Sulle tecniche per studiare e ricordare in modo durevole, ma anche su Leopardi, Pitagora, Tommaso e Napoleone, sulle scene di 1899, Alien e Inside Job, sui libri di Zerocalcare e Kahneman
Cari amici, ben trovati. Siamo di nuovo qui, puntuali come ogni settimana, per parlare di storia e filosofia ma anche di libri, film e serie che si legano – a volte in modo anche piuttosto vago – a questi grandi temi.
L’autunno si sta facendo inoltrato, tra un mese è già Natale e tutto si sta in un certo senso intensificando. Lo vedo anche dai messaggi che, come sempre, mi arrivano dai fruitori virtuali delle mie lezioni: gli studenti preparano gli esami o le verifiche, noi insegnanti diamo il via ai nostri progetti più ambiziosi, perfino i Mondiali di calcio hanno deciso quest’anno di iniziare in questo strano periodo dell’anno (anche se su questi Mondiali, dal punto di vista sociale e politico, ci sarebbe molto da dire, e non sarebbero certo discorsi positivi).
Io questa settimana ho lavorato, si potrebbe dire, sia cercando di connettermi al passato che al futuro della scuola. Al passato perché ho continuato coi miei studenti ad andare nell’archivio del mio istituto e a recuperare vecchi documenti della scuola (tra cui ho ritrovato perfino un verbale di autogestione da me redatto quand’ero rappresentante di classe in prima superiore, nel lontano 1993); al futuro, perché ho partecipato e organizzato assieme a colleghi e studenti diverse iniziative per l’orientamento in ingresso, cioè per aiutare i ragazzi delle medie a capire se la nostra scuola è quella che fa per loro. Sono entrambe esperienze che ti spingono a pensare e a ripensare a cosa significhi fare scuola e a quali siano i pregi e i difetti del tuo specifico istituto.
Forse anche per questo motivo, come vedrete, questa settimana la riflessione si focalizza su argomenti connessi in qualche misura proprio all’istruzione, o meglio allo studio e all’apprendimento. Ma in lista ci sono anche serie TV interessanti e film che sono dei classici, libri che ci stiamo portando dietro da un po’ e nuovi fumetti; e poi, come sempre, tanto altro ancora. Buona lettura.
Quello che ho letto
Partiamo come ogni settimana dai libri. Dal titolo della newsletter forse avrete già notato l’ingresso, in lista, di uno dei volumi più venduti delle ultime settimane, l’ultimo lavoro di Zerocalcare. Ma andiamo con ordine.
Il buon soldato Sc’vèik di Jaroslav Hasek: stando ai miei appunti, ho cominciato a leggere questo corposo romanzo il 18 settembre scorso; e, nonostante non legga mai un solo libro alla volta ma ne porti avanti diversi, sono ormai più di due mesi che lo stupido e inetto (ma buono) soldato Sc’vèik mi fa compagnia. Devo dire che per la verità sono ormai quasi arrivato alla fine delle sue avventure, o meglio di quelle che sono raccolte nel volume che ho sottomano, e devo dire che finora lo stupido boemo non è ancora finito in prima linea a schivare pallottole, dovendo misurarsi soprattutto con le assurdità delle retrovie dell’esercito e della burocrazia austroungarica; ma forse è meglio così, perché sarebbe stato ben difficile fare satira e strappare una risata in mezzo ai corpi dilaniati da un mortaio o dal gas. Nonostante la trama diventi quindi, di tanto in tanto, un po’ ripetitiva, ci pensa però Hasek a ravvivare sempre il tutto, facendo sì che il suo protagonista incontri personaggi assai coloriti (spesso ufficiali stupidi o compagni d’armi cinici) o racconti qualcuna delle sue storielle di vita vissuta. Tra le ultime vicende di cui ho letto, c’è stato il ritorno di Sc’vèik al servizio del tenente Lukàš e una disavventura con una donna in Ungheria, donna che Lukàš stava corteggiando suscitando le ire del marito e del cui corteggiamento proprio Sc’vèik si è addossato la colpa. Il tutto in mezzo a sempre più evidenti tensioni etniche tra boemi, austriaci e ungheresi, che più che odiare i serbi, i russi o gli italiani si odiano tra loro. Vedremo, ancora una volta, come andrà a finire. Il volume completo con tutte le disavventure del soldato boemo lo potete acquistare qui.
