Cosa ho imparato dal Festival di Sanremo, ma anche da La favorita, la guerra Israele-Hamas, Le follie dell'imperatore, Fast and Furious, Guglielmo di Ockham, Karl Popper, Geopop ed Eugenio Radin
E quindi il Festival di Sanremo è finito, e ha portato con sé il suo ormai consueto carico di polemiche, di meme, di odii reciproci. Tutto mentre qui in Veneto si festeggia il Carnevale (siamo infatti a casa da scuola per tre giorni, fino a mercoledì compreso) e alunni e figli cominciano a prepararsi ai viaggi di istruzione. Un normale, incasinato febbraio, insomma.
Nella newsletter di questa settimana, come se non bastasse, mi ci metto però pure io a rimarcare la dose: vi parlerò di libri tra loro molto diversi, di film altrettanto diversi, e pure quando mi addentrerò su Sanremo vedrete che mescolerò un po’ gli argomenti. Perdonatemi già fin d’ora, ma, come detto, c’erano troppe cose diverse da dire, e il momento giusto per dirle era questo.
Un’ultima cosa, prima di cominciare. Se mi seguite su Instagram (il mio account è qui), forse sapete che questa settimana ho cominciato a fare una cosa nuova con le storie: ho iniziato a metter fuori, lì, dei piccoli sondaggi sui filosofi. Sono un po’ stupidi, lo so, ma sono un modo per capire, volta per volta, come la pensate, quali pensatori vi piacciono o vi appassionano di più. Questi sondaggi ci faranno compagnia per qualche tempo, e poi alla fine vi comunicherò tutti gli esiti, magari facendoci qualche ragionamento sopra. Insomma, se siete su Instagram è il momento giusto per partecipare.
E ora cominciamo con il solito menù.
Quello che ho letto
Un libro finito, uno proseguito, uno iniziato: l’elenco delle letture di questa settimana è, come detto, piuttosto variegato.
Argomentare, Watson! di Eugenio Radin: a proposito di social network, forse, se bazzicate proprio su Instagram, seguite anche Eugenio Radin, anche se può darsi non sappiate che è lui. Eugenio, infatti, su quel social network è noto come whitewhalecafe: qualche mese fa, tra le altre cose, mi ha anche ospitato per una chiacchierata sul suo canale. Ebbene, da pochi giorni è uscito il primo libro di Radin, Argomentare, Watson!, che sto leggendo avidamente: si tratta di una sorta di manuale di argomentazione, o, meglio, di un libro che ti spiega come non argomentare. Radin, infatti, ha selezionato una serie di fallacie molto usate, purtroppo, nel dibattito pubblico, e ha deciso di presentarle al pubblico in un modo molto originale: invece di lanciarsi in tecnicismi, ha scelto di far emergere il senso di quelle fallacie tramite piccole storie che hanno Sherlock Holmes per protagonista. Le fallacie logiche e argomentative, infatti, compaiono non solo quando qualcuno cerca di convincerci (in modo fraudolento) della bontà delle sue idee, ma anche quando qualcuno cerca di far cadere la colpa su qualcun altro. Così, il libro continua ad essere un manuale senza però la noia del manuale, rivestendosi con toni da romanzo giallo. E in più si legge in fretta: in pochi giorni intensi, sono già oltre i tre quarti del volume. Ve ne parlerò ancora; intanto, se vi interessa, lo trovate qui.
Un tesoro al piano Terra di Andrea Moccia: può darsi, anzi è probabile, che Andrea Moccia lo conosciate meglio di me: il fondatore e principale volto di Geopop è ormai un personaggio arcinoto, a diversi livelli, e proprio questa settimana mi è capitato di vederlo ospite perfino dai The Jackal nei loro video su Sanremo (con il mio terzo figlio che, vedendolo sullo schermo del computer, mi ha detto: «Ah, ma lo conosci anche tu? Io lo vedo sempre a scuola nell’ora di scienze»). Il suo canale a dire il vero non l’ho mai frequentato troppo sul web, soprattutto perché la geologia non mi ha mai affascinato; ma in realtà Geopop ormai si occupa di scienza a tutto tondo, toccando i temi più disparati, e lo fa piuttosto bene. Un tesoro al piano Terra è il primo libro che Moccia ha pubblicato, ancora nel 2021: un libro che ha venduto molto e che è stato ancora più apprezzato; basti dire, in questo senso, che su Amazon vanta al momento più di 1.500 valutazioni e la media voto è addirittura di 4,8, un valore che, su un numero così alto di recensioni, non credo d’aver mai visto. L’ho letto solo ora, ma, com’era prevedibile, l’ho trovato bello anch’io (scusate, non sono molto originale): certo, se siete esperti di geologia o comunque vi interessate di scienze potrebbe non rivelarvi nulla di troppo nuovo, ma il suo intento di divulgazione è pienamente raggiunto. Moccia sa parlare in modo sintetico ma chiaro ed efficace di tutti i problemi connessi allo sfruttamento del suolo e di ciò che vi sta sotto, anche con un tono spesso ironico, cosa che non guasta mai. A me, poi, ha fatto piacere anche la capacità di presentare il collegamento che da sempre esiste, e che è forte ma spesso trascurato, tra risorse naturali e politica internazionale. Il libro, se siete tra i pochi che non l’hanno ancora letto, lo potete comprare qui.
