Sul senso di responsabilità connesso alla fama, ma anche su Mercoledì, 1899, The Bad Guy, Masaniello, Eraclito, Tito Livio, il libero arbitrio, L'attraversaspecchi e Mark Manson
«È appena lunedì e sono già stanco». È una frase, questa, che ultimamente dico spesso; non tanto – come alcuni credono – perché il canale YouTube mi prosciughi le energie, quanto piuttosto per la somma di tutte le cose a cui devo star dietro. Anzi, il canale YouTube e i podcast sono forse il meno: poi ci sono i figli (che ultimamente stanno prendendo influenze a ripetizione), la scuola pura e semplice al mattino, i compiti da correggere, le attività dell’orientamento in ingresso, i festeggiamenti per il centenario sempre della scuola, le vacanze, le attività sportive, le tapparelle che si rompono e sono da riparare, gli altri impegni più o meno istituzionali… Senza contare che stanno arrivando le feste, e c’è l’albero da preparare, i regali da “ordinare a Babbo Natale” (e con quattro figli, capirete bene che questo rappresentano un certo impegno), e altro ancora. Insomma, dicembre è un vero delirio. E quindi: è appena lunedì e sono già stanco.
Per fortuna, è una stanchezza che in realtà vale la pena di accumulare: il canale continua a crescere a ritmi assai sostenuti (e se ne sono accorti – sorprendendo perfino me – anche nella mia città, con un paio di articoli già usciti nella stampa locale e un altro che pare in arrivo), il Marocco e la Croazia sorprendono ai Mondiali, e intanto vedo cose belle (a Milano, in particolare, dove sono stato nei giorni scorsi) e mi diverto.
Questa settimana provo a darvi un po’ il conto di tutto questo parlandovi come sempre di libri, film e riflessioni sparse. Trovate tutto qui di seguito.
Quello che ho letto
Cominciamo come sempre dai libri: come vedrete questa settimana – per circostanze che poi vi racconto – ho ripreso in mano un paio di volumi che erano in sospeso da un po’ e che spero di poter prima o poi finire.
Libera nos a Malo di Luigi Meneghello: in primis, sto però continuando a leggere questo libro di Luigi Meneghello di cui ormai vi ho parlato più volte lungo le ultime settimane. Dopo aver discusso a lungo di sesso, masturbazione e ragazze – ma sempre nei toni garbati e divertiti di chi ha studiato e rievoca un’infanzia e un’adolescenza molto ingenue, con toni quasi felliniani –, lo scrittore ora è tornato a parlare di religiosità contadina, di catechismo negli anni '30 e di oscure fedi di montagna. Un racconto che parla di cose di cent’anni fa, quindi, ma allo stesso tempo almeno in qualche misura eterne, che almeno qui in Veneto erano pressoché immutate anche solo trent’anni fa, quand’ero bambino io, in un’Italia molto più moderna di quella di Meneghello. Alcune pagine del libro risultano, com’è inevitabile, un po’ meno riuscite di altre, ma in generale il volume offre uno spaccato divertito e divertente dell’Italia di provincia che merita di essere letto. Unico problema: le molte espressioni dialettali forse possono rendere ostica la fruizione al di fuori dei confini del Triveneto, ma può darsi che sia io a esagerare la questione. Lo si può comprare qui.