No Sleep Till Shengal di Zerocalcare: come forse avrete sentito dai social network e dai giornali online, questa settimana è stata annunciata la nuova serie d’animazione di Zerocalcare per Netflix, dopo la fortunata Strappare lungo i bordi di pochi mesi fa. Si intitolerà Questo mondo non mi renderà cattivo e dovrebbe arrivare sulla piattaforma di streaming nel 2023. Ma non è della serie che intendo parlarvi, visto che se ne sa ben poco e che adesso siamo nella sezione libri: in effetti l’annuncio mi ha semplicemente riportato alla mente che non avevo ancora letto l’ultimo libro di Michele Rech, No Sleep Till Shenghal, uscito qualche settimana fa e da subito in testa a tutte le classifiche di vendita. Così, questa settimana mi sono messo a leggerlo e nel giro di pochi giorni sono rapidamente arrivato oltre la metà del volume (probabilmente nella prossima puntata della newsletter vi racconterò, se tutto andrà bene, che l’avrò concluso). Si tratta di un’opera che fa il paio con Kobane Calling del 2015, visto che l’autore romano racconta il suo ritorno in Medio Oriente per avvicinarsi e conoscere una delle tante cause dimenticate e oscure della zona. In questo caso specifico narra di un viaggio a Shengal, nel nord dell’Iraq, per incontrare la comunità degli ezidi (o yezidi, come forse sarebbe più corretto traslitterarne il nome), popolazione che può essere considerata curda ma che si riconosce in un credo religioso diverso da quello della maggior parte dei curdi e che tenta di costituirsi da tempo come una realtà politica parzialmente autonoma, pur riconoscendo il fragile stato iracheno. Lo stile del fumettista è quello solito: si alternano momenti fortemente autoironici a disamine della complessa situazione socio-politica e militare locale, il tutto con un parterre di personaggi ben tratteggiati. Devo ancora finirlo, come detto, quindi vi darò un giudizio completo sul valore del libro solo tra qualche giorno, ma intanto penso si possa dire che il fumetto colpisce nel segno nel tentare di unire narrazione, reportage giornalistico e divertimento, puntando i riflettori su una situazione di sicuro poco nota in Occidente. Se volete comprarlo, e credo ne valga la pena, lo trovate qui.
Make It Stick di di Peter C. Brown, Henry L. Roediger III e Mark A. McDaniel: vi ho cominciato a parlare di questo libro – disponibile solo in inglese – la settimana scorsa, e vi avevo promesso che avrei approfondito la lettura e che magari ne avrei pure parlato più diffusamente in una newsletter. Ebbene, questa newsletter è già arrivata: se scorrete fino alla sezione Quello che ho pensato trovate infatti una lunga riflessione sulla questione degli apprendimenti. D’altra parte, forse avrete anche notato che proprio ieri sera mi sono lanciato in una diretta su YouTube sostanzialmente sullo stesso argomento (anche se affrontandolo più dal punto di vista di come lavoro io). Insomma, la questione mi è cara: ovvero, mi interessa molto interrogarmi su come si possa fare a rendere più efficace lo studio, cioè su quali siano le tecniche migliori e meno dispersive non solo per memorizzare, ma anche per far propri e imparare a rielaborare i contenuti che si assorbono mediante lo studio. Nella diretta trovate, credo spiegate abbastanza diffusamente, le mie modalità, ma Make It Stick è interessante perché si erge ad un livello più alto e più scientifico, presentando tutta una serie di studi condotti dalla psicologia (soprattutto di stampo anglosassone) negli ultimi decenni. Credo che alcuni di questi risultati vadano contestualizzati e che non li si debba prendere sempre per oro colato, però qualche indicazione interessante ce la danno e vale la pena dunque di analizzarli per bene. Comunque sono ancora indietro, circa ad un quinto del volume, quindi avremo modo di ritornare ampiamente sul tema: intanto andatevi a leggere le riflessioni più avanti. Il libro lo si può comprare qui.