L’utilità dell’inutile di Nuccio Ordine: vi ho già anticipato qualcosa, nelle settimane scorse, su questo libro di qualche anno fa dello studioso di letteratura Nuccio Ordine; un libro che a suo tempo ebbe un grande successo e in cui si sostiene che quello che solitamente viene ritenuto inutile (la letteratura, la poesia, l’arte, la filosofia) è in realtà la cosa più importante e forse più utile che ci sia. Ora, per quanto ci si possa far catturare dalle pagine di uno studioso che di sicuro ama ciò di cui parla, mi pare in realtà che in questo caso – come in altri casi simili – ci sia un equivoco di fondo. Ordine, infatti, parte dalla distinzione tra ciò che è solitamente considerato utile e ciò che è solitamente considerato inutile, e la pone su base economica: la sua accusa, infatti, è quella secondo cui la nostra società odierna riterrebbe utile solo ciò che dà profitto, che alimenta il mercato, e inutile tutto il resto. Dunque, ad esempio, gli studi utili sarebbero quelli ingegneristici, medici, tecnici, perché immediatamente spendibili sul mercato del lavoro, mentre gli studi letterari e artistici sarebbero considerati inutili. Se è vero che a volte questo mantra si sente in bocca ai politici o ai commentatori un po’ superficiali, non dobbiamo però a mio avviso anche noi cadere in questa dicotomia sterile. Il confine tra un campo e l’altro, infatti, è molto meno netto di quanto sembri: uno studente che studia fisica, ad esempio, andrà incontro ad applicazioni tecniche delle varie leggi ma incapperà anche in teorizzazioni astratte; così come chi studia filosofia ne abbraccerà la speculazione pura, ma anche i suoi lati applicativi (la filosofia politica non è forse un tentativo, concretissimo e utile, di vivere meglio e di regolare meglio i rapporti tra gli uomini?). Mi è sempre piaciuto, in questo senso, il titolo di un vecchio libro di Nick Hornby, Shakespeare scriveva per soldi (se v’interessa, lo trovate qui): perché Ordine ci cita uno Shakespeare interessato alla bellezza e all’arte, ma in realtà il bardo inglese non disdegnava affatto di venir pagato per le sue opere. L’arte per l’arte esiste solo nelle fantasie di artisti che sperano, in questo modo, di nobilitarsi: ogni arte è figlia di un qualche interesse, sia esso il denaro, il potere, la stima, il ruolo sociale. Dice Ordine, giustamente, che Kant ha teorizzato il bello libero dal possesso, cioè che per il filosofo tedesco è bello solo quello che non vogliamo possedere, perché quando entra in gioco l’avidità non siamo più davanti a qualcosa di veramente artistico; e io penso però che Kant si sbagliasse, e potesse sostenere questa cosa solo perché era un intellettuale benestante che viveva lontano dal mondo vero: perché un paesaggio ci pare bello non tanto perché non possiamo possederlo, quanto piuttosto perché lo possediamo già. Un paesaggio, quando lo guardiamo, diventa nostro, ed è solo in quel “nostro” che possiamo misurare la sua eventuale bellezza. Segno ulteriore che lo spirito e la carne, le alte vette della poesia e i biechi meccanismi della tecnica sono distanti solo nella mente di qualche teorizzatore (che tenta, non a caso, di difendere l’utilità, in fondo, delle sue idee) e non nel mondo in cui viviamo davvero. Insomma, il difetto del libro di Ordine è che trasuda filosofia crociana in ogni poro, e forse sarebbe ora, in Italia, di andare anche un po’ oltre Croce, visto che nel resto del mondo lo si è fatto da almeno un secolo. Il libro comunque è stimolante, e dotto, e se vi interessa può essere acquistato qui.
