Il fascismo con cui non abbiamo mai fatto i conti, ma parliamo anche de La società della neve, dei film di Chaplin, di Kant, di Ockham, di Geopop, de Il ragazzo e l'airone e della Venezia di Nievo
Di solito, l’introduzione alla newsletter, cioè le righe che state leggendo in questo momento, le scrivo per ultime: prima provo a buttar giù le altre parti, spesso anche a rileggerle e sistemarle, e solo in ultima istanza mi dedico all’apertura; questo anche perché certe sezioni della newsletter posso compilarle anche nei giorni precedenti al lunedì, ma l’introduzione dev’essere “fresca”, redatta il giorno stesso, magari anche pochi minuti prima dell’invio.
In queste righe però non presento, il più delle volte, quello che verrà dopo, perché ci sono già talmente tante parole dedicate ai vari argomenti della settimana che è inutile aggiungerne altre. Oggi, però, la situazione è in parte diversa: vedere accostati, già nel titolo della mail, Chaplin e il fascismo mi fa, a dirla tutta, una certa impressione. Sono passati più di cento anni da quanto il movimento di Mussolini prese il potere in Italia; e sono passati più di cento anni anche dai primi inni pacifisti di Chaplin presenti nei suoi film (ne parliamo anche più avanti), eppure siamo sempre a questo punto.
Si ha un bel dire, ad affermare che il fascismo “ha stufato”, che è roba passata, vecchia. Eppure sembriamo essere noi stessi a non mettere in soffitta qualcosa che, con ogni ragionevolezza, dovrebbe ormai essere confinato ai libri di storia, come un oscuro retaggio dei tempi che furono.
E invece ci troviamo davanti a migliaia di persone che si radunano a Roma per fare il saluto romano, e lo fanno da anni, nella parziale indifferenza delle istituzioni; ma ci troviamo davanti anche a leader politici controversi in giro per il mondo, che del fascismo non riprendono né il nome né i simboli, ma certe modalità d’azione sì, certi atteggiamenti imperialistici sì, un certo uso nel randellare le opposizioni sì.
Oggi parleremo anche di questo: non tanto del fascismo di Benito Mussolini, ma del lascito del fascismo, di come ce ne siamo liberati molto meno di quanto speravamo.
E poi, ovviamente, parleremo anche di tante altre cose: libri, film (anche appena usciti) e stimoli intellettuali spero siano all’ordine del giorno. Ah, e in fondo troverete anche un breve video che celebra il traguardo dei 100.000 iscritti con lo “spacchettamento” della targa d’argento di YouTube. Iniziamo.
Quello che ho letto
Partiamo come sempre dai libri: nell’elenco di questa settimana c’è un romanzo che ci portiamo dietro ormai da molti mesi ma ci sono anche due saggi completamente nuovi.
Le confessioni d’un italiano di Ippolito Nievo: di questo libro vi avrò già parlato decine di volte qui sulla newsletter; e, d’altronde, se ho fatto bene i conti lo sto leggendo (certo con molte pause) addirittura dal maggio dell’anno scorso. Mi chiederete: com’è possibile che un libro di cui ho sempre parlato bene me lo stia portando dietro da 8 mesi, senza riuscire a concluderlo? Be’, il mistero è presto svelato: il romanzo conta più di 1.000 pagine fitte fitte, scritte tra l’altro in un italiano per i suoi tempi anche moderno, ma pur sempre di metà Ottocento. Insomma, per quanto il romanzo di Nievo sia a suo modo bello ed intrigante, ci vuole indubbiamente del tempo per leggerlo, e io non sono d’altra parte sempre stato costante nell’attività. La storia, comunque, procede: Carlino, il nostro protagonista, dopo essere stato nobilitato ed essere entrato nel Maggior Consiglio della Repubblica di Venezia, è stato travolto dalle vicende della campagna d’Italia di Napoleone e soprattutto dal Trattato di Campoformio. Nelle pagine che sto leggendo in questi giorni, infatti, Venezia ha appena perso la sua millenaria indipendenza e sta passando sotto il controllo austriaco, con molti patrioti che si danno al suicidio o alla fuga. Carlino, arrabbiato, è però preso pure da qualche pena d’amore. Ormai ho superato pagina 600, ma la fine è ancora lontana, e quindi tornerò sicuramente a parlarvene ancora: se intanto volete comprarlo, lo trovate qui.