A ognuno quel che si merita di Daniel Dennett e Gregg Caruso: riprendere in mano la saga de L’attraversaspecchi, in pausa da qualche settimana e di cui vi parlerò nel prossimo punto, mi ha fatto venire voglia di far ripartire anche altre letture sospese. Una di queste è stata A ognuno quel che si merita, bel saggio a quattro mani sul libero arbitrio e sulla responsabilità scritto da due pensatori americani molto diversi tra loro. Tra i due, Caruso è il più giovane e il più specializzato sull’argomento, visto che da tempo sostiene una posizione scettica sul libero arbitrio che l’ha portato a formulare diverse proposte di riforma per il sistema giudiziario e penale americano; Dennett, invece, è un filosofo di una certa età, già ampiamente affermato, che difende qui una posizione che, pur riducendo il peso della responsabilità individuale, non la cancella del tutto. Ne nascono dibattiti interessanti. Ormai sono quasi verso la fine del saggio, ma uno degli argomenti di cui in queste pagine i due pensatori discutono di più è la proposta di Caruso di trattare i reati come si trattano le malattie infettive (e in quest’epoca di Covid e post-Covid il tema è decisamente caldo). Caruso, infatti, sostiene che gli individui non siano veramente responsabili dei reati che commettono, perché condizionati dalla genetica, dalle condizioni socio-economiche in cui sono cresciuti, dall’educazione ricevuta (o non ricevuta) e da altri fattori che sfuggono al loro controllo. Pertanto, non vanno puniti o elogiati, ma piuttosto vanno tenuti sotto controllo quando rischiano di diventare pericolosi per la collettività; esattamente come si fa con i portatori di malattie infettive letali. Così Caruso inizia a proporre l’abolizione del carcere e la sua sostituzione con forme di quarantena controllata per chi delinque; una proposta per certi versi interessante, per altri anche pericolosa (si è potenzialmente letali, geneticamente, anche prima di commettere reati, e quindi si dovrebbe subire una quarantena preventiva?), che Dennett non evita di rimarcare. Il dibattito che ne scaturisce è per certi versi molto americano, iper-pragmatico, distante anni luce da alcuni dibattiti che attraversano la filosofia europea, ma allo stesso tempo (o forse proprio per questo) interessante. Il libro può essere acquistato qui.
L’attraversaspecchi 2. Gli scomparsi di Chiardiluna di Christelle Dabos: erano diverse settimane che non vi parlavo di L’attraversaspecchi, saga fantasy scritta dalla scrittrice francese Christelle Dabos e composta da diversi e corposi volumi. Non ve ne parlavo perché, come forse ricorderete, è un libro che stiamo leggendo tutti insieme in famiglia; anzi, lo stiamo ascoltando, perché lo facciamo partire tramite la forma dell’audiolibro quando siamo in auto per lunghi viaggi tutti assieme. Se mi seguite sui social, sapete bene che per il ponte dell’8 dicembre con la mia famiglia mi sono spostato per qualche giorno a Milano, e così durante il percorso abbiamo portato avanti un altro po’ questo volume (solo all’andata, per la verità, perché nel ritorno mi hanno costretto a mettere la musica dei Pinguini Tattici Nucleari). Questo romanzo – il secondo della saga – presenta mi pare gli stessi pregi e gli stessi difetti del primo volume: da un lato è appassionante, perché gli intrighi e i misteri sono all’ordine del giorno ed è interessante vedere il dipanarsi lento e ondivago delle trame della Dabos; dall’altro, rimango perplesso su alcuni personaggi, in particolare su Ofelia, una protagonista talmente piatta da risultare quasi insignificante, e però sovrastimata dalla stessa autrice. Da quello che pensa e da quello che fa, Ofelia è davvero una pedina priva di spessore, e però tutto le ruota attorno, come se fosse la femme fatale di tutto il regno; non è tanto la classica ragazza timida che poi, quando serve, tira fuori dal cilindro delle qualità inaspettate, quanto piuttosto una ragazza quasi completamente priva di qualità che però tutti guardano con riverenza o ammirazione, senza che ci siano reali motivi per farlo. La cosa, almeno per me, è perfino un po’ irritante e rischia a volte di far naufragare il castello di carte della trama, così pazientemente costruito. Comunque ai miei figli – che sui personaggi sono di bocca più buona della mia – piace abbastanza e sicuramente è un libro adatto agli adolescenti. Lo potete comprare qui.
Quello che ho visto
Questa settimana in lista per quanto riguarda gli audiovisivi ci sono solo serie TV, e solo serie TV di recentissima uscita; d’altronde, devo dire che in questo campo i prodotti sono ormai fatti quasi sempre molto bene e non hanno granché da invidiare a film di prima fascia.