Quello che ho visto
Passiamo ora ai film e alle serie TV. La novità del momento è 1899, di cui forse avrete visto la pubblicità proprio su Netflix; ma anche gli altri titoli, questa settimana, mi sono piaciuti. In generale, è stata una settimana di scelte piuttosto fortunate.
Alien (1979), di Ridley Scott, con Sigourney Weaver, Yaphet Kotto, Veronica Cartwright: credo (spero) che la maggior parte di voi conosca già molto bene Alien, il capolavoro di Ridley Scott datato 1979 che ha dato origine a una fortunata serie di pellicole. Come spesso accade coi capolavori che hanno qualche anno sulle spalle, li vedi una volta o due da giovane e poi ti capita di non rivederli più; e così è stato per lungo tempo anche per Alien. Non a caso qualche sera fa, quando dovevamo scegliere un film da vedere in famiglia, abbiano iniziato a navigare tra le proposte dei vari servizi di streaming orientandoci all’inizio su film piuttosto recenti, nuovi o comunque usciti da poco. Poi però l’occhio mi è caduto per caso proprio su Alien (lo trovate su Disney+), e ho detto, rivolto ai miei figli: «Ma voi Alien non l’avete mica mai visto, no?» E così è diventato obbligatorio mostrarlo ai ragazzi, almeno ai più grandi (ai piccoli, per evitare incubi notturni, l’abbiamo risparmiato). Che dire? A distanza di tanti anni il film rimane un capolavoro: il ritmo è lento, sì, ma la tensione è sempre altissima; gli effetti speciali sono a tratti un po’ datati, ma l’alieno ha una forma che assolutamente non si dimentica; e poi gli attori sono tutti di straordinaria qualità, dalla quasi esordiente Sigourney Weaver (che su questo film costruì praticamente tutta la sua carriera a Hollywood) a Ian Holm. Non serve ribadire che se non l’avete mai visto dovete assolutamente recuperare, non solo perché si tratta di un ottimo film, ma anche perché c’è pure qualche (vago) spunto filosofico: ad esempio, potrebbe farvi riflettere sull’essenza della parola “vita” e sul suo rapporto con la morte (l’alieno vive per uccidere, in pratica), sulla moralità (è un fatto naturale o no? Si può essere intelligenti e privi di qualsiasi moralità?), volendo perfino sulla ricerca del profitto che prevale sulle vite umane. E poi, perché no, pure sulla solitudine: la nostra vita può essere letta come la vicenda di Ripley, una lotta per sopravvivere – spesso nascondendosi – contro un mostro feroce che ti nasce dentro e che vuole divorarti, un parassita che si nutre di te per svilupparsi e poi ammazzarti. L’alieno non è forse, in un certo senso, il nostro lato oscuro di cui non riusciamo mai a disfarci?
1899, episodio 1.01 (2022), di Baran bo Odar e Jantje Friese, con Emily Beecham, Andreas Pietschmann, Aneurin Barnard: quando, su Netflix, ho visto che era uscita 1899, la nuova serie dei creatori di Dark, mi son subito detto che avrei dovuto vederla tutta, in fretta; poi però, devo ammetterlo, la settimana è stata più piena del previsto e quindi finora sono riuscito a guardare solo il primo episodio, ma spero di rimediare quanto prima. Intanto ci si può comunque fidare sulla fiducia: Dark, per quanto complessa e a tratti perfino astrusa, è stata sicuramente una delle serie più belle ed emozionanti degli ultimi anni, anche e soprattutto per il suo retrogusto fisico-filosofico, tra viaggi nel tempo, eterno ritorno dell’uguale e un po’ di finto cospirazionismo. Questa nuova serie sembra riprenderne alcuni temi: ad esempio, fin dal primo episodio si gioca ancora sui forti simbolismi, visto che compaiono sulla scena molti numeri (le cabine della nave, lo stesso anno di ambientazione, altro ancora) e un triangolo/piramide, cosa che fa addirittura pensare a qualche elemento di matrice pitagorica. Ma, per esperienza, è presto per decriptare gli indizi di Baran bo Odar e Jantje Friese, che forse si riveleranno un po’ alla volta e si chiariranno completamente solo nel finale. La trama, per ora, verte su un viaggio in Transatlantico e sul ritrovamento, da parte di questi viaggiatori, di una nave scomparsa da diversi mesi in mezzo all’Oceano: dopo l’avvistamento del Prometheus (nome che tra l’altro, per pura coincidenza, richiama un altro film di Ridley Scott), alcuni membri dell’equipaggio della nave in viaggio decidono di avventurarsi al suo interno, trovando però cose diverse da quelle che si aspettavano.
