Sulla libertà e la costrizione, partendo da Una giornata particolare, Camus, Brooklyn Nine-Nine, Matteotti, la Rivoluzione francese, The Bear, il soldato Sc'vèik e Jaspers
Bentornati! Questa settimana, lo dico candidamente, sono un po’ in ritardo con la newsletter. Di solito infatti riesco a portarmi avanti, scrivendone dei pezzi qua e là durante la settimana, così che il lunedì il compito sia relativamente veloce: rileggo, sistemo qualcosa (o magari aggiungo qualche idea nuova che mi è balenata nella mente nel frattempo) e poi spedisco.
Per una serie di circostanze, invece, questa settimana sono arrivato un po’ con l’acqua alla gola e quindi sto scrivendo queste parole alle 19 di sera, con tutto il resto da buttare giù (a parte la sezione Quello che ho pensato, che sono riuscito più o meno a scrivere tra questa mattina presto e il primo pomeriggio). Considerando che ho promesso anche alla famiglia di portarli fuori a cena, potrei far tardi.
Quindi bando alle ciance, cominciamo.
Prima di entrare nel vivo, però, vi devo dire che questa settimana sono stato con la mia quinta superiore al Parco di Monte Sole, sopra a Marzabotto, sull’Appennino Tosco-Emiliano, dove nel settembre 1944 si consumò la famigerata strage nazista. Visto che in questi mesi spirano di nuovo venti di guerra in Europa e che la popolazione civile viene ancora massacrata, rivedere quello che successe allora è stato particolarmente forte. Vi consiglio, se avete occasione, di farci un salto.
E ora cominciamo davvero.
Quello che ho letto
Partiamo come sempre dalle letture della settimana. Niente di particolarmente nuovo rispetto alle scorse puntate di questa newsletter, anche se sono riuscito a finire a tempo di record Il mito di Sisifo.
A ognuno quel che si merita di Daniel Dennett e Gregg Caruso: dopo qualche giorno di pausa, in questa settimana ho letto una buona manciata di nuove pagine di questo saggio pubblicato da Raffaello Cortina qualche mese fa. Si tratta di un libro che affronta lo spinoso tema del libero arbitrio, alla luce anche delle più recenti scoperte scientifiche. Dennett, uno dei più importanti filosofi viventi, assume una posizione cauta, secondo cui – nonostante si ammetta che le nostre scelte siano spesso soggette a molti condizionamenti – l’uomo rimanga comunque responsabile delle proprie azioni, e quindi sia meritevole di lode o di biasimo a seconda di come si comporta; Caruso, meno famoso ma non meno agguerrito, è invece molto più scettico al riguardo, ritenendo che nessuno possa essere ritenuto veramente (o pienamente) responsabile di ciò che fa, visto che il posto in cui nasciamo, la nostra impostazione genetica e l’educazione che abbiamo ricevuto sono ciò che ci spinge davvero ad agire in un modo o in un altro. Detta in termini più semplici: Dennett ammette ancora una qualche forma di libero arbitrio, mentre Caruso tende a negarla (anche se le posizioni sono in realtà più complesse e sfumate di così). Il tema ovviamente finisce per essere molto interessante, ma ciò che colpisce del libro è il modo in cui i due dibattono, un modo che alla lunga può risultare anche noioso o appetibile solo per specialisti, ma che in realtà esemplifica bene come dovrebbe condursi un dibattito filosofico. I due pensatori, infatti, si lasciano vicendevolmente spazio, permettendo ad ognuno di argomentare ed articolare il proprio punto di vista; poi elaborano obiezioni piuttosto ampie, che sovente fanno ricorso anche ad esperimenti mentali, casi concreti e situazioni di studio che servono a mettere alla prova le teorie proprie e quelle del rivale. Molto spesso questo porta i due a definire meglio il proprio pensiero; e se anche alla fine non c’è un reale vincitore – visto che i due convergono su alcune questioni ma continuano a rimanere distanti su altre – si assiste a uno scontro ricco di idee. Se vi interessa, lo si può comprare qui.