1899 episodi 1.02-1.03 (2022), di Baran bo Odar e Jantje Friese, con Emily Beecham, Andreas Pietschmann, Aneurin Barnard: non ho ancora capito se questo nuovo lavoro dei creatori di Dark mi piaccia o meno. Per ora è tutto incredibilmente confuso (come però, bisogna ammetterlo, accadeva anche nei primi episodi della stessa Dark, che comunque nel medio periodo si rivelava però incredibilmente affascinante). L’ambientazione ve l’ho forse in parte già raccontata: siamo su un transatlantico in rotta verso l’America, appunto nel 1899; solo che durante il viaggio questa nave si imbatte nel Prometheus, altro transatlantico simile scomparso pochi mesi prima e dato per disperso. La nave è invece integra in mezzo al mare, ma un’ispezione a bordo della stessa non trova nient’altro che un bambino che risponde col mutismo a tutte le domande; il resto dell’equipaggio e dei passeggeri pare volatilizzato. A questo si aggiungono una serie di ulteriori misteri, come l’improvvisa morte di alcuni passeggeri sulla nave di partenza, strane voci e strani sogni sentiti da un capitano particolarmente tormentato e un personaggio ancora più enigmatico che riesce a far comparire e scomparire a piacimento la nebbia in mare. La prima stagione è composta da 8 episodi e per ora ne ho visti 3: ve ne riparlerò di sicuro ancora. Se vi interessa, la trovate su Netflix.
Mercoledì episodio 1.05 (2022), di Alfred Gough, Miles Millar e Tim Burton, con Jenna Ortega, Emma Myers, Gwendoline Christie: questa settimana ho visto un ulteriore episodio, solo uno, di Mercoledì, la serie di Tim Burton che sta raccogliendo moltissimi consensi soprattutto tra i più giovani. Una serie che non è niente di eccessivamente nuovo o innovativo, in realtà: c’è il solito gusto per il macabro e per l’assurdo che contraddistingue da sempre sia i lavori di Burton, sia la saga degli Addams. La cosa particolare, semmai, è che qui questi elementi servono a infarcire una trama che è invece tipica di un altro genere di intrattenimento, quello delle serie Netflix, ossia di storie d’amore e misteri. Se ci pensate, la trama in generale non si discosta da quella di decine di serie teen che sono state lanciate negli ultimi anni: un’ambientazione scolastica, un mistero da svelare, un’eroina – contesa da almeno due ragazzi – un po’ emarginata che indaga nonostante tutto e tutti, mettendo a repentaglio soprattutto se stessa, fino a riuscire a svelare il marcio che si cela dietro all’apparente tranquillità della scuola. Insomma, un canovaccio trito e ritrito che però ritrova originalità grazie alla fusione con un genere – quello Burton/Addams – che ancora non era stato toccato da questa tendenza. In questo episodio, in particolare, al tutto si aggiunge poi il fatto che la scuola di Mercoledì viene visitata dai suoi genitori, con qualche interessante flashback sul passato da adolescenti degli Addams. Aspettiamo però ancora l’entrata in scena dello zio Fester, che pure prima o poi dovrà avvenire. La trovate su Netflix.
The Bad Guy episodi 1.01-1.02 (2022), di Giancarlo Fontana e Giuseppe G. Stasi, con Luigi Lo Cascio, Claudia Pandolfi, Selene Caramazza: ho provato quest’ultima serie proprio in questi giorni, dopo averla vista promossa su vari e diversi canali anche se in genere sono un po’ restio ad avventurarmi su fiction italiane, a meno che non abbiano un tocco di originalità che possa far pensare a qualcosa di diverso dalla solita serie un po’ banale all’italiana. Questo giro la cosa “diversa” era Luigi Lo Cascio nel ruolo di protagonista, attore che stimo molto e di cui in un certo senso pure mi fido, perché tende a scegliere bene i progetti a cui partecipare. E in effetti devo dire che finora non ho fatto male a fidarmi: The Bad Guy è infatti una serie che pare tutto fuorché italiana. Ha ritmo, tensione, colpi di scena e anche una buona dose di macabra ironia che non guasta affatto. Pare di vedere una sceneggiatura di Sorrentino diretta però da un buon regista di polizieschi americani. Lo Cascio infatti interpreta un magistrato da anni impegnato nella lotta alla mafia che viene (pare ingiustamente) denunciato, arrestato e condannato per complicità con Cosa Nostra; sfuggito per una serie di circostanze fortuite, decide di diventare il “cattivo” e farsi giustizia da solo, infiltrandosi nella mafia stessa. Per ora ho visto solo i primi due episodi ma mi hanno abbastanza preso e credo proprio che arriverò facilmente alla fine della prima stagione (anche perché è composta da appena 6 episodi). Ah, tra l’altro ha suscitato anche le polemiche di Salvini, che non perde occasione per parlare di cose che non c’entrano nulla col suo ruolo da ministro. La trovate su Amazon Prime Video.