Inside Job, episodi 1.01-1.02 (2021), di Shion Takeuchi: questa serie a cartoni animati, ve lo confesso, l’ho scoperta per puro caso: ero su Netflix proprio per guardarmi 1899 e il canale di streaming mi ha invece fatto partire – come accade di solito se tardi a cliccare da qualche parte – il trailer di questo cartone animato di cui non avevo mai sentito parlare ma di cui è appena uscita la seconda stagione. Quel trailer mi è piaciuto e mi sono detto: diamogli una possibilità. Ovviamente ho cominciato dalla prima stagione, sorbendomi rapidamente i primi due episodi dello show. Si tratta di un cartone per adulti, comico, in cui il linguaggio scivola spesso nel turpiloquio e dal tono in generale piuttosto dissacrante. La trama, per la verità, sembra presa di peso da un vecchio fumetto di Martin Mystère o della sua costola Zona X: la protagonista è infatti una giovane e geniale scienziata che lavora in un dipartimento segreto, negli Stati Uniti, che ha come solo scopo quello di organizzare complotti, di nascondere la verità al grande pubblico e di manovrare nell’ombra il potere politico. Insomma, tutto quello che i complottisti sostengono da tempo in questo cartone diviene realtà, con esiti ovviamente divertenti e sarcastici. A me i primi due episodi sono piaciuti parecchio (riesumano e poi riuccidono anche Kennedy, per dire), poi bisognerà vedere se la trama reggerà nel lungo periodo. Intanto, se vi piace il genere, dateci un’occhiata.
Quello che ho pensato
Uno dei problemi più rilevanti a scuola – ne parlavamo di striscio anche la settimana scorsa, discutendo in realtà di altre cose – è quello del cosiddetto metodo di studio. Fin dalla scuola primaria si cerca di spiegare ai giovani scolari come studiare e come apprendere, in modo che acquisiscano un metodo solido e sicuro; e anche alla scuola secondaria, soprattutto in quella inferiore, gli insegnanti si ingegnano per trasmettere questa fondamentale competenza ai loro alunni, in modo che possano farne buon uso negli anni successivi, sia a scuola che al di fuori della scuola. Perché, come si può facilmente intuire, un buon metodo di apprendimento non serve solo alle superiori o all’università, ma spesso anche sul posto di lavoro o perfino a casa, soprattutto in quest’epoca in cui la formazione continua sta diventando sempre più importante.
Il problema, casomai, è che questo metodo di studio non viene sempre appreso, o almeno non viene appreso nel modo migliore, più efficace. Io insegno negli ultimi anni delle superiori e mi trovo costantemente di fronte ragazzi che hanno acquisito ormai un metodo solido ma anche altri che non sanno ancora come devono studiare (cosa che li manda spesso in crisi). Altri, e sono molti, hanno anche un metodo che utilizzano con una certa costanza, ma che è in realtà spesso inefficace, tanto che studiano (a sentir loro) decine di ore argomenti che, a mio avviso, dovrebbero richiedere meno tempo. E questo limitandomi solo ai miei studenti: se poi devo allargare il campo a tutti quelli che mi seguono su YouTube o sui podcast e di tanto in tanto mi scrivono, devo dire che il problema del metodo di studio è sentito da moltissime persone, anche con storie scolastiche e professionali molto diverse tra loro.