Il mito di Sisifo di Albert Camus: come anticipato, ho finito in gran velocità il breve ma famoso saggio di Albert Camus di cui vi avevo cominciato a parlare la settimana scorsa. Il libro è un classico dell’esistenzialismo francese, e non ha bisogno di molte presentazioni: scritto da Camus addirittura prima di compiere trent’anni, propone fin dall’inizio, dalle prime righe, il tema centrale della riflessione del filosofo: «Vi è solamente un problema filosofico veramente serio – esordiva Camus nel 1942 –: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto – se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie – viene dopo». Da queste note, è evidente che il libro prova ad interrogarsi sul senso della vita e sull’impossibilità, in un certo senso, di rispondere a quella domanda. Lo fa tramite il confronto con alcuni altri grandi esistenzialisti (soprattutto Dostoevskij, Kierkegaard, Šestov e, indirettamente, Sartre) ma anche tramite alcune riflessioni più personali sull’arte e sul romanzo, attività che Camus aveva d’altronde già cominciato a praticare. L’esito della riflessione – secondo lo scrittore francese – porta a scoprire ed accettare l’insensatezza della vita, ma a rivoltarsi anche contro di essa tramite l’attività creatrice, che accomuna gli attori e gli scrittori. Questa attività creatrice – che altro non è, in fondo, che l’espletamento di una qualche forma di volontà di potenza o di libido junghiana – è l’unica cosa che può rendere sopportabile la vita. Se noi siamo come Sisifo, perennemente condannato a portare il nostro masso su per la montagna, possiamo però anche di tanto in tanto provare gioia nel vedere il masso che rotola giù e che ci costringe a ricominciare da capo. Un libro, insomma, molto interessante, che forse si intende al meglio solo se prima ci si è immersi per un po’ nell’esistenzialismo e nel suo ambiente culturale, ma che di sicuro ha molto da dire anche all’uomo di oggi, perennemente in cerca di un senso che sembra sfuggirgli. Tra l’altro, si legge in fretta ed è ricco di intelligenti riferimenti letterari. Lo potete acquistare qui.
Il buon soldato Sc’vèik di Jaroslav Hasek: anche di questo libro vi ho già parlato nelle settimane scorse, visto che è molto lungo: d’altronde, nonostante lo stia leggendo con una certa foga, non sono arrivato che ad un terzo del totale delle pagine. Non vorrei però trarvi in inganno: la lettura per la verità è assai scorrevole perché Hasek sapeva come creare le sue burle e come far volare le pagine; le disavventure del suo protagonista sono infatti divertenti ma allo stesso tempo costituiscono una feroce satira dell’Impero Austro-Ungarico in decadenza, tra un esercito corrotto e inetto, un apparato repressivo instupidito e una chiesa che bada molto più agli onori che alle anime dei soldati. Dopo essere stato reclutato praticamente a forza, Sc’vèik ha lavorato per qualche tempo come attendente di un cappellano militare, per la verità occupandosi perlopiù di riportarlo a casa dopo le sbronze o di recuperare gli altari perduti o dati in pegno per le vie di Praga. Ora però sono arrivato al punto in cui il cappellano ha perduto il povero Sc’vèik al gioco, vedendosi costretto a cederlo ad un ufficiale, e forse il nostro dovrà quindi presto davvero partire per la guerra. Vedremo. Intanto le espressioni un po’ sceme di quel protagonista cominciano a entrarmi nella testa, soprattutto il classico intercalare con cui apre quasi ogni frase: «Fo umilmente notare…» Potete comprarlo qui.
Quello che ho visto
Passiamo ora agli audiovisivi, come si diceva una volta. In lista questa settimana ci sono due serie TV nuove e un film vecchio (ma sarebbe meglio dire un classico).
