Sull'abbigliamento degli studenti e i fatti del Liceo Righi, sulla Rivoluzione francese, su Brooklyn Nine-Nine, sull'ateismo, su Benvenuto presidente! e soprattutto sui buoni risultati dei podcast
Un’altra settimana è passata, tra l’Ucraina che sente sempre di più il fiato sul collo della Russia e noi che stiamo qui a litigare per questioni per certi versi minimali. Per anni abbiamo creduto che il nostro massimo problema fosse il linguaggio ostile, e oggi ci siamo improvvisamente accorti che esistono ancora le dittature, che invece delle parole usano le armi. A pensarci, sale un po’ di sconforto.
Della questione, però, ci siamo già occupati la settimana scorsa, quindi questa volta proviamo a distrarci con qualcos’altro. Nel menù della newsletter ci sono questa settimana libri a loro modo tragici (il più drammatico è un fumetto, che parla però proprio di guerra), film leggeri ma con un retroterra interessante e poi come al solito tanti video e podcast.
A proposito di podcast: vi segnalo che Dentro alla filosofia e Dentro alla storia continuano a crescere, con il primo che è ormai stabilmente nella lista dei primi 100 podcast più seguiti in Italia e il secondo che è vicino ad entrarci. Non è un caso che proprio questa settimana grazie ad una proposta (di quelle che non si possono rifiutare) di Spreaker – il nostro host – abbiamo fatto un “upgrade” tecnico, che ci permetterà di promuoverli ancora di più e meglio nei prossimi mesi. Come si dice nel settore, stay tuned!
Quello che ho letto
Questa settimana ho finito due libri che mi portavo dietro da un po’. Mi mancheranno, perché mi sono piaciuti entrambi, anche se in modo molto diverso.
Don Camillo di Giovannino Guareschi: ne ho già parlato, ne ho già tessuto le lodi nelle settimane scorse. Devo dire che, a lettura ultimata, in effetti si capisce perché queste storie di Guareschi, nell’Italia del 1947, avessero così tanto successo ma allo stesso tempo alimentassero così tante polemiche. Peppone è presentato in fondo come un buon uomo (come emerge anche nei film), ma i suoi compari sono spesso e volentieri colpevoli di omicidi, furti, violenze. Insomma, la polemica fortemente anti-comunista si sente eccome, soprattutto in certi racconti. Che poi finiscono per essere anche le storie più deboli: la comicità di Guareschi mi sembra funzionasse meglio quando l’autore mostrava anche una certa benevolenza nei confronti dei suoi personaggi, invece che un sarcasmo cattivo. Ma non è sempre così, in fondo? Quando ridiamo di qualcosa o di qualcuno in un’opera di fantasia, è perché sotto sotto gli vogliamo un po’ bene, è perché sotto sotto ci identifichiamo un po’ nei suoi difetti e nei suoi vizi, no? Voi cosa ne pensate?
Strange Adventures di Tom King, Mitch Gerads e Evan “Doc” Shaner: anche di questo fumetto – lunghissimo, pubblicato in Italia in due volumi da circa 200 pagine ciascuno – ho già parlato qualche settimana fa, ma finalmente sono riuscito a finirlo. Intanto la trama: Adam Strange è un classico eroe fantascientifico della DC Comics, capace di vivere avventure su due mondi paralleli, un po’ sulla Terra e un po’ sul pianeta Rann, di cui è in un certo senso il difensore. All’inizio della storia lo troviamo proprio sulla Terra, dopo aver salvato da poco l’altro mondo da un’invasione aliena. Il guaio è che quegli stessi alieni – i Pykkt – che hanno attaccato Rann ora stanno puntando al nostro pianeta, e Strange – forte della sua esperienza – sembra essere considerato il leader perfetto per le forze di difesa. Solo che nel passato dell’eroe pare anche esserci una macchia piuttosto pesante, che si rivelerà man mano che la storia procede. Questa, in succo, la sintesi della storia, senza spoiler; al di là di questo, però, bisogna dire che il fumetto è disegnato benissimo e il ritmo è intrigante, ad incastri, in un modo degno di Tom King. Almeno fino alla metà, mi sembrava un fumetto da 5 stelline su 5, per intenderci. Dico “almeno fino a metà”, perché poi invece la seconda parte della storia mi ha convinto molto meno: certe soluzioni mi sono sembrate un po’ confuse, se non addirittura contraddittorie, e il finale mi ha ampiamente deluso. Non per il finale in sé, ma per come ci si è arrivati, con un pathos che si era ormai ampiamente consumato. Rimane un gran fumetto, sia chiaro, che merita di essere letto, anche perché pone alcune domande interessanti sui limiti da attuare quando si combatte una guerra (fin dove è lecito spingersi?), ma nel complesso mi ha lasciato un po’ l’amaro in bocca.
