostenere il canale) –, un po’ incuriosito dal tanto parlare, questa settimana ho provato una delle due serie fantasy di cui parlano tutti. Ma non ho visto solo storie di draghi: in elenco trovate anche due film molto utili per capire pezzi importanti della storia recente.
Persepolis (2007), di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud: ho accennato a questo film qualche giorno fa anche sui social network, e il grande riscontro ottenuto da quel breve post mi ha convinto del fatto che ci sia la necessità di parlarne in maniera più approfondita, quindi tenetevi pronti perché presto arriverà anche una puntata del Video Club Storico-Filosofico, su YouTube, espressamente dedicata a questo film. Intanto qui – visto che l’ho anche rivisto assieme ai figli più piccoli qualche giorno fa – posso dirvi questo: si tratta di un cartone animato realizzato una quindicina d’anni fa in Francia a partire da un fumetto autobiografico dell’esule iraniana Marjane Satrapi, e racconta la crescita e la formazione, tra l’Iran e l’Europa, di una ragazza che si trova a disagio all’interno del regime islamista. Delicato e toccante, Persepolis riesce a raccontare in maniera originale il dramma dell’Iran, scivolato rapidamente dal regime oppressivo dello scià a quello ancora più oppressivo degli ayatollah. E lo fa, come è giusto che sia, dal punto di vista di una giovane bambina prima e ragazza poi. È un film adatto quasi a tutte le età (anche se c’è un linguaggio a tratti un po’ colorito, ma non in maniera eccessiva) e molto bello. Purtroppo al momento non è disponibile nelle piattaforme di streaming, ma il DVD costa davvero poco (ed eventualmente c’è anche il libro).
House of the Dragon episodio 1.01 (2022), di Ryan Condal e George R. R. Martin, con Paddy Considine, Matt Smith, Emma D’Arcy: durante questa settimana che si è appena conclusa, tra le altre cose, come anticipavo qualche riga più sopra ho svolto anche la prima “diretta riservata” per gli abbonati al canale. È stata una cosa più intima rispetto alle altre dirette, in cui però le domande sono letteralmente fioccate. E tra le tante c’è stato anche chi – in particolare Luca – mi ha chiesto se avessi guardato le serie che vanno per la maggiore in queste settimane, come House of the Dragon o Gli anelli del potere. In quel momento non avevo ancora visto né l’una né l’altra, ma dopo quella serata mi è rimasto in un certo senso il tarlo in testa e così in questi giorni ho almeno recuperato l’episodio pilota di House of the Dragon, la serie disponibile su Sky che fa da prequel a Il trono di spade. La produzione è sicuramente ad altissimi livelli: si nota ovunque lo sforzo di creare grandi scenografie, di lavorare con ottimi attori (tutti con una solida carriera alle spalle, anche se magari non di primissimo piano) e di curare la messa in scena fin nei minimi dettagli. Certo, è difficile creare qualcosa di completamente nuovo in un universo (e in generale in un genere) che è stato ormai sfruttato fino allo sfinimento, e un po’ la ripetitività di temi si nota; però allo stesso tempo bisogna dire che questa serie restituisce ai fan le stesse vecchie emozioni ed atmosfere de Il trono di spade. Insomma, per farla breve: se vi è piaciuta la serie tratta dai libri di George R.R. Martin e ne volete ancora, questo è il serial che fa per voi; altrimenti, pur essendo ben fatta, vi potrebbe un po’ annoiare o stufare. Io non sono un grande fan del fantasy in chiave “intrighi di palazzo”, ma penso che forse ne guarderò ancora qualche puntata, più che altro per vedere come si evolve la trama.
