Sul linguaggio come confine che include ed esclude, ma anche su Napolitano, Only Murders in the Building, Dante, la Guerra del Vietnam, Nietzsche, Film Blu, Chomsky, Foucault e la morte
L’estate è definitivamente finita. Non tanto per il clima – in questi giorni, almeno dalle mie parti, ha fatto tutto sommato abbastanza caldo – quanto per gli impegni che sono ormai quelli pienamente autunnali. A scuola abbiamo cominciato con le riunioni di Collegi docenti e Consigli di classe, stiamo già programmando attività à gogo, e anche a casa vedo che i figli stanno iniziando a lavorare con una certa intensità. In più arrivano proposte di conferenze, uscite, dialoghi, consigli: insomma, tutto è ripreso a pieno ritmo e forse anche ad un ritmo forsennato.
Io, tanto per cambiare, sto facendo fatica a darci il giro. Durante l’estate ero riuscito a ritrovare un certo precario equilibrio, ad esempio ricominciando a rispondere ad alcune vecchie mail o vecchi messaggi, nell’illusione che un po’ alla volta avrei ridotto l’accumulo di materiale arretrato e sarei arrivato alla mitica inbox zero, cioè a svuotare la casella di posta elettronica da tutte le vecchie mail inevase. In realtà tutto questo si è rivelato un’illusione: ho infatti pesantemente ricominciato ad accumulare arretrati e non so quando riuscirò a riprendere in mano seriamente il problema.
Portate pazienza, quindi. In compenso posso dirvi che dopo il primo esperimento del Simposio filosofico, questa settimana arriverà anche il Club del Libro, che sarà – spero – una bella occasione per confrontarci quantomeno di persona (sulle note di Nietzsche). E occasioni del genere vorrei che diventassero sempre più la norma, mese dopo mese.
Per il resto, direi di passare subito alla tanta carne che c’è al fuoco questa settimana, partendo come al solito dai libri.
Quello che ho letto
Per quanto riguarda questo primo elenco, in lista questa settimana troverete solo saggi. E saggi anche un po’ monocordi: da un certo punto di vista, in passato ho saputo offrirvi un panorama più variegato. Si tratta però di una situazione momentanea, come capirete leggendo le righe che seguono; presto tornerò anche a romanzi e volumi più diversificati.
L’impresa dei filosofi di Mario Quaranta: come vi raccontavo qualche tempo fa, in queste ultime settimane ho dovuto mettere letteralmente in pausa i vari libri che stavo portando avanti, per dedicarmi quasi esclusivamente a tre volumi che hanno, per me, una scadenza molto chiara e netta. Su tutti e tre, infatti, devo tenere degli incontri più o meno pubblici e devo quindi finirli entro un giorno preciso: uno, quello di Nietzsche di cui vi parlerò tra qualche riga, sarà al centro del primo incontro del Club del Libro, mentre gli altri due li presenterò assieme agli autori questo venerdì presso l'Accademia dei Concordi di Rovigo. E partiamo proprio da uno di questi due libri, L’impresa dei filosofi, che è formalmente ascritto a Mario Quaranta ma che in realtà porta abbastanza chiaramente la firma di Ercole Chiari. Probabilmente questi due nomi non vi diranno granché: il primo è stato un importante studioso veneto, collaboratore di Ludovico Geymonat e autore di un’opera invisibile ma fondamentale nell'analisi delle tendenze della filosofia italiana tra Ottocento e Novecento; il secondo, invece, è stato prima un docente di storia e filosofia e poi un preside qui della mia città, un ex collega quindi (ora in pensione) che negli ultimi anni ho incontrato spesso e con cui ho collaborato alcune volte. Dato che è in pensione da un po' di tempo, Chiari si è potuto dedicare alla ricerca e allo studio, scrivendo così anche questo voluminoso testo che è da un lato un omaggio a Quaranta, suo amico personale venuto a mancare qualche anno fa, dall’altro una ricostruzione approfondita delle principali tendenze filosofiche comparse in Italia negli ultimi 150 anni. Dal positivismo di Ardigò alla fine dell'Ottocento fino agli ultimi sviluppi più contemporanei, il libro prende spunto dagli studi di Quaranta, ma davvero fa il giro di tutti i principali pensatori che si sono succeduti sulla scena intellettuale del nostro paese, sintetizzandone e analizzandone anche in maniera critica l'apporto. Insomma, a prima vista può sembrare un libro dedicato alla memoria di Quaranta, e in effetti lo è, ma andando appena appena più in profondità ci si ritrova davanti ad un testo fondamentale per seguire il percorso della filosofia italiana, al di là delle riduzioni manualistiche a cui siamo a volte abituati. Il volume, se vi interessa, lo potete acquistare qui (a patto di trovarlo disponibile).