In realtà poi i miei studenti, un po’ alla volta, un certo metodo lo acquisiscono, anche per necessità: se non vogliono morire sotto al carico di lavoro, ad un certo punto – sia alla fine del liceo o all’inizio dell’università – imparano più o meno ad ottimizzare i tempi e a gestire in maniera diversa il carico di lavoro. Ma le differenze in questa particolare competenza si notano parecchio e hanno spesso lunghe conseguenze anche sull’autostima degli studenti, sul loro stress, sul loro rapporto con la scuola. Un ragazzo con un cattivo metodo di studio, per dirla più chiaramente, fa più fatica, si stressa di più ed ottiene a volte risultati al di sotto delle sue aspettative; tutti fattori che possono renderlo sfiduciato e svogliato.
Come mai, però, i ragazzi fanno a volte fatica ad acquisire un buon metodo di studio? Credo che alla base di questo problema ci sia il fatto che in molti casi lo studio, nel nostro sistema scolastico, sia considerata una competenza che va sviluppata da soli, a casa. I compiti si fanno a casa, ci si prepara per le interrogazioni a casa e così fin dalle elementari il metodo di studio lo si acquisisce da soli, a casa, o al massimo col supporto dei genitori o dell’insegnante del doposcuola. E questi ultimi, in vari casi, non sono degli specialisti e finiscono così per trasmettere ai ragazzi convinzioni sbagliate.
Se ne parla anche in Make It Stick, il libro di cui vi ho parlato sia la settimana scorsa che in questa, volume che raccoglie tutta una serie di interessanti risultati che emergono dalle ricerche di diversi studiosi dell’argomento. Uno dei punti su cui i tre autori insistono di più, infatti, è che gli studenti (loro pensano a quelli anglosassoni, ma con qualche aggiustamento i loro ragionamenti probabilmente possono valere anche in Italia) studiano male, cioè in maniera passiva e dispersiva, e così fanno una gran fatica per apprendere ed imparare cose che potrebbero acquisire in modo più semplice.
Gli autori fanno diverse analisi e suggeriscono varie strategie, ma se dovessi fare una sintesi estrema direi che quello che conta, quando si apprende, è essere attivi. Siamo abituati, spesso, a insegnare ai bambini che per studiare bisogna soprattutto ripetere, in modo il più fedele possibile al libro; ebbene, in realtà i dati ci dicono che questo è il modo meno efficiente per apprendere. Ovvero: si fa una gran fatica, e dopo pochi giorni si comincia a dimenticare piuttosto facilmente quello che si è studiato.
Gli esperimenti cognitivi, invece, suggeriscono di operare in maniera diversa, facendo lavorare di più il cervello, volendo anche le mani. Ad esempio, che invece di ripetere pedissequamente quello che si è letto sarebbe più utile provare a riscriverlo con parole proprie. Che invece di leggere e sottolineare, sarebbe più utile fare uno schema partendo da zero, in cui si spostano i pezzi del discorso e si creano anche visivamente i collegamenti. Che invece di ascoltare la lezione e basta, sarebbe meglio appuntarsi – durante la spiegazione – tutte le possibili domande che vengono in mente e poi al termine della spiegazione provare a rispondere.
Insomma, l’idea è che si debba mettere da parte l’approccio passivo, dello studente che riceve le informazioni e poi le ripete più o meno uguali a come le ha ricevute, e passare invece ad un approccio attivo, in cui lo studente si mette più facilmente in gioco, ovviamente rischiando anche di sbagliare ma attivando immediatamente i suoi neuroni. Un numero incredibile di esperimenti, citati ampiamente in Make It Stick, dimostra che quando si riesce a fare qualcosa del genere, le informazioni e le competenze rimangono impresse più a lungo nella mente.