Quello che ho pensato
Ho sempre avuto un rapporto ambivalente con la fama. Quand’ero un timido adolescente, non nascondo che non mi sarebbe affatto dispiaciuto averne un po’: ero il classico ragazzo che non si notava più di tanto, che stava spesso in disparte, che non amava mettersi in mostra. E, lo ammetto, un po’ invidiavo i miei amici che erano più sciolti e più abili di me nelle occasioni mondane e sociali (soprattutto con le ragazze, ma non solo), se non altro perché mi rendevo conto di non essere affatto una persona anonima e invisibile, ma allo stesso tempo di fare una gran fatica a emergere dalla massa.
Così sono cresciuto in un certo senso nella convinzione di essere uno che non piace e non piacerà mai ai più, semplicemente perché i più neppure si accorgevano di me; e però di poter almeno piacere ai pochi, a quelle minoranze che sanno andare al di là dell’apparenza, che sanno aspettare anche i timidi. In questo modo, verso la fine del liceo, mi sono trovato anche un discreto equilibrio, mettendo da parte i sogni di gloria e adattandomi al mio carattere: ovvero, ho capito che non sarei mai diventato una rockstar che stava sul palcoscenico, ma magari mi potevo creare una piccola cerchia di persone che mi stimavano e con cui mi sentivo a mio agio, esprimendomi senza paure dietro al palcoscenico, lontano dalle luci dei riflettori.
Negli ultimi anni però quell’equilibrio si è in parte alterato, e sta continuando a cambiare in questi ultimi anni. Niente di trascendentale, sia chiaro: non sono diventato quello che gira con la scorta, che firma autografi o che si comporta da VIP. Però qualche differenza in termini di notorietà – o comunque di gente che mi ascolta – si comincia a notare, e questo comporta anche un ripensare al proprio ruolo.
Facciamo qualche esempio, per spiegare meglio di cosa sto parlando. Come vi ho già raccontato all’inizio di questa newsletter, nei giorni scorsi ero a Milano con la famiglia. Normalmente queste vacanze sono belle ma anche stancanti, un po’ perché ci arriviamo tutti un po’ cotti (prima di partire avevo registrato una serie di video in rapida successione, per portarmi avanti col lavoro, ma anche mia moglie aveva superlavorato nei giorni precedenti alla partenza), un po’ perché poi ci piace vedere molte cose e quindi scarpiniamo parecchio. A sera siamo stanchi, spossati, quindi capita spesso e volentieri che i bimbi più piccoli facciano un po’ di capricci, ma capita anche (più raramente, per fortuna) che anche a noi adulti scattino i nervi, e quindi ci venga da sbottare, da addormentarci sul sedile del treno o da sbuffare coi figli. Per dire: magari uno perde l’abbonamento della metropolitana e ci scappa un «E che cazzo, dai!» Il che, normalmente, è un nonnulla: e però se sai che c’è gente attorno che ti può riconoscere, ci stai più attento. E il guaio è che adesso comincia ad esserci gente attorno che può riconoscermi.