Al di là del bene e del male di Friedrich Nietzsche: e parliamo dunque anche di Nietzsche, sicuramente l'autore più famoso della lista di questa settimana, ma anche decisamente il più complesso. Al di là del bene e del male è il titolo che infatti è stato scelto dagli abbonati per la prima discussione online del Club del Libro, che si svolgerà tra qualche giorno, il prossimo 5 ottobre; ma, come si sono resi conto molti abbonati che mi hanno scritto in queste settimane, è anche un volume complesso, enigmatico e a tratti oscuro. Io l'ho finito di rileggere proprio un paio di giorni fa e devo anche dire che l'ho letto tutto sempre col sorriso sulle labbra: Nietzsche mi piace perché è dissacrante, sarcastico, perfino un po’ violento nelle parole, e, come dicevo anche in una recente diretta con gli abbonati, mi diverte perfino quando esce completamente dal seminato, quando si lancia in stupidaggini assurde, perché lo fa con la leggerezza del bambino. Il pensatore tedesco è stato davvero tutto ed il contrario di tutto: da un lato quel libro trasuda genialità, una capacità di analisi che nessun altro sulla scena filosofica del tempo sembrava avere; dall'altro, di fianco a queste vette altissime ci sono anche delle cadute invereconde, come quando si addentra in strani discorsi sugli ebrei e sulle razze o ancora più deleteri discorsi sulle donne. D'altronde, Nietzsche va preso davvero a scatola chiusa, così com'è, tutto intero, con i suoi deliri e con le sue visioni, coi suoi discorsi da rigettare e con quelli da mantenere e fare propri. Per chi non l'ha letto, Al di là del bene e del male si presenta come una raccolta di aforismi e frammenti più o meno lunghi su diversi temi, ma soprattutto come un atto di accusa rivolto contro la filosofia e la cultura occidentale, che hanno tentato secondo l’autore di assolutizzare un loro preciso sistema di valori, di dimostrare come eterno, fondato e razionale un sistema morale che invece derivava esclusivamente da ciò che a loro faceva comodo. Scritto quasi in parallelo al Così parlò Zarathustra (a cui, se vi interessa, abbiamo dedicato a suo tempo una lettura integrale in video che potete recuperare qui), tratta sostanzialmente gli stessi temi, anche se in chiave un po’ più diretta e meno metaforica rispetto al capolavoro già menzionato. Se vi interessa partecipare alla discussione del Club del Libro, qui trovate il modo per abbonarvi al livello richiesto; se invece volete semplicemente leggervelo, potete acquistarlo qui.
De Bibliosophia di Fabio Minazzi: vi ho già accennato a questo libro la settimana scorsa, ma ora, proseguendo la lettura, posso darvi qualche informazione in più. Nonostante la gran mole di pagine – più di 400 –, il volume è sostanzialmente una biografia di Mario Quaranta, il filosofo di cui vi ho già parlato sopra. All’inizio non pensavo che ci potesse essere così tanto da dire su Quaranta, e quindi mi immaginavo che ad un certo punto i temi avrebbero cominciato a divergere. Così però non è stato, da un lato perché le ultime 100 pagine sono sostanzialmente tutte dedicate a una lunga bibliografia delle opere e degli articoli scritti da Quaranta in sessant’anni di carriera; dall’altro, perché la vita di questo filosofo poco noto è in realtà molto emblematica e merita di essere conosciuta. Quaranta non è stato un pensatore di grido; ancora oggi, è difficile se non impossibile trovare in libreria i suoi scritti. Eppure, nonostante questo, la sua vicenda umana pare piuttosto paradigmatica: cresciuto nella provincia veneta degli anni '40 e '50, coinvolto nell’insegnamento, aderente prima al Partito Comunista e poi al maoismo, collaboratore di Geymonat e molto altro ancora… insomma, Quaranta inquadra – con i suoi interessi personali variegati e le sue opinioni in divenire – una parte della riflessione degli intellettuali italiani dell’epoca, così che tramite di lui si riesce a percorrere un po’ della storia intellettuale d’Italia. Rimane, per carità, un libro molto specialistico, per pochi; ma un libro più interessante di quel che poteva sembrare a prima vista. Il volume, se vi interessa, lo potete comprare qui.