Quello che ho visto
Passiamo ora ai film, con una serie di pellicole non recentissime, ma a loro modo oramai dei classici.
Le follie dell’imperatore (2000), di Mark Dindal: a casa mia – ma credo che in realtà il sentimento sia simile un po’ in tutte le case – i film Disney che sono considerati dei veri “classici” sono pochi: i primissimi, come Biancaneve, Pinocchio, Dumbo eccetera; quelli degli anni '50 e '60, come Cenerentola, La bella addormentata, La spada nella roccia, prolungandosi al massimo fino a Gli Aristogatti e Robin Hood; e poi quelli del Rinascimento, come La sirenetta, Aladdin, Il re leone. Tutti gli altri o sono considerati bruttini, oppure – come nel caso di Rapunzel, Frozen o Oceania – sono (relativamente) troppo recenti per assurgere al rango di classico. Poi però si scorre la lista di quei film che la Disney cataloga come “classici” (la potete trovare ad esempio qui) e ci si accorge che qualcosa di valido, anche al di fuori di questa classificazione, in effetti c’è. Ad esempio, pensate a Le follie dell’imperatore, che ho rivisto, dopo un po’ di tempo, proprio in questi giorni. È un film che viene citato poco, che anche a suo tempo al botteghino fu un mezzo flop; eppure, a rivederlo, risulta ancora divertente e riuscito. La storia forse la conoscete: al tempo degli inca il viziato imperatore Kuzco viene trasformato dalla sua ex consigliera in un lama; cercando di riconquistare la sua forma umana trova l’aiuto di Pacha, un contadino di buon cuore, nonostante i due incappino in diverse situazioni problematiche, fino a riprendere il potere e, soprattutto, a superare il proprio egoismo. Forse l’intento edificante del film è fin troppo esplicito e la morale abbastanza scontata, ma le gag funzionano e la pellicola, soprattutto se mostrata ad un pubblico di bambini (io l’ho riguardata col quarto figlio, di 8 anni), colpisce ancora nel segno. Se vi interessa, la trovate su Disney+.
La favorita (2018), di Yorgos Lanthimos, con Olivia Colman, Emma Stone, Rachel Weisz: nonostante i molti inviti a vederlo, non sono ancora riuscito ad andare al cinema per Povere creature!, e credo ormai di essermi bruciato l’occasione; ma, come ho detto anche altre volte, quando c’è scuola (e ci sono le partite dei figli) è per me molto difficile trovare il tempo di prendere la macchina e andare fino al centro commerciale (l’unico posto qui a Rovigo, ormai, dove si possono vedere i film in prima visione), incastrando gli impegni miei, della moglie ed eventualmente di chiunque altro voglia venire con noi. Così in genere aspettiamo che il film arrivi in TV, magari tramite una qualche piattaforma di streaming, per gustarcelo con calma; e però per fortuna si possono spesso recuperare almeno i lavori precedenti dell’autore che adesso va per la maggiore. Così è anche per il greco Yorgos Lanthimos, di cui è disponibile, sia su Netflix che su Disney+, La favorita, il bel film del 2018 che vinse a suo tempo diversi premi in tutto il mondo grazie anche all’ottima interpretazione delle sue tre protagoniste femminili, Olivia Colman, Emma Stone e Rachel Weisz. La trama, tra l’altro, ha uno sfondo storico, anche se è resa sui toni del grottesco: nell’Inghilterra del 1708 la giovane Abigail Hill arriva al palazzo reale, contando sul fatto di essere cugina di Lady Marlborough, principale consigliera della regina Anna, dalla quale spera di avere qualche aiuto; in realtà all’inizio viene messa a fare la sguattera, ma un po’ alla volta impara a muoversi con abilità dentro al palazzo e a farsi ben volere prima dalla cugina e poi dalla regina stessa. Gli intrighi, però, sono all’ordine del giorno e Abigail comincia a diventare ambiziosa, pensando di poter fare le scarpe a Lady Marlborough, che tra l’altro deve il suo potere al fatto di essere l’amante della sovrana. Non vi dico come il film va a finire, perché merita di essere visto e gustato scena per scena; in generale però posso dirvi che la pellicola mostra bene il talento di Lanthimos, uno specialista nel far emergere il lato assurdo, tragico e allo stesso tempo umoristico dell’esistenza, spesso usando a questo scopo anche degli interessanti personaggi femminili. Come detto, le tre interpreti in questo caso sono poi una più brava dell’altra.