We Want Sex (2010), di Nigel Cole, con Sally Hawkins, Bob Hoskins, Rosamund Pike: abbiamo aperto con un film sulle donne (in Iran), chiudiamo con un altro film sulle donne, anche se questa volta nell’Inghilterra degli anni '60. We Want Sex (discutibile adattamento italiano di un titolo che in originale non ha nessun riferimento sessuale) è un film ispirato ad alcuni fatti realmente accaduti: si concentra infatti sulla condizione delle operaie della più grande fabbrica Ford del tempo, condizione che cominciò a mutare proprio nei tardi anni '60. In quel periodo la Ford era una delle aziende più retrive dal punto di vista dei diritti delle lavoratrici: le donne – che lavoravano perlopiù alla tappezzeria delle auto – erano trattate come operaie non qualificate e per questo pagate pochissimo, soprattutto in rapporto ai colleghi maschi. Ad un certo punto, esasperate, proclamarono uno sciopero ad oltranza, che riuscirono a portare avanti nonostante l’ostilità perfino di ampie parti dello stesso sindacato, dominato dalla componente maschile. Alla fine, grazie alla mediazione della ministra Barbara Castle (all’epoca al Ministero del Lavoro e della Produttività), le donne riuscirono ad ottenere importanti aumenti di stipendio, portando per la prima volta alla ribalta nel Regno Unito il tema della parità salariale tra uomini e donne. L’argomento centrale del film, come avrete capito, è dunque molto importante e interessante, e la pellicola lo rappresenta in modo chiaro; l’unico difetto è che a volte mi sembra indugi forse un po’ troppo sulle vicende personali dei personaggi, soprattutto romanzando eccessivamente una storia che in realtà era già piuttosto forte di per sé e che non aveva quindi bisogno di eccessivi fronzoli. Comunque rimane un film interessante. Lo trovate su Amazon Prime Video.
Quello che ho pensato
Un paio di settimane fa, in una di queste nostre newsletter, vi ho parlato del film Il mio Godard, pellicola che racconta uno spezzone della vita del grande regista francese, regista da poco morto tramite la pratica del suicidio assistito. Quel film si conclude con una scena che mi è rimasta molto impressa e da cui vorrei partire per la riflessione di oggi.
Siamo nel 1969, nel bel mezzo del periodo maoista e marxista di Godard. Il regista francese ha da poco aderito a una specie di collettivo, il gruppo Dziga Vertov, in cui si propone di fare film “democratici”, in cui scompaia il ruolo dell’autore e in cui tutte le decisioni vengano prese collettivamente. In pratica, ogni scena, ogni inquadratura non è più il frutto della scelta di uno sceneggiatore o di un regista, ma tutta la troupe discute su ogni singola scelta, fino ad arrivare ad una decisione collettiva, presa perlopiù a maggioranza. In effetti Il mio Godard si sofferma, nel finale, proprio su una sorta di riunione in cui si deve decidere quali scene del film girare e come girarle; riunione a cui partecipano Godard e gli altri esponenti del collettivo, troupe compresa.
Il clima pare essere teso: ognuno ha una sua idea su come fare il film. Godard è quello che ha le idee più forti e forse anche quelle qualitativamente migliori (d’altronde in quel momento ha quasi quarant’anni ed è un regista già affermato, uno dei migliori della storia del cinema), ma è messo in minoranza un po’ da tutti. Ne nasce un litigio.
Lui, per giustificare le proprie idee, dice: «Perché io vedo cose che voi non vedete, e io capisco cose che voi non potete capire. E almeno ho dei dubbi».
Qualcuno dalla troupe gli risponde: «Basta però, dobbiamo prendere una decisione. È semplice, devi scegliere Jean-Luc: o rispetti i principi dell'autogestione e segui la maggioranza, o fai il piccolo capo come tutti i registi, però la smetti di parlare di rivoluzione. Devi solo scegliere: o la politica o il cinema. D'accordo?»
Alla fine Godard sceglie la politica: china la testa e, fedele all’ideale marxista, accetta che sia la troupe a decidere. Anche se pensa che sia sbagliato. Anche se, essendo un grande regista, in fondo sa che la scelta della troupe è sbagliata.
Io il film Vento dell’est – quello che quel collettivo realizzò nel 1969 – non sono mai riuscito a vederlo, perché è quasi introvabile. I pochi critici che l’hanno potuto ammirare l’hanno descritto come un film brutto, uno dei peggiori di Godard, solo parzialmente salvato da un grande lavorio al montaggio. In effetti dopo le riprese Godard lavorò intensamente, questa volta quasi da solo, per rimediare col montatore a quanto fatto con la troupe.