Sì perché anche chi legge e ripete può andare benissimo nei test o nelle verifiche (anche se probabilmente tende a faticare di più per ottenere gli stessi risultati). Il problema pare essere, però, che tende anche a dimenticare molto in fretta. Finché non si rielaborano le informazioni, queste ci rimangono in qualche modo estranee: le ricordiamo fintantoché ci servono per superare la prova del giorno, e poi il nostro cervello le mette da parte. Non sono mai diventate sue: sono state solo cose da ricordare per un po’ ma che rimangono esterne, di qualcun altro. Se invece in qualche misura abbiamo faticato per renderle nostre, quelle informazioni tendono a durare di più, a diventare davvero nostre.
Questo, devo dire, conferma con dati accademici quello che bene o male ho appreso anch’io in questi anni sullo studio. Per molto tempo i miei compagni e colleghi mi hanno considerato prima un ragazzo e poi un uomo con una buona, se non ottima, memoria; uno studioso di buon livello anche e soprattutto per via della mia presunta abilità nello studio. In realtà, non ho mai fatto nulla di trascendentale e non credo di avere chissà quale prodigiosa memoria: semplicemente un po’ alla volta ho scoperto sulla mia pelle quello che dice anche Make It Stick, e lo applico, magari senza neppure troppa consapevolezza.
Ne ho provato un po’ a parlare anche nel video live che troverete linkato qui di seguito, nella sezione Quello che ho registrato e pubblicato, nella prima di una serie di dirette che ho intenzione di dedicare al mio metodo di lavoro e di insegnamento. Per me, rielaborare – cioè riscrivere i concetti con parole mie e riorganizzarli in modo diverso da come li ho appresi – è la normalità, lo do per scontato, e così negli anni sono riuscito a “trattenere” probabilmente più informazioni e a sviluppare più competenze di altri.
Quando leggo un libro – e intendo non un manuale, ma un libro di saggistica o di svago – sottolineo spesso delle parti, ricorro anch’io a quell’arte un po’ passiva che è quella della sottolineatura. Ma lo faccio non perché penso che sottolineare esaurisca il mio lavoro: tutt’altro. Sottolineare è solo un promemoria per dirmi: «Attento, perché qui c’è una parte importante che poi devi rielaborare, riscrivere, ristrutturare». Rimango sempre un po’ stupito quando vedo colleghi preparare le lezioni leggendo il libro e sottolineandolo, e non facendo nulla più di questo. Bravi loro, ma io, se non riscrivo tutto con parole mie, non ricordo niente. Ed è così da quando facevo il liceo.
Tutto questo però, a ben guardare, si può applicare anche al di fuori del mero ambito scolastico. Come si acquisisce, ad esempio, un buon linguaggio? Semplicemente ascoltando persone che parlano bene? Sì e no: quello è il punto di partenza. Ma poi quel “buon linguaggio” bisogna anche usarlo: bisogna scrivere, parlare, provare a infilare da qualche parte quella parola nuova che abbiamo sentito. Con l’insegnamento viene piuttosto facile: i filosofi o gli storici usano termini specifici che poi in qualche modo devi usare anche tu, in mezzo alla tua rielaborazione. È come se spontaneamente fossi spinto a fare un esercizio, utilissimo, del tipo: «Hai imparato una parola nuova? Ora usala in cinque frasi diverse, da te inventate». Un po’ alla volta le parole nuove entrano a far parte del tuo vocabolario, e sono tue non perché tu le hai sentite o lette, ma perché hai imparato ad usarle.
È lo stesso anche nello studio delle lingue, se ci pensate bene. Ascoltare all’infinito qualcuno che parla in una lingua straniera, di per sé, non vi rende capaci di comunicare. Certo, male non fa, ma ci sono mezzi più rapidi per imparare un nuovo idioma: ad esempio sforzarsi di parlarlo, facendo errori e venendo continuamente corretti.
Anzi, chiuderei proprio su questo che è uno dei temi che in parte abbiamo già affrontato la settimana scorsa: l’errore. Gli autori di Make It Stick ci insistono parecchio: le conoscenze e le competenze che tendono a rimanere più impresse negli studenti sono quelle su cui gli studenti stessi hanno commesso degli errori.