Brooklyn Nine-Nine, episodio 8.06 (2021), di Dan Goor e Michael Schur, con Andy Samberg, Andre Braugher, John C. McGinley: l’ultima stagione di Brooklyn Nine-Nine, come ho già spiegato anche un paio di settimane fa, si sta rivelando molto diversa da come me la aspettavo. Visto che è stata lanciata dopo l’emergenza Covid e con la consapevolezza che sarebbe stata “l’ultimo giro di valzer” prima dell’addio, pensavo che avrebbe offerto soprattutto puntate dal tono celebrativo, magari piene di ricordi e di “ultime volte”. Invece con l’ultima manciata di episodi gli sceneggiatori – forse perché ormai non avevano più nulla da perdere, o perché i tempi sono decisamente cambiati per la polizia americana – hanno deciso di dare una virata più politica a quella che fino ad oggi era stata una semplice (anche se divertente) serie comica. E la virata si è concretizzata in un attacco – sempre più forte e ormai pressoché costante – contro i metodi della polizia newyorkese, i suoi errori e il suo tentativo di coprirli sempre e comunque. Una cosa inattesa, se si considera che siamo davanti a una serie che andava in onda in un canale generalista, proposta quindi ad un pubblico assai eterogeneo; e ad una serie, soprattutto, che ha proprio dei poliziotti come protagonisti. Io finora non avevo mai visto uno show criticare gli stessi protagonisti con cui lo spettatore dovrebbe invece empatizzare: e questo è invece quello che avviene ad esempio proprio nel sesto episodio, quando – ALLERTA SPOILER! – è lo stesso Jake a sbagliare. Ho seguito la storia pensando continuamente: «Adesso arriva un colpo di scena che ribalta la situazione, e che mostra che invece Jake ha agito bene». Ma questo colpo di scena non è arrivato: il protagonista, per una volta, era davvero il cattivo, o quantomeno quello che sbagliava. Insomma, la cosa mi ha stupito non poco. Poi, sia chiaro: l’esperimento, per quanto interessante e innovativo, non sempre riesce; a volte la trama costruita per far emergere il tema sociale pare un po’ affrettata o poco credibile, e in generale mi sembra che gli episodi di quest’ultima stagione siano un po’ meno curati di quelli precedenti. Ciononostante, queste scelte ardite riusciranno probabilmente a rendere interessante e forse memorabile una stagione che altrimenti sarebbe scivolata via troppo in fretta. La trovate su Netflix.
Una giornata particolare (1977), di Ettore Scola, con Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Alessandra Mussolini: Una giornata particolare l’avrò visto almeno cinque o sei volte; in passato mi è capitato di proporlo, in quinta, anche a qualche mia classe, per mostrare uno spaccato realistico e truce dell’Italia fascista. Non l’avevo però ancora fatto vedere ai miei figli, e invece ho rimediato questa settimana. Tutto è nato da una veloce discussione attorno a Sophia Loren, che qualche giorno fa – il 20 settembre – ha compiuto gli anni. Visto che i miei due figli più grandi, di 15 e 12 anni, faticavano a focalizzare chi fosse questa benedetta Loren dall’età ormai veneranda, da padre pedante quale sono li ho subito messi con le spalle al muro: «Alla prima occasione utile ci guardiamo un film con la Loren». In casa, in DVD, avevo solo questo, ma direi che è stata una scelta ottimale (anche se ovviamente in questo film la diva non è al massimo dello charme ma è anzi un po’ sciupata, a causa del ruolo). La storia credo sia nota a molti, ma non a tutti: il film, diretto magnificamente da Ettore Scola alla fine degli anni '70, è ambientato nel maggio 1938, in una giornata appunto particolare, quella cioè della celebre visita di Adolf Hitler a Roma, ospite di Mussolini. In quella giornata, in un grande palazzo romano semi-deserto, si consuma però un’altra storia: Gabriele, un annunciatore radiofonico da poco sospeso dal servizio, conosce Antonietta, una casalinga che ha da poco salutato marito e figli corsi alla parata. Tra i due nasce un’intesa, basata sulle rispettive solitudini: Gabriele è omosessuale e verrà presto mandato al confino; Antonietta vive succube del marito e della famiglia, incapace anche solo di immaginare una vita diversa e più dignitosa per sé. Un film che è considerato un capolavoro, che riesce ad essere toccante e delicato pur all’interno di un panorama storico gigantesco come quello di quel 1938 che preparava alla guerra mondiale; e, tra l’altro, con una straordinaria Loren ma anche un altrettanto straordinario Marcello Mastroianni. In una piccola parte, allora quindicenne, c’è anche Alessandra Mussolini, nipote della Loren ma anche proprio di quel Benito Mussolini che nel film viene invece duramente attaccato.