Un tesoro al piano terra di Andrea Moccia: conoscete di sicuro meglio di me Geopop, canale YouTube e account social che si occupa della divulgazione di conoscenza scientifica, particolarmente legato ai temi della geologia e dell’ambiente. A fondarlo, ormai vari anni fa, è stato il napoletano Andrea Moccia, a cui poi negli anni si sono aggiunti diversi collaboratori; ma Moccia rimane il volto principale e l’anima di quel progetto. Io, pur non essendo particolarmente appassionato di geologia, ogni tanto seguo volentieri qualche loro contenuto, perché in effetti riescono a spiegare bene le varie questioni sia a chi ha qualche base scientifica, sia a chi ne sa poco o nulla, con uno stile tra l’altro anche accattivante. Proprio per questo motivo, nei giorni scorsi mi sono lasciato attrarre da Un tesoro al piano terra, che, da quanto ho capito, è il primo libro che Moccia ha scritto, ormai un paio di anni fa, e che ha avuto un ottimo successo di vendite. In effetti, nel volumetto si ritrovano tutti i pregi dei video del web: un’attitudine a spiegare chiaramente ma efficacemente le cose, un interesse a 360° per il mondo della Terra, qualche spunto interessante. Ovviamente, se avete da poco studiato scienze della terra o se siete appassionati della disciplina, può darsi che il libro vi risulti un po’ scontato o inutile, ma il pubblico di riferimento penso sia quello dei curiosi e dei neofiti, e in questo senso l’operazione mi pare funzionare. Il libro lo trovate qui, ma se volete ho scoperto che ce n’è anche una versione anche su Audible letta dallo stesso Moccia che mi pare coinvolgente.
Smetti di leggere notizie di Rolf Dobelli: lo dico subito: Rolf Dobelli è un autore per certi versi controverso, anche se non molto noto in Italia. Svizzero di lingua tedesca, ha incontrato grande successo internazionale a partire dal 2011, quando ha pubblico il libro che poi sarebbe stato tradotto in italiano col titolo di L’arte di pensare chiaro. Col successo sono arrivate anche le prime polemiche, tra cui alcune accuse di plagio; in particolare ha destato un certo scalpore, a suo tempo, l’accusa di Nassim Nicholas Taleb, esperto per certi versi simile a Dobelli, che con lo stesso autore svizzero aveva tra l’altro collaborato. Al di là di queste accuse e della fama dei personaggi coinvolti, qualche settimana fa sono comunque rimasto affascinato dal titolo di quest’altro libro, il suo secondo best-seller internazionale: Smetti di leggere notizie. E anche dal suo sottotitolo: Come sfuggire all’eccesso di informazioni e liberare la mente. Il fatto poi che fosse pubblicato dal Saggiatore sembrava garantire che il libro non fosse il solito manualetto self-help senza arte né parte, ma, speravo, qualcosa di un po’ più intenso. Devo dire che, giunto già quasi alla fine del volume (che si legge molto in fretta), il libro mi lascia un po’ interdetto: da un lato, infatti, ci sono delle idee interessanti e condivisibili; dall’altro, però, mi sembra che ci si compiaccia un po’ troppo di queste idee, e – come sempre accade quando si è eccessivamente orgogliosi delle proprie pensate – si tenda così ad esagerare. La tesi di Dobelli è fin da subito chiara: siamo talmente bombardati da notizie sempre più frequenti e, spesso, sempre più insignificanti, che forse faremmo meglio a rinunciare completamente a queste news. Per sostenere questo punto di vista, Dobelli porta poi tutta una serie di argomentazioni o supposte prove del fatto che delle notizie si possa fare volentieri a meno, sia quando esse siano piccole curiosità locali, sia anche quando queste riguardino la grande politica mondiale. Su molte cose ha ragione: le notizie non ci cambiano perlopiù la vita, e ci vengono ormai presentate sempre più spesso in forme click-bait, che tendono cioè a emozionarci, indignarci, angosciarci, ben sapendo che queste emozioni