Quello che ho visto
Passiamo ora ai film, dove invece il menù questa settimana è piuttosto variegato: oltre a un film vero e proprio, in elenco ci sono anche una serie TV e una vecchia conferenza (o sarebbe meglio dire un vecchio dibattito) filosofica.
Tre colori - Film blu (1993), di Krzysztof Kieślowski, con Juliette Binoche, Benoît Régent, Florence Pernel: credo di averlo già detto in altre occasioni: i film si possono dividere in tanti modi, come ad esempio tra quelli belli e quelli brutti, tra quelli divertenti e quelli drammatici, ma anche tra quelli che vorresti rivedere mille volte e quelli che non vorresti rivedere mai più. Quest’ultima suddivisione, in particolare, non ha però molto a che fare con la qualità in sé delle pellicole: esistono infatti film oggettivamente bruttini che, per un motivo o per l'altro, ti viene voglia di vedere spesso, ed esistono invece al contrario film bellissimi che non riesci proprio a sopportare di vedere più di una volta. A quest'ultima categoria secondo me appartengono certe pellicole di Krzysztof Kieślowski, come in particolare Film blu, il primo della celebre trilogia dedicata ai tre colori della bandiera francese. E questo non perché, appunto, si tratti di un brutto film, quanto piuttosto perché emotivamente molto impegnativo. Forse anche per questo, credo fossero più di vent'anni che non osavo farlo ripartire, nonostante avessi il DVD a prendere polvere nella mia libreria; esplorando però qualche giorno fa su JustWatch i film più visti sulle varie piattaforme, mi sono imbattuto proprio in questa pellicola, rimanendo sorpreso dal fatto che fosse ritornata almeno un po’ di tendenza (magari anche solo per un passaggio televisivo). Così mi sono deciso a rivederlo, anche perché in quel momento mi sono accorto che non me lo ricordavo più tanto bene: a parte lo spunto iniziale della trama, non ricordava nemmeno più come andava a finire. In due parole, il film si concentra sulla vicenda di Julie, una giovane donna poco più che trentenne rimasta improvvisamente sola dopo la morte del marito e della figlia in un incidente automobilistico. L’elaborazione del lutto, per la donna, risulta assai complicata, anche perché tra l'altro deve fare i conti anche con una serie di faccende lasciate in sospeso dal marito, tra cui la composizione di una partitura per un grande concerto dedicato all'Unione Europea e la presenza perfino di un’amante. La storia, come è facile intuire, si concentra dunque su una lenta e silenziosa indagine psicologica della protagonista, ben raccontata e ottimamente interpretata da Juliette Binoche, all'epoca all'apice della carriera. Un film ovviamente complicato, da vedere ma anche a suo modo quasi ipnotico. Non so in tutta onestà se lo si possa definire un capolavoro, nel senso che alla fine ti rimane anche una sensazione di incompiutezza, di mancata conclusione del discorso, ma in ogni caso si tratta di un lavoro ottimo. Non mi risulta sia attualmente disponibile sulle piattaforme di streaming principali (almeno non gratuitamente), però potete tranquillamente recuperarlo a pochi euro in DVD.
Only Murders in the Building, episodi 3.06 e 3.07 (2023), di Steve Martin e John Hoffman, con Steve Martin, Martin Short, Selena Gomez: mi sto rendendo conto che il mio rapporto con Only Murders in the Building sta diventando complicato. Questa serie a metà via tra il comico e giallo, scritta e interpretata da Steve Martin, mi aveva piacevolmente colpito nelle prime due stagioni, tutte composte di pochi episodi ed in cui l'elemento misterioso era sicuramente quello predominante. In questa terza annata, nonostante un cast decisamente di eccezione e un grande sforzo narrativo, in realtà sta cominciando forse un po’ – lo dico quasi sottovoce – a stufarmi. Mi spiego meglio: sicuramente la scrittura dei vari episodi è rimasta di ottimo livello, riuscendo a giostrare tra comicità e suspense in maniera molto abile; e poi, soprattutto, sono entrati in scena alcuni attori di immenso talento, come Meryl Streep, Paul Rudd e, nell'ultima puntata che ho visto, addirittura un autoironico Matthew Broderick. Ma forse mi sembra che in tutto questo si sia addirittura esagerato: nel tentativo di proporre allo spettatore a qualcosa di nuovo, di non ripetersi rispetto alle prime due stagioni e di dar spazio ad interpreti disponibili a fare una comparsata, si sia finiti per mettere troppa carne al fuoco, creato un prodotto che ha un po’ perso il proprio filo. Solo per fare un esempio: non ho al momento ben chiara la linea investigativa, visto che i tre detective improvvisati vengono letteralmente trascinati dagli eventi senza che ci sia l'apparenza di una coerenza interna in quello che accade; e, forse proprio per questo, non sento così forte l'impeto a proseguire con le nuove puntate e a scoprire chi sia realmente l'assassino. Insomma, le prime due annate erano state probabilmente molto più semplici ma anche più efficaci nell’andare diritto al punto, mentre questa mi sembra disperdersi in troppi spunti e troppi stimoli. Comunque mi manca ancora qualche episodio per concludere la stagione, quindi tirerò le somme in maniera definitiva solo alla fine. Intanto vi ricordo che, se volete vederla, la trovate su Disney+.