The Bear episodio 1.01 (2022), di Christopher Storer, con Jeremy Allen White, Ebon Moss-Bachrach, Abby Elliott: forse avete letto anche voi, proprio in questi giorni, alcuni entusiastici articoli su The Bear, nuova serie americana appena arrivata nel catalogo di Disney+. Lo show è infatti giunto in Italia sull’onda di ottime recensioni ottenute in America, tanto che si vocifera già che sarà sicuramente nominato, tra qualche mese, ai principali premi televisivi; e questo – in un mondo in cui le serie sono ormai sovrabbondanti ma spesso tutte più o meno uguali tra loro – ha destato parecchie attenzioni. Dopo aver letto un paio di articoli entusiastici, ho provato quindi anch’io a darle una possibilità, quantomeno con un primo episodio (che tra l’altro è piuttosto corto: dura appena 28 minuti). Devo dire che ne è valsa la pena. Lo show decide, primariamente, di non raccontare ma di mostrare; e riesce a farlo in maniera convincente. Non c’è infatti un filo narrativo chiaro, che venga spiegato per filo e per segno; all’inizio, piuttosto, veniamo catapultati nella cucina di una tavola calda di Chicago, in mezzo al caos e alla disperazione di un giovane uomo. Un po’ alla volta, grazie ad alcune inquadrature sapienti o ad alcuni scorci di dialogo sentiti qua e là, cominciamo a capirci qualcosa: capiamo ad esempio che il protagonista è appena arrivato, perché il precedente proprietario (il fratello) è venuto a mancare e ha lasciato a lui l’incarico di portare avanti la baracca. Scopriamo anche che questo protagonista, di nome Carmen (ma attenzione: è un uomo), è in realtà uno chef rinomato, che evidentemente ha lasciato la carriera per occuparsi di quella mezza bettola; e che cerca di applicare i metodi di una cucina seria e professionale in un posto che non è minimamente abituato a questi metodi. Il tutto, all’interno di un ritmo caotico, sostenuto. Non sono solo i protagonisti a dover fare i conti col tempo, in modo da preparare le pietanze in tempo per l’apertura del locale; siamo anche noi ad essere catapultati in quel turbine di eventi, sempre quasi col fiato sul collo. Insomma, sembra quasi di non essere uno spettatore, ma di essere dentro alla scena; e se anche non c’è (per fortuna) alcuna rottura della quarta parete, ci pare in ogni momento che Carmen sia in procinto di girarsi verso di noi e di dirci di affettare qualcosa. Per ora il primo episodio è troppo breve per trarre grandi conclusioni, ma la regia, il ritmo e l’interpretazione lasciano decisamente ben sperare. Ho già molta voglia di guardarmi la seconda puntata e, devo dire la verità, è piuttosto raro che accada. Come detto, lo trovate su Disney+.
Quello che ho pensato
Come spesso accade, anche questa settimana lo spunto per la riflessione arriva da alcuni video che ho realizzato e da alcune letture che ho fatto. Il tema è quello del potere, o meglio della lotta contro il potere.
Moltissimi pensatori politici nel corso dei secoli hanno cercato di indicarci la via per liberare l'uomo. Consapevoli che ogni essere umano fosse sottoposto a vincoli pesanti e pressanti, i filosofi hanno provato ad individuare i modi per garantire la liberazione dell'uomo stesso, partendo dall'individuazione delle radici di questo potere. Potere e costrizioni sono infatti intimamente legate: avere il potere significa essere in grado (almeno potenzialmente) di imporre costrizioni a qualcuno, di assegnare obblighi. Un capufficio ha un potere perché può dare degli ordini ai sottoposti, imponendo loro la costrizione di lavorare più a lungo, ad esempio. Un genitore manifesta un potere sul figlio fin quando è in grado di costringere – in un modo o nell’altro – il figlio a fare una cosa voluta dal genitore stesso.
Liberare l’uomo vuol dire, dunque, togliere queste costrizioni e questi obblighi. Pensate ad esempio a Rousseau, che riteneva che l'uomo fosse nato libero ma che poi si fosse ridotto in catene a causa del progresso e della paura: per ritornare all’agognata libertà bisognava superare tutto ciò che ci aveva portato al sorgere dei vincoli. Oppure pensate a Marx, che legava il potere al capitale e che pensava che il superamento della proprietà privata dei mezzi di produzione (responsabile degli obblighi) avrebbe portato ad una umanità felice e, appunto, liberata.