Trattato di ateologia di Michel Onfray: anche di questo libro ho cominciato a parlare la settimana scorsa. Sto procedendo con la lettura ma non mi sta convincendo molto. Onfray sembra preferire la polemica (a tratti anche un po’ sguaiata) alla riflessione; invece che attaccare le religioni andando in profondità, mi sembra limitarsi alle solite critiche che sentiamo da due o tre secoli, magari anche in buona parte valide ma comunque parziali e in ogni caso non certo una novità nel panorama intellettuale. Almeno fino al punto a cui sono arrivato (cioè quasi a metà), viene insomma da chiedersi: abbiamo già Nietzsche che dice le stesse cose e le dice forse meglio e sicuramente da più tempo; c’era davvero bisogno di questo “Trattato”?
Quello che ho visto
Come al solito, facciamo anche una capatina sul versante audiovisivi, con una serie TV e due film.
Brooklyn Nine-Nine, i primi 6 episodi della settima stagione (2020), con Andy Samberg, Melissa Fumero, Andre Braugher: lo dico subito, io per Brooklyn Nine-Nine ho un debole. Di per sé, sembra una serie come tante: uno show comico ambientato in un distretto di polizia di New York, con qualche gag riuscita e trame che, almeno di tanto in tanto, mescolano azione e commedia. In più, però, ci sono alcuni personaggi secondari molto divertenti (il commissario Holt, Boyle, Hitchcock & Scully) e a volte delle sceneggiature di ferro. In questa stagione (di cui sono a metà) appena uscita in Italia su Netflix consiglio caldamente il terzo episodio, La memoria di Pimento, che mescola in un certo senso Memento di Christopher Nolan e Alla ricerca di Dory della Pixar. Ma tutta la serie merita di essere goduta, anche solo nei ritagli di tempo.
Un lupo mannaro americano a Londra (1981), di John Landis, con David Naughton, Jenny Agutter, Griffin Dunne: ecco un classico dell’horror anni '80, in un clima decisamente “alla Dylan Dog” prima che Dylan Dog cominciasse ad uscire nelle edicole. La storia è quella di due ragazzi americani che vanno in vacanza nella brughiera inglese; lì vengono assaliti da un licantropo, che ne uccide uno e trasforma l’altro a sua volta in un nuovo licantropo. Sopravvissuto all’attacco, infatti, il ragazzo viene ricoverato in un ospedale londinese ma, quando arriva la luna piena, ricomincia a colpire, gettando nel panico la città. Una storia abbastanza tradizionale, effetti speciali che all’epoca erano anche ben fatti ma che oggi suonano un po’ datati, ma in generale quello che colpisce del film è il clima strano, da horror che non fa (troppa) paura perché di mezzo c’è anche un po’ di commedia ed un po’ di love story. Di filosofico o di storico c’è poco o nulla, ma ogni tanto bisogna anche distrarsi.
Benvenuto Presidente! (2013), di Riccardo Milani, con Claudio Bisio, Kasia Smutniak, Remo Girone: non l’avevo visto a suo tempo, quand’era uscito quasi dieci anni fa, ma i recenti fatti del Quirinale mi hanno spinto a riprenderlo in mano (lo trovate su Netflix). La storia sembra attuale, anche se è in realtà più legata alle polemiche di qualche anno fa sul Parlamento da “aprire come una scatola di tonno” o su La casta: si deve eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, ma i partiti non riescono a mettersi d’accordo su un nome comune. Alla fine, come gesto provocatorio, tutti decidono, all’insaputa gli uni degli altri, di scrivere sulla scheda “Giuseppe Garibaldi”. Il guaio è che un Giuseppe Garibaldi, eleggibile, in Italia c’è davvero e questi risulta quindi scelto per il Quirinale. Il personaggio, interpretato da Claudio Bisio, è di buon cuore ma anche goffo e non abituato al protocollo. Ne nasceranno diverse gag e situazioni imbarazzanti. Il film è carino, simpatico, soprattutto per l’abilità di Bisio e di Kasia Smutniak, sua controparte femminile; poi ogni tanto cade anche nel qualunquismo o in soluzioni un po’ scontate, ma tutto sommato ho visto di peggio.
Quello che ho pensato
Arriviamo dunque al fulcro della newsletter, la riflessione sull’attualità. Oggi vorrei soffermarmi un attimo sulla vicenda del Liceo Righi di Roma, di cui forse avete letto sui giornali o sul web; e vorrei discuterne perché secondo me è abbastanza rappresentativa di una tendenza sempre più evidente negli ultimi anni, nella scuola ma anche al di fuori della scuola. Una tendenza che va ben al di là del fatto in sé.