Debate Noam Chomsky & Michel Foucault - On human nature (1971): la settimana scorsa, come forse ricorderete, vi ho proposto un paio di conferenze che sono state ospitate di recente all'interno del festivalfilosofia di Modena e che è possibile reperire e riascoltare su YouTube. In effetti, però, il social network dei video è utile per recuperare anche incontri più vecchi e forse addirittura più prestigiosi che, con un po' di pazienza, ci si può gustare (e studiare) più lentamente. Proprio all'interno del canale Telegram degli abbonati, in seguito alla newsletter di sette giorni fa, mi è a questo proposito stato segnalato anche il video di un dibattito che risale addirittura al 1971 e che vede contrapposti due pezzi da novanta della storia della filosofia contemporanea: da un lato il francese Michel Foucault, dall'altro l'americano Noam Chomsky. L'esperienza può essere a dirla tutta un po’ straniante: Foucault, in quel dibattito, è quello a cui siamo abituati, con le sue idee già belle formate, ma Chomsky è incredibilmente più giovane del viso con cui siamo abituati a vederlo oggi, visto che questa conferenza risale a più di cinquant'anni fa. Inoltre bisogna anche dire che i due dibattono nella loro lingua originale, cioè Chomsky in inglese e Foucault in francese, senza contare che poi in mezzo ogni tanto c'è pure un presentatore che si esprime, credo, in olandese; e se anche l'incontro è sottotitolato, questi sottotitoli sono in lingua inglese, cosa che forse non renderà molto agevole per alcuni di voi riuscire a seguire il dibattito. Insomma, a prima vista può sembrare – scusatemi l’espressione – un gran casino. Al di là di questi ostacoli, però, la conferenza (che dura poco più di un'ora) può meritare la vostra attenzione: i due pensatori propongono le loro diverse visioni sul linguaggio, sulla conoscenza e sulla natura umana, per la verità soffermandosi su reciproche obiezioni che, come intuiscono entrambi ad un certo punto, non sono esattamente sovrapponibili. Sembra anzi che i motivi di dissidio tra i due non siano poi così profondi, ma legati soprattutto a un diverso modo di intendere i problemi (e le parole che descrivono quei problemi), quasi parlassero – anche filosoficamente – due lingue diverse. Detta in altri termini, sembra quasi che i due non riuscissero a trovare punti d’incontro non tanto per la diversità radicale delle loro idee, quanto per una incomprensione (o una differente prospettiva) di fondo. In ogni caso la conferenza è molto interessante, sia perché permette di confrontare due diverse personalità (entrambi “di sinistra”, entrambi radicali, ma piuttosto diversi nell’impostazione generale), sia perché alla fine dai temi più tecnici del linguaggio e degli schemi mentali si passa a quelli più prosaici – ma all’epoca molto attuali – dell’attivismo politico, della disobbedienza civile e della Guerra del Vietnam. Se vi interessa, il dialogo tra i due pensatori può essere visto qui.
Quello che ho pensato
Qualche settimana fa, come ho avuto già più volte molto di raccontare, si è svolto il primo Simposio filosofico del canale: una manciata di iscritti si è infatti incontrata online col sottoscritto per discutere di un tema filosofico scelto assieme. Un tema, ovviamente, su cui ognuno ha detto la propria, ascoltando però appunto anche l'opinione e le provocazioni altrui.