Ma il tema della libertà non si è coniugato solo, nella storia della filosofia, con quello del potere. Prima dell'età moderna, anzi, la libertà veniva interpretata dai filosofi in chiave principalmente interiore: bisognava liberarsi dal giogo della natura, dalle passioni, dal dolore. Lo stoicismo, in particolare, era stato forse la filosofia che più si era spesa per garantire la libertà dell'individuo davanti alle sfide del destino e del fato, anche se poi molte altre scuole (e perfino la filosofia cristiana) gli erano andate dietro.
In questo caso per guadagnare la libertà bisognava sconfiggere non un potere esterno ma in un certo senso un potere interno, cioè i nostri vincoli interiori. Bisognava abbattere le costrizioni che il nostro stesso corpo e il nostro stesso carattere imponevano a noi stessi.
In ogni caso, liberare l’uomo significava ridurre il più possibile il peso degli ordini, dei vincoli e dei limiti.
Il tema è estremamente attuale ancora oggi, in un tempo in cui, sulla scorta di Foucault, si parla spesso di biopolitica, di psicopolitica o di capitalismo della sorveglianza come nuove forme di potere e di imposizione, come nuove forme di privazione della libertà. Un buon numero di pensatori continua a ritenere che il potere – per quanto sia mutato nel corso dei secoli – sia ancora il nemico massimo contro cui combattere per cercare di garantire spazi politici e di libertà (e quindi di felicità) all'uomo.
Ogni volta che mi imbatto in propositi del genere, però, mi sembra di cogliere, in modo magari confuso, un difetto di fondo in tutto il ragionamento. Anzi, ad essere più precisi, due difetti di fondo:
il non capire che il potere e la costrizione sono inevitabili: abbattere un potere (sia quello del capitalismo o quello del patriarcato, quello di Facebook o quello di Putin) non porta automaticamente ad un’umanità liberata e felice, ma solo ad un’umanità che cerca di creare nuovi modi per continuare ad esercitare il potere;
che il potere e la costrizione non sono cose che piovono dal cielo sulla testa dell’uomo, quasi come se fossero una maledizione calata da forze invisibili e irrazionali, ma che sono in realtà cose che abbiamo creato noi stessi, per un motivo ben preciso.
Provo a spiegarmi meglio. Partiamo dal primo punto, quello che definirei l’errore madornale di Marx. Marx pensava che il possesso dei mezzi di produzione fosse l’elemento cardine della base economica e quindi la radice ultima delle ingiustizie del suo tempo. Liberare l’umanità dalla proprietà privata (e, di conseguenza, dalle classi sociali) avrebbe dovuto garantire altruismo, felicità e giustizia per tutti. È andata davvero così, all’atto pratico? Laddove il potere del capitale è stato abbattuto, abbiamo per la verità visto sorgere nuove forme di potere, diverse nella forma ma non nella sostanza: in URSS non dominavano più i grandi imprenditori, certo, ma dominavano i burocrati del partito; senza parlare della Cina, della Corea del Nord, di Cuba o di molti altri paesi. Si spazza via un insieme di persone che esercita il potere per un motivo, per sostituirla con un nuovo insieme di persone che esercita il potere per un motivo diverso: ma sempre di potere si tratta.
Ma è nel secondo punto, a mio avviso, che si possono fare le riflessioni più interessanti. I filosofi marxisti e post-marxisti tendono ad identificare il potere come una forza immateriale: a dominare non sono mai certi uomini o certi gruppi, ma “il capitalismo” o “il neoliberismo”. È un’impostazione tipicamente idealistica ed hegeliana, che vede la storia portata avanti da forze immateriali, da Assoluti che dominano sull’individuo.
Ogni volta che sento odore d’idealismo, però, a me si drizzano le orecchie. Perché l’idealismo è sempre la via più facile per scantonare un problema: si attribuisce ad una forza astratta quello che non si è in grado (o non si vuole) attribuire a degli agenti concreti. E mi chiedo, dunque: può essere, forse, che il potere non sia affatto il frutto di forze sovrumane che ci dominano, ma il risultato piuttosto di una precisa scelta umana?
Proviamo ad esempio ad immaginare come sarebbe una vita veramente libera da ogni forma di potere e costrizione, una vita cioè in cui il potere non ci imponesse dei limiti, dei divieti, dei paletti; in cui il potere non ci impedisse insomma nulla. Non avremmo ostacoli alla nostra volontà e potremmo fare tutto quello che vorremmo.