Facciamo un esempio, che cito a memoria (e quindi forse con qualche piccola imprecisione) dal libro. Poniamo che voi siate un insegnante che ha preparato una lezione della durata di due ore. Parlate e parlate, mentre i vostri studenti un po’ vi ascoltano, un po’ dormono, un po’ prendono appunti. Solo che, alla fine delle due ore, a sorpresa, chiediate agli studenti di svolgere subito un test su quello che avete detto durante la lezione. Poi il test viene corretto assieme e ai ragazzi viene mostrato dove hanno eventualmente sbagliato.
Poniamo che passi qualche settimana e un giorno, anche questa volta senza preavviso, chiediate ai ragazzi di rifare il test di tre o quattro settimane prima, con le stesse identiche domande. Verrebbe logico pensare che le risposte date correttamente la prima volta siano quelle che più facilmente continuano ad essere esatte anche la seconda volta; e invece no. Il risultato sorprendente di questi test è che le risposte che la prima volta si sono sbagliate sono quelle che tendono ad essere più spesso esatte la seconda volta. I ricercatori danno questa spiegazione: quando sbagliamo l’errore ci rimane molto più impresso. Siamo portati, istintivamente, a dare più peso proprio agli errori; così il nostro cervello tende più facilmente a ricordarli, in modo da non incappare per due volte nella stessa svista. Alle cose esatte, invece, tendiamo a dare meno importanza.
Il che vuol dire che, dal punto di vista degli apprendimenti, sbagliare fa bene. Sbagliare aiuta la memoria. Sbagliare porta ad acquisire più facilmente le competenze. Uno dei consigli che danno i ricercatori di Make It Stick è: fate fare spesso verifiche agli studenti. Non è un male che le sbaglino o che commettano errori; anzi, può essere un bene. Più verifiche si fanno – verifiche che, d’altra parte, chiedono al cervello di attivarsi per ricordare, di rielaborare –, più è facile che i contenuti rimangano impressi. Certo, questo implicherebbe un aumento netto dello stress per gli studenti, perennemente sottoposti a esami e prove; ma in realtà il loro apprendimento ne gioverebbe.
Dicevamo l’altra volta che dovremmo abituarci a sopportare un po’ meglio gli errori e le cadute; e che anzi errori e cadute sono tappe necessarie di ogni momento di crescita. Forse lo sono anche dell’apprendimento, perfino dal punto di vista cognitivo: fare verifiche e sbagliarle è uno dei modi più efficaci per imparare qualcosa.
Se noi riuscissimo a sopportare gli esiti infelici di qualche prova e anzi a sfruttarli per imparare davvero, diventeremmo non solo persone che sanno superare i propri errori, ma persone che sanno in generale, e molto, e bene, senza neppure troppa fatica. Sudiamo per non commettere mai errori, ma se accettassimo l’errore faremmo lo stesso cammino con minor fatica.
Serve, forse, un certo tipo di scatto mentale per cambiare prospettiva e iniziare a volere l’errore invece del successo immediato. Ma è uno scatto mentale che prima o poi può essere utile cominciare a fare.
Quello che ho registrato e pubblicato
Questa settimana avete seguito con attenzione quanto veniva pubblicato sul canale YouTube o sulle pagine dei podcast? Se vi siete persi qualcosa, siete nel posto giusto per recuperarlo. Ecco tutto quello che ho realizzato negli scorsi sette giorni.