Ecco, secondo me quella scena dice molto, certo, della deriva ideologica che aveva preso il cinema di Godard, ma dice molto anche del concetto di democrazia, ed è estremamente attuale.
Da quando i popoli hanno cominciato ad avere un ruolo sulla scena politica, a poter dire la loro, nel nostro mondo si sente la stessa tensione che probabilmente sentiva Godard in quella discussione con la sua troupe: la tensione tra la sapienza e la democrazia, direi quasi tra il principio platonico e quello marxista. E il lavoro di una troupe cinematografica, in questo senso, può essere la perfetta metafora del funzionamento politico dello Stato.
Provo a spiegarmi meglio. Pensate a un regista che deve dirigere un film: lui, sul set, è di solito un vero e proprio dittatore. Ha il potere di scegliere le inquadrature, di dire quando girare e quando fare pausa, di imporre il suo stile al film. È lui che dice agli attori come recitare, al cameraman come muovere la macchina da presa e poi, alla fine, al montatore come tagliare la pellicola. E ha quel potere perché è stato scelto sulla base della sua competenza, delle sue capacità; perché si ritiene (a volte a ragione, a volte a torto) che sia l’uomo giusto al posto giusto, o quantomeno il migliore sulla piazza.
Il regista, in questo senso, funziona come il governante di Platone. Ricordate La Repubblica? In quel libro il grande filosofo ateniese esponeva il suo punto di vista secondo cui solo persone sapienti e integerrime (i filosofi) sarebbero state in grado di portare lo Stato verso il bene. Ecco, nel campo del cinema quelle persone superiori sono i registi. E infatti nello Stato platonico e sul set non vige alcuna democrazia.
L’esperimento di Godard, però, cercava di sovvertire tutto questo. Convinto che ogni forma di potere fosse un’imposizione borghese, Godard volle smettere di essere un autore, volle smettere di essere un regista nel senso classico del termine. Voleva che a governare fosse il collettivo, e quindi le decisioni non spettavano più al dittatore ma all’assemblea riunita. Il suo tentativo rappresentava in fondo il trionfo del principio democratico, alla Rousseau o alla Marx: a dominare doveva essere la volontà generale, o quantomeno la volontà della maggioranza. Che Godard, almeno all’inizio, era convinto sarebbe più o meno coincisa con la sua volontà individuale.
Tutto molto bello, in teoria, perché finalmente si superava la distinzione tra chi dava gli ordini e chi li riceveva, tra chi esercitava il potere e chi lo subiva. E però il film che ne venne fuori risultò subito estremamente brutto. Realizzato democraticamente, senza imporre niente a nessuno, senza sfruttare nessuno; ma brutto.
E in Il mio Godard è lo stesso Godard a rendersene conto. Non è scemo, è (stato) un grande regista. Sa di avere ragione, sa di capirne molto di più dei suoi tecnici delle luci: ma non può imporre il suo volere, perché significherebbe tradire quella volontà generale a cui ormai ha chinato la testa. Potrebbe forse sostenere, Godard, che il problema nasce dal fatto che la troupe non sia ancora matura per quel potere; che la consapevolezza e il talento dei tecnici debba ancora formarsi, e che quindi quelle difficoltà siano dei passaggi obbligati per giungere, in futuro, a una maggior sintonia e a una migliore riuscita del film. Ma sarebbe davvero così? Di Godard, tutto sommato, ce n’è stato uno solo, nella storia del cinema: quale tecnico sarebbe mai arrivato a competere con lui per “occhio cinematografico”?
La conclusione de Il mio Godard, insomma, sembra dire che il sogno di Rousseau e di Marx di una democrazia diretta sia irrealizzabile, al cinema e forse pure nello Stato. Che ogni tentativo di quel genere sia destinato al fallimento.