Ad esempio, l’ultimo giorno della nostra vacanza a Milano ho visitato il Museo della Scienza dedicato a Leonardo da Vinci. Quasi subito, una signora mi ha fermato in un corridoio per dirmi che vede sempre i miei video e per farmi i complimenti. La cosa mi ha inorgoglito, ma poi ho anche fatto tutto il giro per il museo tenendo incredibilmente d’occhio i figli perché si comportassero bene (pensavo: «Ti prego, quartopupo, non metterti le dita nel naso, non grattarti il sedere, non dire parolacce, o almeno non farlo mentre ti vede la signora che mi pensa una brava persona e un bravo papà»… cose che non fa mai o quasi mai, sia chiaro, ma non volevo che l’unica volta le facesse proprio davanti all’unica fan presente in sala).
Allo stesso modo il giorno prima ero alla Pinacoteca di Brera, e stavo un po’ sbuffando aspettando mia moglie persa come sempre allo shop: e però quando è passata una ragazza indicandomi all’amica e dicendole «È quello delle lezioni di filosofia», subito mi sono vergognato di essere così poco professionale (un prof che sbuffa e che si lamenta in un museo…!).
Sono piccole cose, indubbiamente; scemenze. Giusto due persone che mi hanno riconosciuto in una metropoli dove avrò incrociato, in quattro giorni, probabilmente diverse migliaia di persone per le quali non ero nessuno. Ma ogni tanto cominciano a capitare; capitano a Rovigo, che è una città molto più piccola e contenuta, e quindi capitano inevitabilmente anche a Milano.
Cose piccole che danno però il tono della cosa. Perché adesso il problema – per parafrasare Spider-Man – è che questa piccola visibilità comporta anche una grande responsabilità. Per fare un altro esempio, non sapete quante volte ormai mi autocensuro quando sto per scrivere un tweet o un post su Instagram, ora che so che sarà letto da molte più persone, persone di provenienza ed età diverse, che magari mi conoscono poco e che potrebbero non capire cosa realmente intenda. E pertanto a volte rinuncio al tweet, o lo riscrivo due o tre volte cercando di fare in modo che tutto sia sempre chiaro, privo di punti oscuri o ambiguità. E che tutto sia il più possibile oggettivo, non frutto di un sentimento momentaneo; che sia qualcosa in cui credo davvero, e non una cosa di cui potrei pentirmi mezz’ora dopo.
Il che, ovviamente, non è un male: quante volte ci comportiamo in maniera superficiale o scriviamo frasi di cui non siamo neppure pienamente convinti? In fondo, pensare a tutti quelli che potrebbero leggerci e vederci ci costringe a dare il meglio che possiamo. E però è anche stressante, questa situazione, perché quando non ti conosce nessuno puoi sbagliare molto più facilmente, in leggerezza. Quando non ti conosce nessuno puoi permetterti di apparire svogliato al museo o di lasciare che tuo figlio si metta le dita nel naso, perché tanto il riflettore non è su di te. Ma se il riflettore, anche uno piccolo e fioco, punta all’improvviso proprio su di te, ti immagini che ci sia sempre qualcuno che guarda.
Ovviamente questo lo sentivo anche prima di avere questa piccolissima notorietà: lo percepivo a scuola, quando mi trovavo davanti ai miei studenti e sentivo – molto direttamente – che quello che dicevo andava pesato con particolare cura. Perché in classe quel riflettore già c’era: il riflettore dei miei allievi (e al limite delle loro famiglie, a cui i ragazzi poi vanno a raccontare quello accade in classe).
I ragazzi a sedici, diciassette o diciotto anni sono facilmente influenzabili e tendono a vedere in te un punto di riferimento, nel bene e nel male; e questo ovviamente deve farti sentire il peso della responsabilità e spingerti ad agire di conseguenza. Quindi devo anche dire che non è che YouTube mi abbia in realtà fatto cambiare atteggiamento: ha semplicemente esteso l’attenzione che già cercavo di avere a scuola anche al di fuori della scuola. Non ha creato il riflettore: ne ha esteso la durata. E con esso ha esteso anche il senso di responsabilità.