In breve, la vicenda: a quanto pare, qualche giorno fa una professoressa del liceo romano ha sorpreso, a scuola, un’alunna intenta a riprendersi mentre effettuava un balletto; l’idea della studentessa era quella di caricare poi quel filmato su TikTok, social in cui cose di questo tipo abbondano. Questa alunna, a quanto si apprende dai giornali, in quel momento pare fosse in abiti succinti; al che la professoressa se ne sarebbe uscita con un commento di questo tipo: «Guarda che non sei sulla Salaria» (o «Ma che, stai sulla Salaria?», le versioni sono discordanti). La Salaria, per chi non lo sapesse, è la nota strada romana in cui alla sera bazzicano le prostitute.
Dopo questo fatto è scoppiato il putiferio, con studenti che hanno manifestato e protestato, la professoressa che forse sarà sottoposta a sanzione disciplinare e tutto quello che ne consegue. Ora, premesso che della faccenda sappiamo troppo poco per giudicare in maniera definitiva, perché molto dipende anche dal tono con cui quella frase è stata detta, dal rapporto che c'è tra la professoressa e la studentessa e così via, a me interessano di più le reazioni che il fatto in sé.
In questi giorni ho letto infatti interviste ai compagni di scuola del Righi e commenti di giornalisti e intellettuali sui vari giornali: e in molti casi mi pare che non si sia riusciti più di tanto a cogliere un punto interessante della questione. I giovani, nelle varie interviste, tendono a dire che è finita l'epoca in cui gli insegnanti potevano fare commenti sull’abbigliamento degli studenti e delle studentesse, che è finita l'epoca in cui ci si poteva rivolgere a una ragazzina dandole velatamente della prostituta e alcuni addirittura hanno detto che vogliono “mettere fine al patriarcato” (!); i giornalisti e i commentatori più anziani, invece, hanno teso a minimizzare, affermando che sì, la frase è stata infelice ma che forse anche i ragazzi dovrebbero imparare a vestirsi meglio.
Premesso che anche secondo me i ragazzi, in generale, a scuola dovrebbero attenersi a un minimo di dress code, e premesso che la frase della professoressa è effettivamente sbagliata ed infelice, mi pare però che ci sia un’altra considerazione da fare: ho l’impressione che tra i giovani e gli anziani si stiano dando in questi giorni interpretazioni diverse a questo fatto perché in realtà si stia discutendo di due frasi diverse.
La frase «Non sei sulla Salaria» può essere infatti letta in due modi, a guardarla con attenzione: o come mi pare la intendano i giovani, cioè «Sei una prostituta ma adesso sei a scuola e non stai esercitando, quindi vedi di vestirti in modo diverso», oppure come la intendono i vecchi, cioè come «Non ti devi vestire come si vestono le donne sulla Salaria (perché tu sei diversa da loro)». Nel primo caso la frase è altamente offensiva, ovviamente, ma nel secondo lo è nettamente di meno; nel secondo caso a me parrebbe un modo eccessivamente forte e ambiguo per esprimere un concetto che sarebbe però educativamente anche corretto. Nel primo caso, per farla breve, stai dando della prostituta a una ragazza; nel secondo le stai dicendo di essere più dignitosa nel vestire.
Sono sicuro che alcuni studenti diranno: anche se fosse vera la seconda interpretazione, i professori non possono permettersi di commentare l’abbigliamento degli studenti. Al che si aprirebbe un’altra questione su cui ora non abbiamo tempo e spazio per rimanere, quella del dress code. Casomai, se vi interessa, torniamo sull’argomento un’altra volta, perché qualcosa da dire lo avrei anche qui.
Rimaniamo però, ora, sulla frase incriminata. Cosa voleva dire davvero la professoressa? È corretta la prima interpretazione o la seconda? Oppure voleva dire un po’ entrambe le cose? A noi vecchi è venuto spontaneo pensare alla seconda interpretazione, credo; ai giovani è venuto spontaneo pensare alla prima. Magari hanno ragione loro, non lo so. Ma mi sono chiesto: perché questa differenza? Perché una stessa frase, in un contesto del genere, può essere interpretata in due modi differenti?
Faccio notare una cosa: noi vecchi tendiamo spontaneamente ad empatizzare con la professoressa. Ci mettiamo istintivamente nei suoi panni: perché siamo professori, siamo genitori, siamo educatori. Perché abbiamo quell’età lì. Nella situazione, è lei quella che ci somiglia di più. Quindi quando dobbiamo decidere, istintivamente, quale interpretazione dare alla frase, scegliamo quella più leggera, quella che tende ad assolvere la professoressa, ad alleggerirne la posizione. I giovani invece si identificano più facilmente nella ragazzina che faceva il balletto, perché è lei quella più vicina a loro; e quindi tendono, istintivamente, a dare l’interpretazione più grave, a sentirsi offesi anche loro.