Fast and Furious (2001), di Rob Cohen, con Paul Walker, Vin Diesel, Jordana Brewster: il franchise di Fast and Furious è ormai ampio: negli anni sono usciti – se non mi sono perso qualcosa per strada – almeno dieci film della serie principale, senza contare spin-off, cortometraggi, serie a cartoni animati. Tutto ha però preso avvio più di vent’anni fa, nel 2001, quando al cinema uscì il primo Fast and Furious, che già mostrava tutti gli elementi caratteristici della saga: gare clandestine, inseguimenti mozzafiato, doppiogiochisti, a cui si aggiungeva un po’ della retorica all’insegna dell’«onore tra ladri» o qualcosa di simile. In più, c’erano anche alcuni degli interpreti più importanti della saga, in primis Vin Diesel e Paul Walker. A rivedere il film oggi, a tanti anni di distanza, si notano la trama abbastanza stereotipata e un uso forse esagerato del rallentatore, oltre a qualche eccesso di fantasia; ma sicuramente per gli amanti delle automobili e delle corse rimane un film godibile, divertente e adrenalinico al punto giusto. Certo, Vin Diesel ha una sola espressione facciale, sempre la stessa, ma se messo nel giusto ruolo questa incapacità di mutare il proprio volto può diventare un vantaggio; e il povero Walker era lì al massimo della forma. A quanto mi risulta, il film lo potete tra l’altro trovare al momento su svariate piattaforme: Netflix, Prime Video, Now, Infinity. C’è solo l’imbarazzo della scelta.
Quello che ho pensato
Avete visto tutte le puntate del Festival di Sanremo? E siete contenti dell’esito finale, con la vittoria di Angelina Mango? Io no. Non intendo che non sono contento dell’esito; io non ho proprio visto le puntate del Festival.
Con Sanremo, infatti, ho un rapporto abbastanza conflittuale. L’ho guardato – come più o meno tutti quelli della mia generazione – spesso da bambino, poi l’ho completamente rifiutato da adolescente e giovane adulto, e ho ricominciato a vederlo (ma senza troppa continuità) da quando ho dei figli.
E però quest’anno l’ho completamente snobbato, non perché avessi davvero deciso di farlo: la prima sera mi sono completamente scordato che ci fosse; la seconda, avevo già programmato il Club del Libro con gli abbonati del canale; la terza sono arrivato a sera stremato per le troppe cose da fare e non ne ho avuta voglia; la quarta ho provato a guardarne quasi una metà, ma erano i duetti, e così non ho sentito nessuna delle canzoni in gara; la quinta e ultima l’ho affrontata tornando dalla partita di calcio a 5 di mia figlia, e anche lì con scarsa attenzione. Mi sono svegliato giusto per il finale, attorno alle 2 del mattino.
Alla fine dei conti, non saprei cantarvi neppure una delle canzoni in concorso, neppure per il ritornello, anche se le prime tre le ho almeno sentite; e però devo dire che è una circostanza, questa, che tendeva a capitarmi anche gli anni scorsi. Magari gli altri anni c’era un brano più simpatico degli altri, che mi rimaneva un po’ in mente; ma molto spesso nella memoria il grosso delle canzoni si confonde, così come il grosso dei cantanti: sarà l’età, sarà che ormai sono sempre più scollato dal mondo giovanile, ma a me certi cantanti pare si assomiglino molto e siano praticamente interscambiabili.
Il giudizio sulle canzoni (non solo di quest’ultima edizione del Festival, ma anche delle precedenti) mi pare tutto sommato sempre quello: due o tre emergono, ma al di là di quelle due o tre non c’è molto degno di nota; ci sono brani abbastanza convenzionali, un misto di già sentito e di rimescolamenti in cui si va incredibilmente sul sicuro.
Anche a livello di presentazione, Amadeus mi pare l’usato sicuro: fa le sue cosine al momento giusto, non stona, non sgarra, ma potresti scrivere per filo e per segno tutto quello che dirà anche con 6 mesi d’anticipo. Senza parlare delle gag, che sono, come dicono i giovani d’oggi, a volte piuttosto cringe: artificiose, pensate per la gioia delle nonne e poco altro. L’unico che ogni tanto emerge è Fiorello, che però deve anche lui essere in giornata.