L'argomento era per la verità piuttosto ampio: il rapporto tra il linguaggio e la realtà. O, meglio, ci volevamo chiedere se era il linguaggio in grado di cambiare la realtà o se piuttosto non fosse la realtà a cambiare il linguaggio. Io avevo già una mia idea sull’argomento, anche se per la verità non troppo articolata, ma ovviamente la discussione mi ha portato a approfondirla. E discutendo con gli altri, e sentendo i loro spunti, ad un certo punto sono finito per abbozzare un'idea che adesso vorrei, dopo qualche giorno di decantazione, provare ad espandere qui anche per voi.
La mia riflessione è partita all'idea che il linguaggio sia chiamato a farsi oggi più inclusivo, come tanti attivisti sostengono e propongono. Che debba trasformarsi in modo da riconoscere gli avanzamenti sociali e i diritti di gruppi che fino ad oggi sono stati esclusi o marginalizzati, siano essi le donne, gli omosessuali, gli appartenenti a minoranze etniche, gli affetti da disabilità e così via.
Allo stesso tempo, però, ragionandoci sopra mi sono anche reso conto che lo stesso linguaggio, per come storicamente si è formato, non sempre sembra essere in linea con l'idea dell'inclusione; che, detta in termini più brutali, non sembri strutturato per includere, quanto più per escludere.
Il linguaggio infatti in prima istanza unisce. Il linguaggio è alla base, o almeno lo è stato in passato, delle identità nazionali, delle storie letterarie, delle culture che uniscono e creano i popoli: questo è indubbiamente e storicamente vero. Ma non dobbiamo dimenticarci che ogni unione implica anche necessariamente una esclusione. Se io infatti unifico gli italiani sulla base della loro lingua – ammesso che poi questo sia realmente successo e questa non sia piuttosto una costruzione teorica a posteriori –, automaticamente sto anche escludendo da questa unificazione chi non è italiano.
La lingua infatti è secondo me uno strumento tanto inclusivo quanto esclusivo o divisivo: crea dei gruppi, dei confini. Appunto quando io impongo una lingua inizio a comunicare, e quindi ad avvicinarmi ad un certo gruppo di persone ma allo stesso tempo ad allontanarmi da altre persone. E quelle persone le escludo non in maniera tutto sommato morbida, ma con una certa durezza: quelle persone non solo non entrano nella mia cerchia, ma non riescono neppure a capire cosa sto dicendo.
Pensate ad esempio ai gruppi di ragazzi che creano, quando sono abbastanza uniti, un gergo che solo loro comprendono: questo gergo serve sì a rinsaldare il loro rapporto, a renderlo più profondo, ma serve anche e forse primariamente ad escludere dal gioco tutti gli estranei, a far sì che gli adulti non li possano capire, a tracciare un confine tra chi è dentro e chi è fuori da questo gruppo.
Così avviene anche nel linguaggio tecnico e accademico: perché tanti professori, quando vogliono sottolineare la loro superiorità intellettuale rispetto agli altri, iniziano ad usare i cosiddetti “paroloni”? Forse perché anche inconsciamente sanno che sì, quei paroloni danno loro un certo tono, una certa importanza, ma soprattutto tracciano un confine tra chi è in grado di usarli e chi non è in grado di usarli, e forse neppure di capirli.
Così funziona anche con le lingue nazionali. Forse sapete che il fascismo, nel ventennio in cui governò l’Italia, cercò di annullare ogni differenza linguistica: in Alto Adige furono cancellati cartelli, scuole e giornali in lingua tedesca, così come in Venezia Giulia e in Istria vennero cancellati sloveno e croato. Si parla, in storia, di politiche assimilazioniste: ma quell’assimilazione forzata passava soprattutto tramite la lingua, che diventava allora uno strumento in un certo senso di violenza politica. Non serviva ad escludere, ma a tirar dentro; e però lo faceva con la forza, violando la volontà delle persone. Di nuovo, la lingua diventava il confine vero e proprio, quasi più forte del confine politico.
E allora capite anche che rendere inclusivo un linguaggio è un'operazione certo importante, ma allo stesso tempo anche ambigua e difficile: se il linguaggio traccia una linea e segna un’appartenenza, forse ci sarà sempre chi sarà di qua dal confine e chi sarà però di là da questo stesso confine. Includiamo forse qualcuno per escludere qualcun altro? Oppure può esistere davvero un linguaggio universale che includa tutti senza escludere nessuno? È possibile tracciare con il linguaggio un confine così ampio da abbracciare tutte le diversità? O strutturalmente il linguaggio non può esistere se non nella misura in cui differenzia e segmenta?