Spesso, banalmente, ci immaginiamo che le persone ricche e potenti vivano proprio così: che a loro basti uno schiocco di dita per ottenere i beni che vogliono; che non abbiano bisogno di alzarsi ogni mattina e andare a lavorare per portare a casa il pane; che possano permettersi di non obbedire alle leggi quando le ritengono lesive della loro libertà, corrompendo le guardie o trovando delle scappatoie giuridiche.
Ma questa libertà darebbe loro la felicità? O non darebbe, piuttosto, una forma di noia eterna? Io mi sento di accogliere, in questo campo, buona parte della riflessione di Arthur Schopenhauer e poi di tanti altri filosofi che si sono posti sulla sua scia. Per il filosofo tedesco il piacere, come si ricorderà, nasce sempre dal dolore o, meglio, dal fatto che la nostra volontà non è libera di esprimersi. Il piacere nasce quando soddisfiamo un bisogno, quando plachiamo un dolore; cioè dalle sfide che affrontiamo, dai limiti che superiamo, dai problemi che ci troviamo a risolvere: se non ci fossero sfide, se non ci fossero limiti, se non ci fossero problemi non ci sarebbe neppure felicità. Perché proviamo benessere e gioia quando realizziamo un sogno? Perché superiamo un ostacolo o un limite che ci pareva invalicabile.
Ampliamo però ulteriormente il discorso e chiediamoci: cos'è che ci spinge continuamente ad agire? Cos'è che ci spinge – non solo in ambito lavorativo ma in ogni settore della nostra vita, anche familiare o sentimentale – ad alzarci la mattina e a fare cose? Io direi: la prospettiva di un ostacolo da superare.
Perché ci sposiamo e facciamo figli? Perché vogliamo metterci alla prova, e fare qualcosa di grande. Perché andiamo allo stadio a fare il tifo per una squadra di calcio? Perché speriamo che quella squadra finalmente inverta la rotta e cominci a vincere. Perché scriviamo libri o realizziamo film? Perché rappresentano una sfida che all'inizio non sappiamo se riusciremo a portare a termine in modo soddisfacente. Perché ci candidiamo a cariche politiche? Perché, per quanto potere già abbiamo, vogliamo sentirci confermati nel ruolo e battere il nostro avversario.
Se ci fate caso, i miliardari, che pure avrebbero teoricamente tutto, continuano a fare queste stesse cose, come noi comuni mortali: anche loro fanno figli, anche loro vanno a tifare (e soffrire) allo stadio, anche loro scrivono libri o si candidano a cariche politiche. Lo fanno per vanità? Per l’incapacità di accontentarsi? Oppure, più semplicemente, perché la vita è proprio questo, cioè superare gli ostacoli, e gli ostacoli ci sono in ogni vita?
In tutti i settori della nostra esistenza il superamento degli ostacoli è ciò che ci dà la spinta ad impegnarci, a fare qualcosa. Senza gli ostacoli staremmo semplicemente seduti sul divano ad aspettare che il tempo passi, ci gireremmo i pollici e presto ci annoieremmo e inizieremmo a pensare al suicidio. Una vita senza ostacoli, una vita senza limiti mi sembra davvero una vita che non può portare da nessuna altra parte che non alla noia e appunto alla morte per consunzione. Dostoevskij scriveva che «l’uomo ha inventato Dio soltanto per non uccidersi», e forse aveva ragione. Anzi, per essere più precisi io direi: «L’uomo ha inventato i limiti soltanto per non uccidersi». E i limiti derivano dal potere che altri esercitano su di noi.
Se tutto questo è vero – e io penso che in fondo lo sia – non possiamo porci come obiettivo la fine del potere. Il potere a cui siamo sottoposti è ciò che crea gli ostacoli, è ciò che crea i limiti, proprio quei limiti che danno senso alla nostra vita.
C'è il potere della natura, che ci impone dei limiti fisici: sono proprio quei limiti che rendono sensata ad esempio la nostra corsa verso lo spazio, il nostro sogno di camminare su altri pianeti. Queste sono le cose che ci consentono di rubare alla natura un po' del suo potere.