È un po’ per tutti questi motivi – molto piccoli e molto personali, ma che ultimamente iniziano a toccarmi – che ci rimango particolarmente male quando vedo personaggi di primo piano, seguiti e ammirati, che non tengono fede a questo livello di responsabilità che io sento così forte. Ovvero: che si comportano come se fossero da soli e non sotto l’occhio delle telecamere.
Ho in mente, in particolare, due esempi, due spettacoli poco decorosi che mi hanno colpito negli ultimi giorni. Il primo è relativo al quarto di finale dei Mondiali tra Argentina e Olanda. Poteva essere una partita entusiasmante, tra due belle squadre e ricca soprattutto di colpi di scena (il goal del 2-2 dell’Olanda mi ha fatto letteralmente saltare sulla sedia, per dire). Eppure è stata una partita funestata da una serie di atteggiamenti che definire infantili è dir poco: giocatori vincenti che sbeffeggiano altri giocatori in lacrime, provocazioni dall’una e dall’altra parte, offese gratuite, pallonate tirate ad altezza d’uomo contro la panchina avversaria. Neppure al campetto quando giocavo io si vedevano cretinate del genere, o almeno non sempre; e quando si vedevano, si diceva: «Va’ là, che cretini. La prossima volta quegli imbecilli lì non li chiamiamo mica».
Ho letto giustificazioni di tutti i tipi: che era un quarto di finale dei Mondiali, che c’era tantissimo in palio, che c’era tanta tensione. Chiaro, in situazioni del genere si può sbagliare; ma quando ti guardano miliardi di persone nel mondo, miliardi di persone che magari vedono in te un modello, se sbagli poi devi chiedere scusa e dire “Ho sbagliato”. Proprio perché hai una responsabilità, perché non sei un pischello qualunque che gioca in un campetto di periferia, ma sei un atleta sul palcoscenico del mondo. Mi è dispiaciuto che in quest’inghippo sia caduto anche Leo Messi, che sta giocando un grandissimo mondiale ma da cui mi sarei aspettato – anche per via dell’esperienza – una maggior maturità: mi ha abbastanza deluso.
L’altro spettacolo poco decoroso è quello offerto – per la verità già da qualche settimana – da Elon Musk, vulcanico imprenditore e nuovo proprietario di Twitter. In questi giorni se ne è uscito con provocazioni di tutti i tipi: prendendo in giro la comunità LGBT, accusando la sua stessa azienda di veri e propri crimini (ma pare senza alcuna prova), attaccando gli scienziati che hanno gestito la pandemia negli Stati Uniti. E l’ha fatto come lo farebbe lo zio cretino al bar: sparando frasi taglienti, buttate lì solo per far parlare, per provocare, per suscitare indignazione. Usando cioè la propria visibilità – che è molta, e che indubbiamente si è conquistato col talento e l’audacia – non per portare un contributo positivo alla realtà in cui vive o al dibattito, ma per suscitare polemiche, togliersi qualche sassolino dalla scarpa, far crescere forse il valore delle azioni di Twitter e al limite far parlare di sé.
Ci sarebbero innumerevoli altri esempi da poter fare: l’elenco sarebbe lunghissimo e in fondo basta aprire ogni giorno il giornale per trovare altri casi del genere. Purtroppo, di persone che usano male la loro visibilità è pieno il mondo. Il problema però non è cosa pensano o cosa dicono queste persone: tutti noi a volte abbiamo pensieri scemi, o frasi infelici che ci possono scappare, o atteggiamenti infantili che possono emergere. È che dobbiamo pretendere di più da chi sta sotto ai riflettori; anzi, più grandi sono i riflettori, più dovremmo pretendere. E dovremmo capire quando lasciarci andare e quando no, quando possiamo sbagliare e quando è meglio di no.
Questo mondo iperconnesso, in cui siamo sempre davanti a una telecamera o su un social network, ha reso ancora più importante – direi decisiva – la capacità di scegliere cosa dire, quando dirla e come dirla. È una capacità che si coltiva: io stesso non sono ancora sicuro di saperla usare bene. E però è una capacità che dobbiamo tutti almeno in parte imparare a coltivare: è la capacità di non farci trascinare nella polemica inutile, di non aumentare il rumore di fondo, di capire quante persone ci possono leggere e quanto possono essere influenzate da quello che scriviamo o da come agiamo.