Ora però proviamo a ragionare un altro po’ su questo parallelismo tra cinema e politica. Cos’è che non funziona, nella lavorazione di Vento dell’est? Non direi che sia di per sé il principio democratico, il problema, quanto piuttosto che c’è un divario troppo netto tra Godard e gli altri. Se tutti gli altri tecnici della troupe fossero stati dotati dello stesso talento di Godard, il film sarebbe stato perfetto. E se anche non avessero avuto quel talento, avrebbero potuto però avere una certa esperienza, cioè la capacità anche di capire quando un’idea è buona e quando non lo è. In quest’ultimo caso, forse il film sarebbe stato migliore; certo i membri della troupe avrebbero comunque litigato e magari il regista parigino non sarebbe stato soddisfatto, ma molto probabilmente il prodotto finale non sarebbe stato tremendo.
Se noi oggi affidassimo il compito di fare un film a cinquanta persone che hanno già una grande esperienza nel mondo del cinema e che sono intelligenti, forse ne potrebbe uscire qualcosa di buono. Se poi queste persone fossero anche aperte alle innovazioni, avessero sperimentato in carriera diverse soluzioni, forse il film finale non sarebbe neppure troppo convenzionale, ma originale e fresco. Perché no? Grandi menti, se ben disposte, possono lavorare bene insieme. Magari non sarebbe un film capace di fare la storia del cinema, ma la storia girerebbe e ne verrebbe fuori qualcosa di quantomeno discreto.
Il problema in Vento dell’est, mi pare, nasce insomma dalla disparità tra i soggetti coinvolti. Godard si arrabbia perché percepisce che gli altri non sono al suo livello, anche se l’ideologia gli insegna che gli uomini sono tutti uguali. Ovvio che siano tutti uguali in fatto di diritti; ma non sono evidentemente tutti uguali in fatto di talento o di conoscenze.
Se ripassiamo dal cinema alla politica, il discorso si fa estremamente attuale. La nostra è una democrazia indiretta che, come tutte le democrazie indirette, cerca di mediare tra i due principi, quello platonico e quello marxista. Da un lato, tutti i cittadini esercitano gli stessi diritti politici: vanno a votare e, tramite il meccanismo della maggioranza, decidono chi deve governare il paese. Dall’altro però ci si aspetta che gli eletti – formati all’interno dei partiti e forti di una certa “gavetta” – siano in grado di gestire la cosa pubblica con consapevolezza e intelligenza. Non è il cittadino comune a votare le leggi in Parlamento, ma un suo rappresentante che dovrebbe, almeno teoricamente, avere più esperienza di lui.
Il problema è che questo sistema, che in Italia ha retto compiutamente forse solo all’inizio della storia repubblicana, è ormai saltato. Le élite – i registi alla Godard, per intenderci – non sono considerate più in grado di guidare il paese, o si chiede loro di farlo solo in casi di particolare emergenza, quando c’è da montare in qualche modo una serie di spezzoni girati malissimo, in modo da salvare il salvabile; e il popolo quindi sceglie di dare potere ai non-esperti, perché ritiene che almeno questi capiranno le esigenze della troupe.
Certo, guidare un paese non è la stessa cosa che realizzare un film. Il secondo è un lavoro e ha una finalità in parte artistica e in parte economica, legata ad investimenti e profitti; guidare un paese c’entra poco con l’arte e di sicuro non può essere fatto (o non dovrebbe essere fatto) nell’ottica del profitto privato. Nel film puoi permetterti la dittatura (momentanea), perché in fondo stiamo parlando di un’industria; nello Stato di sicuro no. Però anche lo Stato e la politica devono fare i conti con la qualità del risultato.
Il problema è proprio questo: l’eterna tensione tra uguaglianza e merito, tra equità e capacità. Facciamo governare i “migliori”, a patto di saperli individuare, o facciamo governare il popolo? Nel primo caso rischiamo di far quadrare i conti ma di non tener conto delle esigenze della gente, e quindi di realizzare un film bellissimo ma ingiusto; nel secondo caso, di far star meglio la gente ma mandare in bancarotta lo Stato, e quindi di realizzare un film inguardabile anche se più corretto in fase di lavorazione.