Sono dubbi credo legittimi, e che nella storia qualcuno si è già posto in passato. Se conoscete ad esempio la storia dell'Esperanto e delle altre lingue artificiali sapete bene di cosa sto parlando. Ma in un certo senso anche la logica e la matematica hanno rappresentato, sotto un certo punto di vista, dei tentativi di rispondere a queste esigenze: creare una sorta di lingua, in questo caso più che altro simbolica, che potesse essere comprensibile da tutti e, in virtù del suo rigore, anche chiara e limpida, in modo da consentire un passaggio direi addirittura democratico delle informazioni.
Il progetto dell'Esperanto, però, in fondo è fallito, e forse verrebbe da chiedersi il perché di questo fallimento, soprattutto paragonando il periodo storico in cui si provò a realizzare quell’esperimento con quello che stiamo vivendo noi oggi. Forse era troppo utopistico pensare ad un linguaggio veramente inclusivo? Forse il linguaggio vuole e necessita di essere esclusivo?
Sono domande che secondo me, al momento, non hanno ancora una risposta chiara, ma che personalmente mi hanno portato a guardare con una certa diffidenza (o, direi meglio, scetticismo) a determinate operazioni linguistiche odierne.
Da tempo è infatti in atto una vera e propria campagna affinché la lingua italiana venga cambiata in alcune sue regole (tutto sommato anche secondarie), in modo da risultare appunto più inclusiva. Mi riferisco a proposte come quella di usare lo schwa per il plurale in cui si includano sia maschi che femmine, o il declinare al femminile tutta una serie di professioni e attività che invece spesso vengono usate esclusivamente al maschile.
Devo dire che in linea di principio provo una certa simpatia per questi tentativi, nel senso che ritengo che effettivamente ci sarebbe bisogno di agire in maniera forte e risoluta per far fare qualche passo avanti a questa benedetta parità dei sessi, che nell'anno 2023 sembra paradossalmente ancora un obiettivo lontano da raggiungere. Allo stesso tempo, però, nutro appunto qualche dubbio sul fatto che mutamenti del linguaggio, soprattutto se imposti in questo modo, possano rivelarsi efficaci per risolvere davvero la questione.
Ho infatti due perplessità sul tema, che magari – per carità – sono solo frutto del fatto di essere un po' boomer, ma che forse a ben guardare potrebbero avere anche qualche fondamento. In primo luogo, sono sempre abbastanza scettico sulla possibilità di imporre mutamenti dall'alto per quanto riguarda i comportamenti delle persone.
A scuola si fa sempre tante educazione civica, si fanno tante ramanzine e si cerca sempre di imporre con la parola un cambiamento nei comportamenti delle persone, ma nella mia esperienza i cambiamenti non avvengono mai in questo modo. Nessuno – o quasi – ha mai mutato il proprio modo di fare perché un professore un bel giorno, dall’alto della sua cattedra, ha detto che una cosa va fatta in un certo modo; i cambiamenti, piuttosto, avvengono quando le persone dal basso iniziano, al di là degli insegnamenti cattedratici, uno ad uno a comportarsi in maniera diversa. Detta in altri termini, se io vado in classe e dico ai ragazzi che devono essere dei bravi cittadini, loro mi guardano e mi ascoltano, e magari fanno anche “sì” con la testa, ma poi non cambiano il loro atteggiamento; se invece io non parlo tanto alle loro orecchie quanto piuttosto, passatemi l'espressione, ai loro cuori, dando il buon esempio, dimostrando nei fatti quanto un sano comportamento civico sia importante, allora magari ottengo qualche risultato. Per essere ancora più brutali: la retorica e le parole non servono assolutamente a nulla quando si tratta di comportamenti radicati nelle abitudini delle persone; serve piuttosto un lento e graduale mutamento basato solo sull'esempio.
Per questo tendo a dubitare dell'efficacia di ricercatori universitari che vanno in giro a dire che bisognerebbe usare lo schwa: qualcuno, per carità, seguirà anche questo appello e qualcun altro farà di nuovo “sì” con la testa, ma la stragrande maggioranza delle persone continuerà ad utilizzare il maschile sovraesteso senza porsi alcun problema, e magari pure deridendo le “buone intenzioni” di quegli occhialuti intellettuali da salotto. L'idea che dal linguaggio si possa cambiare la realtà mi sembra in questo senso abbastanza utopistica, e mi sembra più facile che invece avvenga il contrario, cioè che un mutamento sociale forte possa poi, a cascata, produrre un cambiamento linguistico.