ci spingono a rimanere ancora più attaccati alle news stesse e ai siti che le propagano; e ha ragione, a mio avviso, quando sostiene che piuttosto che passare mezz’ora al giorno su un qualsiasi quotidiano forse è meglio dedicare quella mezz’ora alla lettura di un buon saggio. Quello che non mi convince è l’estremismo con cui sostiene questa tesi: non tutti i giornali sono uguali e non tutti i temi sono uguali, ad esempio; non tutte le notizie cercano di giocare sulle nostre emozioni, ma a volte ci aiutano effettivamente a conoscere un po’ di più il mondo; e tramite i giornali c’è modo, se ci si muove saggiamente, di farsi un’idea di tante diverse situazioni che è utile e bene conoscere. Insomma, quelle di Dobelli sono in fondo idee che vanno verso la giusta direzione, ma che non fanno troppa autocritica, e che forse proprio per questo finiscono per non convincere del tutto. Comunque il libro si legge, come detto, velocemente e forse già la settimana prossima potrei averlo finito. Ne riparleremo. Intanto, se volete comprarlo, il libro lo potete comprare qui.
Quello che ho visto
Passiamo ora al cinema. Come noterete, c’è una certa presenza, nella lista di questa settimana, di Charlie Chaplin e dei suoi film comici, ma per riequilibrare il tutto ho completato la sezione con un film particolarmente forte e drammatico (non sia mai che ridiamo troppo!).
Un re a New York (1957), di Charlie Chaplin, con Charlie Chaplin, Dawn Addams, Oliver Johnston: ci sono alcuni film di Chaplin che sono famosissimi. Penso a pellicole come Il monello, Tempi moderni o Il grande dittatore, che vengono citate, dalle quali vengono estratti fotogrammi, poster, merchandising. Altri film del grande cineasta britannico, però, sono incredibilmente poco noti, e tra questi annovererei anche Un re a New York, una delle sue ultime pellicole, realizzata quando aveva già 68 anni e il mondo era molto cambiato rispetto ai suoi esordi ad Hollywood. Il motivo di questa poca fama, d’altra parte, lo si capisce chiaramente appena si guarda il film: la storia è quella di un re che viene spodestato dal suo paese a causa di una rivoluzione (forse marxista); trova quindi rifugio a New York, negli Stati Uniti, ma presto si ritrova privo di fondi, visto che i funzionari del suo vecchio governo si sono intascati i tesori della corona. A questo punto, ridotto sul lastrico, è costretto ad accettare di entrare nello star system americano, soprattutto come testimonial all’interno di diversi spot televisivi. Nel frattempo però conosce un ragazzino particolarmente intelligente e particolarmente politicizzato (interpretato, nel film, da uno dei figli di Chaplin stesso, Michael): questi, che fa discorsi un po’ ambigui sull’anarchia e su Karl Marx, finisce nei guai con la Commissione per le attività antiamericane, e in qualche modo trascina con sé anche il re, che l’aveva fino a quel momento ospitato. Il film, dal punto di vista qualitativo, non è uno dei migliori di Chaplin: ci sono dei bei momenti, qualche scena veramente comica, qualche altra intelligente, ma in generale sembra una satira a metà, non sempre compiuta. Al di là di questo, però, la storia, quantomeno da un punto di vista storico, è interessantissima: Chaplin lo realizzò dopo essere stato di fatto espulso dall’America per via delle sue sospette simpatie socialiste, e quindi tutta la trama può essere vista come un atto d’accusa agli Stati Uniti e alle assurdità del maccartismo. Il film è abbastanza difficile da recuperare (qui comunque potete trovarne una copia in DVD), ma vi consiglio anche, se avete voglia, di guardarvi un breve documentario disponibile su YouTube in inglese in cui si ricostruisce la genesi e la storia di questa pellicola, con interviste anche al regista Jim Jarmusch e allo stesso figlio di Chaplin, Michael, ormai di una certa età. Lo trovate qui.