C'è il potere di Dio (o di qualsiasi altra entità superiore esista o non esista), che ci impone il limite della morte, a cui con la ricerca medica e scientifica abbiamo rubato un po' di spazio, allungando la nostra speranza di vita.
C'è il potere dello stato, che ci impone i limiti delle leggi, che magari possiamo cercare di ampliare ma che rappresentano nel lungo termine un ostacolo oltre cui non possiamo andare.
C'è poi il potere della natura umana, che ci pone dei limiti connessi alla nostra psicologia, alla nostra biologia, al nostro modo di pensare e di essere.
I limiti vengono spesso, implicitamente o esplicitamente, attaccati dalla filosofia post-marxista, come se fossero un male in sé. A me viene da pensare piuttosto che siano un male quando travalicano certe condizioni, ma che non lo siano sempre, in assoluto.
Lo stato l'abbiamo creato noi, per porci autonomamente dei limiti; il potere economico è stato creato con la stessa finalità; perfino le varie religioni forse le abbiamo create per porci dei limiti, per darci delle regole rigide e severe. Perché l’uomo sotto sotto ha ben presente cosa accadrebbe se vivesse davvero senza limiti, senza poteri, senza costrizioni: tant'è vero che anche la società del dominio, con tutti i suoi difetti, l’abbiamo creata noi. È facile dar la colpa al capitalismo: ma le vere cause della nostra mancanza di libertà siamo noi.
E non lo siamo certo solo dall’età industriale o post-industriale: lo siamo da sempre. Il dominio che oggi il grande capitale esercita su di noi, cercando di entrarci nella testa e nel corpo (come dicono Agamben, Han e soci), non è una cosa poi così nuova, a guardar meglio: non fa altro che riprendere gli stilemi della religione, che ci ha dominato per secoli in modo molto simile. Cambiano le forme, non cambia la sostanza: il potere è sempre lo stesso, ed è una nostra creazione.
Attenzione, però: non è solo, come diceva Rousseau, una creazione del forte per legalizzare la sottomissione del debole. Il potere è un’esigenza anche del debole. Se ci guardiamo attentamente attorno, ci accorgiamo delle numerosissime forme di potere che ci circondano: quelle del genitore nei confronti dei figli, di alcuni mariti nei confronti di alcune mogli, dei datori di lavoro nei confronti dei dipendenti, della ragazza “dominatrice” nei confronti del ragazzo “dominato” e così via. Sono tutte forme di potere che pongono limiti e costrizioni all’altro, ma sono forme di potere diverse tra loro.
Un genitore, ad esempio, di solito pone paletti e limiti temporanei: regole di cui prima o poi il figlio si libererà. Il genitore – se è un genitore saggio – incatena, ma per fare in modo che il figlio impari a liberarsi. Il suo incatenarlo e dominarlo è più che altro un allenamento alla vita: ti pongo dei limiti perché tu possa imparare a superarli. Altre forme di potere non sono così benevole.
Ma, come dicevo, non è solo il dominatore a imporre la sua potenza; a volte è anche il dominato a sottomettersi di propria iniziativa. L’aveva già capito Hegel con la dialettica servo-padrone: per paura, siamo a volte portati a cercare qualcuno che ci domini, che ci controlli, che ci dia degli ordini. In politica accade spesso: il mondo è pieno di persone in cerca di un padrone. Allo stesso modo, il mondo è pieno di persone in cerca di una fede oppressiva, anche quando non ce n’è nessuna disponibile a portata di mano.
Ritorniamo dunque al punto di partenza: il potere non ci arriva come una spada di Damocle sul capo, ma ce lo creiamo noi. A volte lo imponiamo agli altri, a volte ci viene imposto, in certi casi perfino desideriamo che ci venga imposto.
Perché potere significa limite, e limite significa un ostacolo da superare. La nostra vita è questo: la perenne dialettica tra limite e libertà, tra ostacolo e suo superamento. Se non c’è il primo, non può esserci il secondo. Dobbiamo lottare non tanto per la libertà assoluta, quanto per spostare un po’ più in là i limiti, i paletti, gli ostacoli, stando attenti che questo spostarli non sia un realtà solo un rigirare la frittata, un riproporre cose vecchie in forme nuove.