Il pensiero di Leopardi: il pessimismo eroico: il breve (ma intenso) percorso su Giacomo Leopardi giunge a compimento, con la lezione sull’ultima fase della sua riflessione
Come sottolineare e prendere appunti dai libri: il mio metodo: una diretta che volevo fare da molto tempo era quella sul mio particolare modo di prendere appunti
Pitagora: anima e metempsicosi [Filosofia per ragazzi 4]: se avete un figlio o una figlia che fa le scuole medie o la fine delle elementari, forse questo può interessarvi
L'autunno del Medioevo - Audiolibro spiegato parte 12: una delle puntate più interessanti di questo audiolibro, dedicata all’idea di morte nel tardo Medioevo
L’estetica di San Tommaso (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Averroismo e tomismo nel Duecento (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Napoleone imperatore (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono i nuovi abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri e videocorsi che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Pensieri lenti e veloci di Daniel Kahneman: questa settimana, nella chat Telegram riservata agli iscritti dal livello Voltaire in su di YouTube, tra le altre cose è venuto fuori questo libro, un volume non troppo vecchio che è però già un classico nell’ambito della psicologia. Kahneman, l’autore, l’ha pubblicato nel 2011, condensando tutta una serie di risultati ottenuti in anni di studi, risultati che qualche anno prima l’avevano pure portato a vincere il Nobel per l’economia. Se vi state chiedendo cosa c’entri la psicologia con l’economia, vi basti sapere che il tema del libro è l’analisi di come prendiamo decisioni, o meglio di quali ragionamenti e intuizioni (e non solo) mettiamo in campo quando dobbiamo scegliere. Cose cioè rilevantissime quando si tratta, ad esempio, di decidere come investire i propri soldi. Bisogna però anche dire che le analisi di Kahnemann suscitano (e stanno suscitando anche in questi anni, soprattutto nell’ambiente anglosassone) interessanti quesiti filosofici. Vale quindi la pena di leggere questo libro, se non lo avete già fatto. Lo trovate, a poco più di 15 euro, qui.
Sketchnoting: comunica con note visive: quando prendiamo appunti, spesso, scarabocchiamo, facciamo frecce, decoriamo il tutto con faccine. Di solito, queste operazioni vengono fatte un po’ a caso, alla meno peggio; ma pensate a come sarebbe comunicare delle idee a qualcun altro sfruttando questa abilità visiva. Ebbene, esistono corsi che vi insegnano a farlo al meglio, come questo proposto da Domestika e tenuto da Eva-Lotte Lamm: si tratta di un cammino in 23 lezioni per un costo totale di 14,90 euro che vale la pena di provare. Lo potete comprare qui.
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né fare corsi, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Cosa c’è in arrivo
Concludiamo anche con una veloce panoramica di cosa dovrebbe uscire nei prossimi giorni (tempo permettendo):
aspettatevi intanto la seconda puntata della storia dell’Iran contemporaneo, dedicata alla rivoluzione di Khomeyni;
dopodiché dovrebbe arrivare un video a lungo richiesto, quello sul secondo Heidegger, dopo la famosa svolta;
dovrei poi riuscire a fare, se tutto va bene, anche un video storico sulla crisi economica del 2007;
infine, riprenderò finalmente anche a pubblicare video di storia romana;
per quanto riguarda i podcast, invece, spazio ancora a Napoleone ormai padrone dell’Europa e, in filosofia, a Ruggero Bacone.
E questo è tutto, gente. Ci vediamo tra una settimana: siate puntuali e, se questa newsletter vi è piaciuta, non esitate a inoltrarla a qualche persona cara. Ciao!
Volevo commentare a
Leggo sul sito di Ferretti , un insegnante di filosofia al liceo
" Dicevamo l’altra volta che dovremmo abituarci a sopportare un po’ meglio gli errori e le cadute; e che anzi errori e cadute sono tappe necessarie di ogni momento di crescita. Forse lo sono anche dell’apprendimento, perfino dal punto di vista cognitivo: fare verifiche e sbagliarle è uno dei modi più efficaci per imparare qualcosa.
Se noi riuscissimo a sopportare gli esiti infelici di qualche prova e anzi a sfruttarli per imparare davvero, diventeremmo non solo persone che sanno superare i propri errori, ma persone che sanno in generale, e molto, e bene, senza neppure troppa fatica. Sudiamo per non commettere mai errori, ma se accettassimo l’errore faremmo lo stesso cammino con minor fatica."
No !!!!!!!!!! Io non sopporto gli errori , non li tollero .
Non per una visione aziendalistica ,
ma perche´ sono insofferente all errore , ne soffro .
Lo scopo del fare e´ fare le cose bene ,
si puo´ sbagliare , ma se succede a me
io non lo accetto .
Se qualcuno vuole commentare ´ bene acctto ,
tranne che commenti del tipo
"cerca uno bravo !"
Se qualcuno vuole commenta