Un tempo a parlare erano in pochi, e questi pochi in genere sapevano come presentarsi ed essere (o quantomeno sembrare) responsabili. Poi, nella società (e nella politica) dello spettacolo la parola è stata data a tutti, e non tutti però sono stati in grado di tenere alto quel senso di responsabilità che la parola impone. Ora dobbiamo lavorare per ripristinarlo, questo senso di responsabilità, anche solo esaltando chi sa farlo per bene e criticando chi invece – anche fosse un campione, anche fosse un genio, anche portasse avanti idee giuste – non è in grado di farlo, non è in grado di essere un elemento positivo con le proprie parole e col proprio esempio.
Quello che ho registrato e pubblicato
Per chi questa settimana, come il sottoscritto, è stato in vacanza, ecco un breve riassunto di tutti i video e di tutti i podcast usciti negli ultimi sette giorni, in modo da non perdersi nulla.
La sottile arte di fare quello che c***o ti pare [Book Club storico-filosofico]: vi presento un libro che ha venduto molto e che hanno letto anche molti miei studenti
La rivolta di Masaniello: in quali condizioni versava il sud nell’Italia della metà del Seicento? E chi fu Masaniello?
Eraclito: logos e dialettica [Filosofia per ragazzi 6]: parliamo della legge razionale del cosmo, ovvero l’unità dei contrari
Dieci errori da non fare come insegnante: non ho molto da insegnare su come si fa l’insegnante, ma forse ho qualcosa da raccontare su come non lo si fa
Sostanza, uomo e Dio per Duns Scoto (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Verso la fine della Scolastica (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Il punto sulla rivoluzione e su Napoleone (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono i nuovi abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri e videocorsi che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Storia di Roma dalla sua fondazione di Tito Livio: quando si parla di storia antica, i grandi nomi dei storiografi del passato sono piuttosto noti: Tacito, Sallustio, Catone il censore. E anche Tito Livio, la cui opera monumentale – la celebre Ab Urbe Condita – ci è giunta solo in parte. Una parte comunque rilevante e importantissima per conoscere e valutare il passato di Roma. Oggi ve la consiglio, perché non può mancare nella libreria di un appassionato di storia anche se bisogna acquistarla in più volumi separati tra loro, vista la mole. Un acquisto forse un po’ oneroso, ma che vale la pena di fare (e di gustare, magari a piccoli spizzichi, un po’ alla volta). La potete acquistare qui.
Introduzione a Final Cut Pro X: ogni tanto sui social network qualcuno mi chiede che software uso per realizzare i miei video, o quantomeno per montarli. Be’, in realtà esistono vari programmi – a volte professionali, a volte più artigianali – che possono aiutarvi a fare il semplice montaggio che io di solito realizzo, ma in particolare io mi affido a Final Cut Pro X, un’app di Apple relativamente cara ma con cui mi trovo molto molto bene. Se volete capire come funziona e magari imparare ad usarla, su Domestika è disponibile un pacchetto di ben 5 corsi (per un totale di 50 lezioni) ad appena 14,90 euro complessivi, che vale assolutamente la pena di provare, anche solo per valutare l’eventuale acquisto dell’app. Lo potete comprare qui.
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né fare corsi, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Cosa c’è in arrivo
Chiudiamo coi video in programma nei prossimi giorni. Eccoli:
visto il largo successo, vorrei riprendere a pubblicare i video della serie “Tutto un filosofo in un’ora”, cominciando già questa settimana con Cartesio;
arriverà poi la seconda parte della serie sulla Grande recessione del 2007, incentrata in particolare sull’Italia;
porterò avanti anche la serie su Napoleone III, forse addirittura finendola;
e poi sul versante podcast parlerò di Marsilio da Padova e della rivoluzione industriale.
E questo per ora è tutto. Ci rivediamo qui tra una settimana, quando saremo ormai prossimi al Natale. Non mancate!