La società della neve (2023), di Juan Antonio Bayona, con Enzo Vogrincic Roldán, Matías Recalt, Agustín Pardella: appena uscito su Netflix, La società della neve è un film che non rappresenta in realtà una novità assoluta. La storia che racconta, infatti, è già stata portata più volte sul grande schermo, anche perché si presta benissimo ad una narrazione coinvolgente, emozionante ma anche scioccante; il primo film tratto dalla vicenda è infatti il semisconosciuto I sopravvissuti delle Ande del 1976, il secondo è il più noto Alive del 1993, con Ethan Hawke tra i protagonisti. Dopo trent’anni, però, era effettivamente forse il caso di raccontare di nuovo questa storia, e stavolta il regista spagnolo Juan Antonio Bayona (quello di The Orphanage) mi sembra ci sia riuscito particolarmente bene. La storia è quella del disastro aereo delle Ande del 1972: in quell’anno, infatti, un piccolo aereo dell’aeronautica militare uruguaiana si schiantò sulla catena montuosa sudamericana mentre trasportava verso il Cile una squadra di rugby, l’Old Christians Club, che doveva fare là una tournée. Delle 45 persone a bordo del velivolo, 12 morirono nello schianto, mentre altre 17 perirono nelle ore e nei giorni successivi, a volte per i postumi dell’incidente, altre volte per valanghe o denutrizione. Alla fine si salvarono in 16; 16 persone che però, come è noto, per sopravvivere dovettero ricorrere a soluzioni estreme, come mangiare la carne dei cadaveri dei loro compagni. I soccorsi, d’altra parte, non trovarono superstiti per più di due mesi, e se i 16 riuscirono a tornare a casa fu solo perché due di loro si avventurarono in una scalata in solitario delle varie cime delle Ande, riuscendo poi a scendere a valle. Il film è ben diretto e ben recitato, e anche se la storia è arcinota riesce ad essere coinvolgente; c’è anche – e la cosa mi ha fatto piacere – qualche momento di riflessione su quella situazione così estrema, riguardo all’insopprimibile desiderio di vivere, ai tabù religiosi e psicologici che ci portiamo dietro e al senso della vita, per sé e per gli altri. Non è un capolavoro assoluto, ma vale il tempo che ti richiede. Lo trovate su Netflix.
Charlot soldato (1918), di Charlie Chaplin, con Charlie Chaplin, Sydney Chaplin, Edna Purviance: questa settimana, come probabilmente avete già intuito, mi sono messo a lavorare a una serie di video – il primo dei quali è già uscito, e lo trovate nella sezione Quello che ho registrato e pubblicato – relativi al cinema di Charlie Chaplin e ai suoi legami con la storia e la filosofia. Di solito, quando realizzo video di questo tipo, a dominare la scena è la filosofia: cerco di rintracciare, infatti, diversi influssi filosofici nella trama di alcune celebri pellicole o nella poetica di alcuni importanti cineasti. Nel caso di Chaplin, però, non conta solo la filosofia (che pure c’è, chiara e netta), ma anche la storia. Già di per sé la vita di Chaplin è un ritratto della storia del Novecento: artista squattrinato nella Londra di inizio secolo, cavalcò l’onda nuova del cinema divenendo già prima dei trent’anni una delle più grandi star di tutti i tempi; venne adottato dagli Stati Uniti, salvo poi esserne praticamente cacciato dopo la Seconda guerra mondiale, nella fase del maccartismo, per una presunta simpatia verso il socialismo (mai realmente provata, e probabilmente neppure vera: Chaplin andò a riparare in una bella villa in Svizzera, mica in Russia). Anche nei suoi film, però, la storia la fa da padrona: pensate a Tempi moderni e al modo in cui riesce a raccontare – meglio di qualsiasi altro, anche se in chiave comica – la fabbrica contemporanea; pensate a Il grande dittatore, con la sua parodia di Hitler. E l’elenco potrebbe essere ancora lungo. Però, appunto, documentandomi per il video ho