Anche perché un’umanità liberata completamente dai limiti e dalle costrizioni sarebbe un’umanità priva di vita.
Quello che ho registrato e pubblicato
Non dimenticate di dare un’occhiata anche ai video e ai podcast usciti negli ultimi sette giorni: eccoli qui di seguito.
Come informarsi sull’attualità: più di qualcuno, nelle settimane scorse, mi ha chiesto in che modo mi informo e segue il flusso delle informazioni; qui do qualche suggerimento
Jaspers: filosofia ed esistenza: iniziamo a presentare il pensiero di un grande psicologo ed esistenzialista tedesco
Il sistema politico del Regno Unito: come funzionano Parlamento e Governo britannici? E le Home Nations?
La filosofia di Melisso di Samo: parliamo qui di un presocratico che viene spesso trascurato, ma che in realtà permise il collegamento tra gli eleatici e i fisici pluralisti
L'autunno del Medioevo - Audiolibro spiegato parte 8: nuova puntata della lettura integrale dell’opera di Johan Huizinga
Le prove dell'esistenza di Dio di Tommaso (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
La rivoluzione popolare (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono i nuovi abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri e videocorsi che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Un anno di dominazione fascista di Giacomo Matteotti: come dicevo in apertura di questa newsletter, questa settimana sono tornato per l’ennesima volta a Marzabotto, un luogo che ormai sento un po’ mio. Ed è stato un giro necessario, sia per l’importanza che ha la memoria di questi fatti, sia perché proprio in questo ottobre 2022 cade l’anniversario, il centesimo, della marcia su Roma. Insomma, è il momento di parlare ancora di più di quello che è stato il fascismo e di dove ci ha portato. Per questo il libro che vi propongo questa settimana è in un certo senso una testimonianza del passato ma anche un monito per il futuro. Si tratta del risultato di un’inchiesta condotta da Giacomo Matteotti nei mesi precedenti alla sua uccisione, inchiesta in cui il deputato polesano (perché proveniva proprio dalla mia terra) mise insieme tutte le violenze e le illegalità fasciste, in modo da poterle meglio denunciare. Questo libro, insomma, insieme alla testarda denuncia portata in Parlamento, fu una delle cause dell’uccisione dello stesso Matteotti, e proprio per questo vale la pena oggi di leggerlo. L’ha ripubblicato da poco Rizzoli al costo di 17 euro e lo si può comprare qui.
Scrivere un memoir: una storia personale per un pubblico universale: scrivere non è facile, e forse è ancora più difficile quando si vuole provare a condividere una storia che è anche profondamente personale. Per fortuna anche in questo caso ci sono delle tecniche e delle strategie che possono aiutarci per dar forma ai nostri pensieri e ai nostri avvenimenti. Domestika offre in questo senso un corso molto valido, realizzato grazie alle lezioni della scrittrice Courtney Maum. In 12 incontri si impara a gestire il progetto di un libro e portarlo a termine, senza più paure e ripensamenti. Il corso costa 16,90 euro ed è disponibile qui.
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né fare corsi, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Cosa c’è in arrivo
Chiudiamo come sempre con un riepilogo dei video e dei podcast che dovrebbero uscire nei prossimi giorni:
già domani arriverà un video su Persepolis, il bel cartone animato (tratto da un fumetto) che racconta la vita delle ragazze e delle donne nell’Iran di oggi e di ieri;
come anticipato sui social, questa settimana partirà anche una nuova rubrica-video, intitolata Filosofia per ragazzi, in cui cercherò di raccontare la filosofia a un pubblico di ascoltatori nuovo, quello compreso nella fascia che va dai 9 ai 13 anni circa (ma questi video potrebbero interessare anche a chi è più grande). Il primo video uscirà, credo, venerdì 14;
arriverà inoltre la seconda puntata su Jaspers, oltre a un altro video-consiglio su libri da leggere (ma questa volta faremo riferimento ad Aristotele);
infine, per quanto riguarda i podcast proseguiremo con San Tommaso in filosofia e con la Rivoluzione francese in storia.
E questo è tutto, gente, come diceva Porky Pig nei vecchi cartoni dei Looney Tunes, anche perché nel frattempo si è fatta l’una e mezza di notte. Io dunque vado a letto, ma noi ci rivediamo, sempre qui, tra sette giorni esatti.