Al che mi vien da chiedere: ma come fa ad avere ogni anno sempre più ascolti, un Festival che non è certo tremendo (ne abbiamo visti di peggiori), ma neppure così trascinante? Come fa, soprattutto, ad avere così presa tra i giovani, visto che mio figlio si è visto varie puntate ma anche i miei studenti, in molti casi, l’hanno seguito con molta attenzione? Perché che un Festival del genere abbia successo tra gli adulti e gli anziani, me lo posso anche aspettare; ma come fa ad aver successo tra i teenager? Come ha fatto Amadeus a cambiarne così radicalmente le sorti, in questi anni?
Devo dire che non ho risposte chiare all’interrogativo, e temo che i sociologi di professione abbiano di meglio da fare che non indagare i dati demoscopici dell’Auditel al riguardo. Ci sono però alcuni fattori che mi sembra possano essere utili, due più scontati, e uno che forse, invece, non si cita spesso:
la presenza di cantanti di diverse generazioni;
il FantaSanremo e la potenza dei social/WhatsApp;
la struttura “a spizzico” del Festival.
I primi due sono quelli a cui forse potreste aver già pensato anche voi. Amadeus ha sicuramente un pregio: quello di saper cogliere cosa piace, musicalmente parlando, non solo al pubblico più maturo (e quindi in gara c’erano Fiorella Mannoia, classe 1954, Il Volo, giovani ma d’altri tempi, Loredana Bertè, classe 1950, e i Ricchi e Poveri, gruppo formato addirittura nel 1967), ma anche cosa va per la maggiore tra gli adolescenti. Anzi, tutte le fasce d’età sono ben rappresentate, perché ci sono anche cantanti pensati per i 40enni. Questo parterre così variegato è ormai un marchio di fabbrica della direzione di Amadeus, e direi che ha funzionato: il difficile era riuscire, forse, a far convivere fasce d’età e generi così diversi, ma con alcuni accorgimenti (anche i duetti hanno un ruolo in questo) l’operazione mi pare che sia ampiamente riuscita.
Più interessante – e forse non voluto, ma spontaneo – è il secondo fenomeno che può spiegare il successo del Festival tra i giovani: il fatto che è un’esperienza collettiva e non individuale. Faccio solo un esempio. Come vi raccontavo poche righe sopra, mercoledì non ho guardato la trasmissione perché ero online con gli abbonati del canale per il nostro appuntamento mensile del Club del Libro. Mentre stavamo finendo la riunione, come ho raccontato anche ai partecipanti, mi sono arrivati una serie di messaggi da studenti ed ex studenti perché Giovanni Allevi, sul palco dell’Ariston, in un toccante discorso sulla sua malattia aveva finito per citare Kant (e quando si cita Kant, qualcuno nel mondo pensa a me). Il Festival ormai si guarda col cellulare in mano, pronto per mandare un commento sul gruppo di classe o su quello degli amici, per creare al volo un meme con il cantante del momento (o per votare tramite il televoto). Quindi lo si guarda anche per non essere tagliati fuori dal gruppo, per capire a cosa stanno facendo riferimento gli amici, per fare il tifo insieme per un cantante o per l’altro. Che sia uno spettacolo bello o brutto interessa fino ad un certo punto.
Ma è forse il terzo motivo che mi pare quello più interessante. Mi sono chiesto, infatti, se la formula di Sanremo non sia incredibilmente adatta per questi tempi iper-frammentati. Sempre più spesso i miei studenti – gente abituata a studiare, gente che dovrebbe essere in grado di mantenere a lungo la concentrazione – mi dicono di far fatica a guardare film lunghi; o li guardano a velocità doppia (sì, proprio così), o preferiscono le serie TV, che richiedono un tempo d’attenzione più breve. La generazione TikTok sembra non reggere tanto facilmente le due o tre ore di uno show, o sembra reggerle sempre meno; e invece ama il ritmo spezzettato, non la canzone intera ma la clip che accompagna un video sui social, non il lungo dipanarsi di un discorso ma una serie di pezzi accostati tra loro.