C'è però come anticipavo anche un altro motivo per cui ho qualche dubbio sulla effettiva riuscita di questa operazione politica. Se assumiamo per vero quello che ho detto prima, cioè il fatto che il linguaggio serva a delimitare, a mostrare chi sta dentro e chi sta fuori rispetto a un certo confine, e quindi anche a definire i parlanti, allora anche l'adozione un po’ forzata di nuove strutture linguistiche non mi sembra poi così dissimile da quelle operazioni che fanno appunto i ragazzini, quando inventano nuove parole o nuovi modi di dire, magari mutuati da internet o dall'inglese.
Le gang, se vogliamo chiamarle così, iniziano ad usare nuove parole perché vogliono a colpo d’occhio (o d’orecchio) capire chi è come loro e chi non lo è. I miei figli e i miei studenti, ad esempio, usano parole come chill, bro, ty (che sta, mi dicono, per thank you, ovvero grazie) e così via perché sono espressioni che permettono loro di capire al volo chi appartiene alla loro “tribù” e chi ne è invece escluso. Con lo schwa temo funzioni allo stesso modo: non serve davvero a far sentire incluse le donne, quanto a definire chi lo usa. Come a dire: se pronunci quella strana vocale allora sei uno dei buoni, dei virtuosi; sei una persona attenta alle esigenze altrui, e dunque appartieni alla tribù di chi si preoccupa del linguaggio inclusivo. Se invece declini tutto al maschile, mostri di non appartenere a quella stessa tribù.
E che lo scopo non sia davvero la tutela delle minoranze quanto piuttosto definire chi siamo, mi pare evidente anche da come i politici si sono impossessati della questione. Un politico che usa lo schwa lo fa per presentarsi come aperto alle minoranze, mentre una Giorgia Meloni che si presenta addirittura come “il” Presidente del Consiglio, addirittura mascolinizzandosi nell’articolo, lo fa solo per presentarsi come una dell’altra parte, una a cui non interessa far parte di quella tribù (e anzi, lo disdegna proprio). Il problema femminile non conta davvero: quello che conta è far vedere chi siamo, che è un po’ il problema fondamentale dei social attuali.
E questo poi, a ben guardare, a cosa ci porta? All’idea che l’adozione di queste nuove strutture linguistiche non serva in realtà a cambiare il mondo, ma solo a separarci, a mostrare una sorta di superiorità morale di chi parla in un certo modo, o il rifiuto di quella presunta superiorità morale in chi parla in modo avverso. In questo senso, come dicevo anche prima, un linguaggio che vorrebbe diventare inclusivo diventa invece divisivo.
A me sembra, piuttosto, che la strada da percorrere dovrebbe essere un'altra: quella dell'allargamento del campo dell'inclusione. Se si vuole cambiare il ruolo delle donne e l'atteggiamento nei loro confronti non sembra molto proficuo criminalizzare o escludere chi non ha la giusta attenzione verso le donne stesse. Certo, queste persone sbagliano, ma davanti a chi sbaglia è tendenzialmente svantaggioso mettersi a puntare l'indice: per esperienza, una persona che si sente indicata, etichettata come non buona o non giusta, difficilmente tende ad ascoltarti, e anzi molto spesso finisce per chiudersi in se stessa e per rifiutare ogni confronto.
Se si vuole conquistare alla propria giusta causa chi ancora non la pensa come te bisogna insomma lavorare, più che sulla criminalizzazione e sull'esclusione, sull'accoglimento, sui piccoli passi, sull'esempio e sulla vita concreta.
Questo è tanto più vero, se ci pensate, anche in contesti che non hanno nulla a che fare con le politiche di genere, ad esempio quando si parla di criminalità giovanile, come abbiamo ricordato da poco in un'apposita diretta che potete recuperare qui. Se vi ricordate, anche allora abbiamo mostrato come la pratica dell'etichettamento, cioè di considerare come criminali incalliti quelli che commettono dei piccoli crimini, tenda a far sì che queste persone cadano e ricadano sempre più spesso nella criminalità, non riuscendo più ad uscire da un vortice di errori e di malaffare. Già allora abbiamo mostrato come in realtà, se si vuole fare in modo che un delinquente smetta di delinquere, la sociologia mostri che è molto più facile cercare di includere quella persona in meccanismi di coinvolgimento sociale, facendola stare insieme agli altri, facendole frequentare delle scuole o degli ambienti di socialità, in modo che si senta accolta e non più etichettata.