Ecco, questo è il punto, secondo me. Ai giovani è venuto spontaneo interpretare nel primo modo – quello più grave – forse per due motivi: primo, perché si sentono spesso sotto osservazione, bersagliati e giudicati; secondo, perché ormai siamo nel tempo in cui ogni commento scivola (volenti o nolenti) sul personale, anche e soprattutto a scuola. Ogni cosa che diciamo a un ragazzo, ogni voto che diamo a una ragazza non viene preso semplicemente come un commento su un fatto, su un atto, su una performance durante la verifica; viene invece spesso interpretato come un commento sul valore della persona.
Temo che questo sia in buona parte anche colpa nostra; ed intendo di noi adulti, non solo di noi professori. Non riusciamo quasi mai a far capire che la valutazione, a scuola, non solo non è tutto, ma non è neppure la cosa più importante. Che la valutazione misura come si è fatta una prova e mai, assolutamente, la persona. Facciamo fatica a dire a un ragazzo: «Guarda, oggi è andata così, ma questo non vuol dire nulla; tu sei altra cosa». Anche come genitori, a volte, facciamo fatica ad andare al di là dei numeri, delle medie.
Se i ragazzi, davanti ad un commento sicuramente sbagliato ma per certi versi anche ambiguo, optano per l’opzione peggiore, è forse perché sono spesso abituati a subire l’opzione peggiore. Perché nella loro esperienza spesso un commento di un adulto che pare cattivo è, insomma, effettivamente cattivo. Noi adulti ci autoassolviamo, forse più del dovuto; loro, i giovani, ci accusano, forse più del dovuto. In ogni caso, si fa fatica ad intendersi, in questo modo.
Mi verrebbe da dire, però, che non è più neppure solo una questione degli studenti, è una questione che riguarda tutta la società. A parti inverse, per dire, se la studentessa avesse detto all’insegnante: «Prof, ma come s’è vestita? Non è sulla Salaria!», ne sarebbe sorto un putiferio ancora maggiore. E la prof l’avrebbe presa altrettanto sul personale, anche se pure in quel caso magari l’ipotetica studentessa avrebbe avuto intenzione di giudicare solo l’abbigliamento, non la persona.
Prendiamo tutto sul personale, tutti, in ogni istante. Perché ormai non c’è più distinzione tra quello che pensiamo e quello che siamo, tra quello che facciamo e quello che siamo. Addirittura, quando sentiamo una notizia come questa del Righi, ci mettiamo nei panni dei protagonisti, e ci offendiamo al posto loro, come se l’offesa l’avessimo ricevuta noi. Ci offendiamo perfino per interposta persona, certe volte.
Questo accade perché ci siamo convinti di essere sempre quello che facciamo, e di essere solo quello; e quindi se attaccano quello che facciamo, attaccano anche noi. E invece c’è una distinzione: possiamo fare degli errori senza essere degli errori; possiamo dire delle cretinate senza essere necessariamente dei cretini; possiamo fallire in qualcosa senza essere necessariamente dei falliti. Non ce lo ricordiamo quasi mai, ma è così.
Quello che ho registrato e pubblicato
Ecco, come al solito, anche i video e i podcast della settimana.
Tutta la Rivoluzione francese e Napoleone in un’ora: un grande ripasso, per tirare le fila di cosa successe in Francia (e in Europa) tra il 1789 e il 1815
Come muoiono i filosofi (illuministi): continuiamo il nostro viaggio attraverso le morti eccellenti dei filosofi, soffermandoci sul Settecento, che fu un secolo per certi versi drammatico
Agricoltura e industria nel ‘500: la crescita demografica e l’aumento dei prezzi del XVI secolo ebbero effetti anche sul settore agricolo e produttivo; spieghiamo come
La filosofia di Saint-Simon: precursore del Positivismo e del Socialismo, Claude Henri de Saint-Simon fu un filosofo interessante e originale
Pirrone e lo scetticismo (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Spagna e Province Unite a metà ‘600 (per il podcast “Dentro alla storia”)
L’idea di Italia e di italiano nel Seicento (per il podcast “Dentro alla storia”)
Cosa c’è in arrivo
Chiudiamo anche questa settimana con l’elenco dei video in arrivo nei prossimi giorni:
già da domani inizierà una nuova serie di puntate sulla Guerra Fredda, in cui approfondiremo una delle pagine più decisive della storia contemporanea;
poi dovrebbero arrivare, sempre per storia, un nuovo video su Carlo Magno e uno su Traiano;
per quanto riguarda filosofia, arriverà invece presto una nuova puntata di Come muoiono i filosofi, in cui parleremo dell’Ottocento;
nei podcast, sarà infine la volta dello scetticismo dopo Pirrone e di una ulteriore panoramica sull’Italia del '600.
E questo è quanto. Alla prossima!