Sanremo, da questo punto di vista, è sempre stato una sorta di TikTok prima di TikTok. Ogni serata è costruita come una serie di clip giustapposte: c’è l’ospite che fa un monologo (breve), c’è Fiorello che fa una gag (breve), c’è una canzone cantata con abiti sgargianti o con balletti o con mosse che possano comunque rimanere impresse, e poi da capo tutto si ripete all’infinito, con le pubblicità in mezzo a permetterti di fare un giro sui social network o di rispondere alle notifiche. Guardare il Festival di Sanremo non è poi così diverso, nella struttura, dal passare qualche ora su TikTok; certo, i contenuti sono ben differenti, ma mi pare che la richiesta d’attenzione sia la medesima, e sospetto che sia quindi anche per questo che i giovani si trovano abbastanza a loro agio con quella formula.
Amadeus mi pare abbia avuto, quindi, questo pregio: far rimanere Sanremo fedele alla sua tradizione, ma allo stesso tempo aprirlo – con anche un po’ di fortuna, perché WhatsApp e TikTok mica li ha inventati lui – alle generazioni più giovani. Chissà se chi verrà dopo di lui manterrà viva questa caratteristica, o se, nel frattempo, i social cambieranno ulteriormente, vanificando il tutto.
E chissà soprattutto come cambierà il modo di comunicare, di stare attenti, di fruire delle storie e degli spettacoli, se questa tendenza all’attenzione spezzettata, che mi pare vagamente di aver scorto, si rafforzerà.
Lasciatemi però, in chiusura, fare anche una riflessione su come il Festival è finito, cioè sulla vittoria di Angelina Mango e sul secondo posto, carico di polemiche, per Geolier. Ora, sia detto per liberare il campo da ipotesi di preconcetti, io non ero innamorato né dell’una né dell’altra canzone: mi sono parse carine, ma non le migliori in gara, né i due interpreti mi sono sembrati così intensi. Insomma, due brani discreti, interpretati da due giovani discreti che però, mi pare, si devono ancora fare un po’ le ossa.
Fin da subito mi ha quindi sorpreso che i due viaggiassero nelle parti alte della classifica, e ancora di più che alla fine siano stati i protagonisti della volata finale. Avrete poi letto, probabilmente, che la vittoria di Mango su Geolier è stata dovuta, a quanto si apprende, soprattutto al voto della sala stampa, visto che quello da casa aveva invece nettamente premiato il rapper napoletano.
Ora, due considerazioni sulla faccenda. Primo, il 60% dei voti da casa a Geolier è fuori da ogni logica e verosimiglianza: è vero che a votare non erano ovviamente tutti gli italiani e che ognuno poteva votare più di una volta, ma che ci fossero così tanti fan sfegatati del rapper e così pochi fan di tutti gli altri non lo crede nemmeno il suo manager. È evidente a tutti – dalle proporzioni di questo vantaggio – che il voto da casa è stato in qualche modo alterato nel suo senso.
Secondo: è vero anche che poi la sala stampa pare aver votato in massa Angelina Mango, quasi come se volesse sovvertire l’esito del voto da casa. Vien da chiedersi: è stato, anche in quel caso, un voto sincero, oppure può esserci stata una sorta di coalizione? Voglio dire: quando le persone votano da sole, senza confrontarsi coi colleghi, magari spargono il loro voti su diversi contendenti; ma in certi casi basta scambiare due parole per mettersi d’accordo, e concentrare i voti su un candidato che sembra papabile, in modo da farlo prevalere. E in sala stampa potrebbe insomma essersi verificato lo stesso fenomeno del voto da casa: una coalizione che ha alterato il senso stesso del voto.
Non so come sia effettivamente potuto avvenire questo, ma è possibile che sia andata così. Scandalo? Non so: il regolamento forse vieta certe cose, ma forse, allo stesso tempo, certe regole sono facili da aggirare pur senza violarle apertamente.
Quello che mi interessa, però, non è capire chi davvero meritasse tra Mango e Geolier. Il discorso che mi interessa è un altro: alla fine, chi ha votato l’ha fatto per la bellezza della canzone? Oppure per far vincere qualcuno per cui faceva, a prescindere, il tifo? Perché, se ci fate caso, tutte le polemiche che sono sorte sulla vittoria e sulla sconfitta non hanno riguardato di per sé la bellezza del brano o l’efficacia dell’esibizione, ma il fatto che con Geolier vinceva Napoli e con Mango perdeva Napoli (nonostante la ragazza sia nata neppure troppo distante dal capoluogo campano).