Traslando questo atteggiamento verso la questione della parità dei sessi, forse è inutile sputare in faccia ai maschilisti, soprattutto a quei maschilisti superficiali che magari non hanno mai pensato veramente a questi problemi; così come è inutile cercare di imporre con la forza, dall'alto, un cambiamento del loro linguaggio che loro non sentono per nulla necessario.
Forse, invece, è molto più proficuo preparare fin da piccoli dei progetti educativi che li portino a mettersi in contatto col mondo femminile, con le esperienze di vita delle donne, con le discriminazioni che subiscono; senza che moralisticamente dall'alto qualcuno insegni a parole quello che è giusto o sbagliato, ma facendo in modo che se ne accorgano vivendo le situazioni sulla pelle.
Certo tutto questo significa un percorso lungo e lento, difficile e complicato; ma forse questo è l'unico percorso veramente possibile.
Quello che ho registrato e pubblicato
E ora passiamo a tutti i video e i podcast che sono usciti questa settimana:
Vita e politica di Giorgio Napolitano: la morte dell’ex Presidente della Repubblica meritava una revisione del suo percorso politico
Paura della morte e del fallimento: torniamo a parlare della mia (anti)filosofia, concentrandoci su qualcosa a cui di solito non vogliamo pensare
Dante: politica, amore e Dio: terzo e ultimo video dedicato alla filosofia e alla storia di Dante e delle sue opere
Storia dei consumi 9: arrivano gli elettrodomestici: il consumismo, prima della Seconda guerra mondiale, cominciò ad entrare nelle case occidentali tramite gli elettrodomestici
Il principe di Niccolò Machiavelli (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
L'organizzazione dell'impero tedesco (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
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Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Storia della guerra del Vietnam di Stanley Karnow: un paio di giorni fa la figlia di una mia collega, curiosa di conoscere più a fondo cosa è accaduto in Vietnam ormai cinquant’anni fa, mi ha chiesto di consigliarle un buon libro su quella sanguinosa guerra. Le ho segnalato questo saggio di Karnow che è considerato quasi da tutti un must, mettendola però ben in guarda perché si tratta di un volume anche piuttosto impegnativo. Per fortuna in Italia si trova anche in edizione economica, ad appena 13 euro (nonostante le 500 e passa pagine di cui è composto). Se vi interessa, potete comprarlo qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi:
Schiavi di Hitler di Mimmo Franzinelli: ne ho parlato qui;
L’etica del viandante di Umberto Galimberti: ne ho parlato qui;
Il secolo mobile di Gabriele Del Grande: ne ho parlato qui;
La dialettica di Hegel vista dalla mia prospettiva di Kitarō Nishida: ne ho parlato qui;
Oltre le banche centrali di Francesco Saraceno: ne ho parlato qui;
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
Chiudiamo con qualche anticipazione su quello che dovrebbe arrivare nei prossimi giorni nel canale (sperando che il programma rimanga così, visto che ho dovuto rifare i piani già tre volte in poche ore):
domani dovremmo partire con un video per presentare Tutto Galileo Galilei in un’ora;
tra mercoledì e venerdì arriveranno poi i podcast: uno, il primo, su Guicciardini, mentre l’altro dedicato alla Terza repubblica francese;
giovedì invece – e qui do l’annuncio ufficiale – si svolgerà il primo incontro del Club del Libro, in diretta su Google Meet per gli abbonati del livello da Roosevelt in su (troverete il link su YouTube nello spazio per gli abbonati);
nel weekend, infine, se tutto va bene arriveranno un video di storia contemporanea dedicato al Sudafrica di Mandela e un’altra diretta, questa volta incentrata (se faccio in tempo a prepararla) sulle politiche sociali relative alla lotta alla povertà.
E questo è quanto. Vi ricordo anche – per chi è a Rovigo o nei dintorni – l’appuntamento di venerdì alle 18 in Accademia dei Concordi per parlare di Mario Quaranta e dei due libri a lui dedicati (qui di seguito la locandina); e poi, se siete ex allievi del Liceo Scientifico Paleocapa, tenetevi liberi anche per sabato 21 ottobre, quando arriverà un grande evento di cui vi dirò qualcosa di più nelle prossime newsletter.