La soluzione, nel campo cinematografico, l’abbiamo accennata: forse il progetto maoista di Godard si sarebbe potuto tenere in piedi se lui e i suoi collaboratori fossero stati tutti parte di un team collaudato, di un gruppo di esperti già in parte affiatati. Mi verrebbe da dire che in politica questo potrebbe tradursi in un paese che forma una classe dirigente che (almeno in larga misura) capisce la politica e che però allo stesso tempo condivide anche una serie di valori fondamentali.
Non è questo ciò che fa funzionare una democrazia, in fondo? L’esistenza di una Costituzione forte e condivisa e di un buon sistema educativo. Se queste cose ci sono, forse la troupe può lavorare bene; altrimenti è un disastro. E l’Italia, oggi, come sta messa?
Quello che ho registrato e pubblicato
Ed ora spazio anche ai video e soprattutto ai podcast usciti negli ultimi sette giorni. Eccoli.
Foucault: potere e biopolitica: era da molto tempo che mi riproponevo di preparare un video su Foucault, ma finora non c’ero ancora riuscito. Ho rimediato.
La diffusione del cristianesimo: continua il nostro percorso di storia romana: dopo aver visto la nascita di questa nuova religione, vediamo come cominciò ad espandersi
L’Autunno del Medioevo - Audiolibro spiegato parte 7: ben due nuovi capitoli, questa settimana, nel video dedicato al capolavoro di Johan Huizinga.
Tommaso d’Aquino e il rapporto fede-ragione (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Essenza ed esistenza in Tommaso (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
La rivoluzione francese tra moderazione ed estremismo (per il podcast “Dentro alla storia”)
La prima Costituzione francese (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono i nuovi abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri e videocorsi che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
L’assassinio del professor Schlick di David Edmonds: per chi non lo conoscesse, David Edmonds è uno dei filosofi più popolari del Regno Unito. Non tanto (o non solo) per le sue teorie, quanto perché cura – a volte assieme al collega Nigel Warburton – una serie di seguiti podcast sulla filosofia. Ma Edmonds non è solo un abile divulgatore: nel suo curriculum ci sono lavori di diverso tipo, spesso legati alla storia della filosofia. Questo suo ultimo libro, pubblicato in lingua originale un paio d’anni fa e finalmente disponibile anche in italiano, si concentra sul Circolo di Vienna e in particolare sullo strano omicidio di Moritz Schlick, che ne fu per qualche tempo il leader, un omicidio legato agli ambienti nazisti austriaci poco prima dell’annessione alla Germania hitleriana. Insomma, un saggio che mescola storia e filosofia e che si annuncia come estremamente interessante. Costa 22,90 euro e lo potete comprare qui.
Ritratto su blocco da disegno: esplora il volto umano: il ritratto è una di quelle attività che non solo riescono a riprodurre la realtà, ma cercano anche di coglierne il segreto. Quando si ritrae su carta una persona, si cerca infatti di evidenziarne la personalità, in un certo senso l’anima, e quindi quello del ritrattista finisce per essere un mestiere estremamente affascinante. Certo, questi disegni non sono facili da eseguire. Ma il corso che vi propongo questa settimana vi avvia verso la giusta direzione. Costa 16,90 euro, si compone di 14 lezioni ed è tenuto dall’artista polacca Gabriela Niko (in inglese e con sottotitoli in italiano, ovviamente). Lo trovate qui.
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né fare corsi, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Cosa c’è in arrivo
Concludiamo con qualche anticipazione sui prossimi video e sui podcast in arrivo:
per quanto riguarda filosofia, uscirà un video su Melisso (che ancora mancava) e forse ne arriverà anche uno su Jaspers;
per la storia, invece, aspettatevi una nuova puntata della lettura integrale de L’Autunno del Medioevo;
per educazione civica, poi, sono in programma un video su come informarsi sull’attualità e un altro sul sistema politico britannico;
infine non mancheranno i podcast: andremo avanti da un lato con Tommaso d’Aquino e dall’altro con la Rivoluzione francese.
E questo è sostanzialmente tutto. Ci rivediamo qui tra sette giorni, puntuali.