Voglio dire: che la canzone di Geolier fosse bella o brutta interessava poco, o solo relativamente; così come interessava solo relativamente anche il fatto che la stessa La noia fosse bella o brutta. Molti hanno votato in primo luogo il personaggio, cosa rappresentava, come si vestiva, come parlava; o hanno votato contro il personaggio. Cioè hanno votato per motivi che avevano ben poco a che fare con la musica.
E guardate bene che Sanremo non rappresenta affatto un’eccezione: ci comportiamo spesso in questo modo. Una delle lamentele che mi riportano più spesso gli studenti è che i loro prof “fanno le preferenze”, cioè non valutano le prove in maniera oggettiva ma si fanno influenzare dall’idea che già hanno del ragazzo o della ragazza; allo stesso modo, quando parliamo di calcio non siamo quasi mai oggettivi, ma difendiamo a spada tratta la nostra squadra, al di là dei suoi effettivi meriti o demeriti; e lo stesso accade anche quando parliamo di eventi sensibili, come ad esempio quello che sta avvenendo a Gaza: ognuno li giudica sulla base della sua prospettiva, che è sempre figlia dei suoi interessi.
Difendiamo una parte perché, per un motivo o per l’altro, ci identifichiamo con essa; ed è un’identificazione che molto spesso dipende da sentimenti, preconcetti, identificazioni; non certo (o non solo) dalla razionalità.
Ricordate Rousseau? Sosteneva, in pratica, che gli uomini litigassero perché incapaci di spogliarsi dei loro sentimenti, delle loro aspettative, delle loro invidie ed avidità. Se invece fossero stati capaci di pensare puramente, in maniera oggettiva e super partes, si sarebbero secondo lui ritrovati d’accordo su tutto; avrebbero raggiunto l’unanimità.
Perché litighiamo su Gaza? Perché, direbbe Rousseau, non analizziamo la situazione in maniera oggettiva, ma ad essa aggiungiamo tutto il nostro carico di pregiudizi, rabbie, vendette, speranze, paure, e così ci schieriamo nettamente da una parte o dall’altra, magari senza più ascoltare le istanze altrui.
Perché litighiamo su Angelina Mango e Geolier? Forse, più o meno, per lo stesso meccanismo: perché non ci importa granché dell’una o dell’altro, ma perché su di loro riversiamo speranze e paure più antiche, che vanno ben oltre quei due ragazzi.
Certo, sono convinto che quella Volontà generale di cui parlava Rousseau, razionale e priva di passioni, sia irraggiungibile, che nessuno possa davvero spogliarsi del tutto dei suoi pregiudizi e delle proprie passioni; allo stesso tempo, però, penso che l’intelligenza consista anche nel cercare di individuare i propri pregiudizi ed arginarli, tenendoli almeno in parte sotto controllo. L’intelligenza, quella vera, consiste nella capacità di mettersi in discussione, e cioè individuare quando il nostro giudizio si lascia influenzare da cose passeggere, perdendo la necessaria serenità.
E quindi la vera domanda è: quando riusciamo ad essere davvero intelligenti? E a valutare le cose per quello che sono, e non per quello che ci immaginiamo che siano, o vorremmo che fossero?
Quello che ho registrato e pubblicato
Facciamo ora il punto anche sui video e sui podcast che sono usciti questa settimana, per non farci mancare niente:
Quattro mesi di guerra Israele-Hamas: il punto sulla situazione in Medio Oriente, per chi non ha seguito molto la questione negli ultimi mesi
Scienza e fisica per Ockham: terzo video approfondito dedicato al frate inglese, cercando di delineare la sua visione della scienza
Il Trattato teologico-politico di Spinoza (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
La salita di Crispi al potere (per il podcast “Dentro alla storia”)
Il ritorno di Crispi e la crisi di fine secolo (per il podcast “Dentro alla storia”)
Il tacchino induttivista di Bertrand Russell
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
Il canale YouTube | Instagram | Facebook | Twitter/X | TikTok | Threads
Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
La società aperta e i suoi nemici di Karl Popper: uno dei libri più importanti, e allo stesso tempo più criticati e discussi, della filosofia del secondo Novecento è La società aperta e i suoi nemici di Popper, un volume che si scaglia pesantemente, tra gli altri, contro Platone, Hegel e Marx, veri e propri mostri sacri della disciplina. C’è chi lo ama e chi lo odia, come spesso accade coi libri netti; ma vale la pena di leggerlo, anche se lungo e impegnativo. Se volete avventurarvi nell’impresa, lo si può acquistare qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
Chiudiamo anche con una veloce panoramica su quello che ci aspetta nei prossimi giorni sul canale:
domani dovrebbe arrivare il secondo e ultimo video su Luigi Pirandello, incentrato sulla sua filosofia;
mercoledì sarà la volta del terzo video sulla storia delle Olimpiadi, in cui parleremo anche di Berlino 1936;
giovedì e venerdì toccherà ai podcast, con Spinoza in filosofia e la crescita economica dell’Italia di fine secolo in storia;
sabato vi proporrò, credo, un video più tecnico, una sorta di video-risposta alle domande più frequenti del canale;
domenica poi dovremmo concludere il percorso su Guglielmo di Ockham;
e lunedì prossimo, per finire, vorrei fare un video di storia antica.
E questo è tutto anche per questa settimana. Ci rivediamo tra sette giorni esatti, con altri libri, altri film, altre riflessioni, altri video. A presto!
(riporto qui quello che ti ho scritto anche via email, prima di vedere l'icona "comment" in fondo alla tua newsletter)
ciao Ermanno. (spero non ti offenda che ti dia del tu, sei un po' piu' giovane di me, e nel farlo mi sento un po' piu' giovane anch'io. Inoltre ti ho ascoltato davvero tanto, e in qualche modo è come se ti conoscessi. Pazzesca questa asimetria di rapporto che si instaura fra uno "youtuber" e la sua "community"... argomento possibile per una tua riflessione da "riflessivo" quale sei?)
Ho letto le tue considerazioni in merito alla polarizzazione sulle varie questioni che tu attribuisci, con ragione, alla incapacità generale di vedere il punto di vista dell'altro. Questo è un tema che io mi pongo e che sento particolarmente. Sono un fervente sostenitore del detto che "chi ama la verità è disposto a sacrificare qualsiasi opinione". E su qualsiasi tema di mio interesse infatti mi trovo ad aggiustare continuamente quello che penso, mi ostino ad ascoltare pareri diversi dai miei (tradotto youtuber che sostengano opinioni diverse dalle mie, entro certi limiti di sensatezza di ragionamento ovviamente, con uno che nega i campi di sterminio non perdo tempo), cosa che mi spinge a non essere mai troppo convinto o sicuro di avere afferrato questa benedetta/maledetta verità sfuggente.
Detto questo però, non trovo sia giusto, nel fare questo, porsi necessariamente a metà strada fra le due posizioni prevalenti, a prescindere, cosa che mi sembra tu faccia spesso (non dico sempre perchè non ho letto/visto tutta la tua abbondante produzione) quando si tratta di questioni di attualità.
A volte dopo aver ascoltato le due campane, con quel processo di attenta autocritica che ti dicevo, mi trovo ad essere "schierato" su una delle due posizioni. Nella fattispecie, ad esempio, sulla questione Israle/Hamas/palestinesi sono nettamente "filo palestinese" (ho fatto qualche commento a qualche tuo video in tal senso). Non dico che questo mi ponga al riparo da un errore, dico solo che essere schierati non significa sempre e necessariamente non aver valutato con la massima le ragioni di entrambe le parti.
Con affetto.
Claudio
Buona sera prof ! Vorrei fare un paio di considerazioni che sono piuttosto sconnesse tra di loro.
Premesso che condivido pienamente l auspicio di superare il crocianesimo , ho un dubbio .
Quello che proviamo per il nostro partner non e' forse bello proprio perche' non desideriamo possederlo? Se desiderassimo possederlo , possederla detto da un uomo , finiremmo per nel possesso del maschio sulla donna , con le conseguenze che spesso finiamo per leggere sui giornali : il maschio che uccide la donna perche' non accettava di essere lasciato . Il femminicidio insomma ! Quanto a San Remo , la vittoria di Annalisa Mango che era gia' prevedibile ,
a me sembra , e sembrero' uno che si lamenta , in sostanza la vittoria di una figlia che canta la canzone del padre , una canzone gia' nota da 20 anni . Un segno del declino dell Italia.
Che la gente tenda a votare in base alla simpatia o antipatia invece che secondo un proprio giudizio , mi era gia' apparso evidente ai tempi del referendum costituzionale di Renzi ,
quando la gente voto' pro o contro in base alla simpatia o antipatia per Renzi , invece che al contenuto del referendum .