letto di Charlot soldato, cortometraggio addirittura del 1918 in cui l’attore – all’epoca già famoso, anche se recitava sul grande schermo da appena 4 anni – si immaginava all’interno delle trincee francesi. Non ricordavo se lo avessi visto (i corti degli anni '10 e '20 una volta venivano trasmessi a ripetizione in TV, e durando pochi minuti diventa difficile distinguerli), ma l’ho recuperato facilmente su YouTube (potete vederlo qui). Scritto, diretto, prodotto e montato dallo stesso Chaplin, è un corto a suo modo bellissimo: l’attore britannico, all’epoca neppure trentenne, riesce a ironizzare sulle trincee, i gas, gli attacchi nella terra di nessuno raccontandoci tutto sommato la realtà della guerra. Nessuno, prima di quel corto, aveva mai osato provare a virare in risata il dramma del conflitto, ed è facile capire perché; eppure Chaplin ci riuscì, ottenendo ottimi riscontri dalla critica e realizzando una pellicola di poco più di mezz’ora che ancora oggi riesce a far sorridere e un po’ commuovere. Per l’intento e per il veloce finale in cui emerge la filosofia di Chaplin, questo Charlot soldato può essere visto come la premessa a Il grande dittatore, che sarebbe stato realizzato – complici i drammi politici del tempo – più di vent’anni dopo.
Quello che ho pensato
L’avevo anticipata la settimana scorsa; ora, a mente più fredda, è il momento di parlarne. Mi sto riferendo alla annosa questione del fascismo in Italia, un fenomeno di cui è sempre difficile discutere in termini condivisi.
A riportare all’ordine del giorno la faccenda è stata, più o meno una settimana fa, la commemorazione dei morti di Acca Larenzia, a Roma, con quello che si è rivelato essere l’ennesimo raduno di neofascisti italiani e non solo italiani. Chiariamo però prima di tutto le basi di quanto è accaduto, dando qualche coordinata storica.
Il 7 gennaio 1978 due militanti del Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano, vennero ucciso a Roma, in via Acca Larenzia, da militanti dell’estrema sinistra; un terzo esponente del Fronte venne ucciso poche ore dopo dalla polizia durante gli scontri successivi a quell’attentato.
Fu un attentato grave, ma inquadrabile all’interno dei cosiddetti “anni di piombo”; erano anni – come sa bene chi c’era, e come dovrebbe cominciare a sapere anche chi studia oggi alle superiori – in cui gli attentati erano all’ordine del giorno, così come gli omicidi politici. Pochi mesi dopo, per fare un esempio, Aldo Moro venne rapito e poi ucciso dalle Brigate Rosse; due anni dopo ci fu la strage della Stazione di Bologna, di matrice invece neofascista, con 85 morti.
Nella memoria dell’estrema destra romana, però, quell’eccidio riveste un ruolo particolare; è spesso ricordato più di altri scontri, forse perché i militanti furono aggrediti davanti alla loro sede (e quindi in un certo senso “colpiti in casa loro”), forse perché poi perfino la polizia sembrò rivoltarsi contro i missini. Così, da parecchi anni quella strage viene commemorata, nel suo anniversario, da un nutrito stuolo di neofascisti (ormai spesso troppo giovani per aver vissuto quegli anni), che ripropongono anche ritualità vetuste e inquietanti, come il saluto romano, il “presente” davanti all’appello ai caduti e così via. Cose che si facevano anche durante la Repubblica Sociale, nelle pagine più nere del fascismo italiano.
Quest’anno, la faccenda si è fatta ulteriormente complicata perché il principale partito di governo, Fratelli d’Italia, è in parte compromesso con la questione: la stessa Meloni in passato ha partecipato alla commemorazione e anche quest’anno importanti esponenti del partito erano presenti, anche se non direttamente nel momento in cui sono stati fatti i saluti romani. Sul pavimento della via – la si vede anche da Google Maps – è presente, d’altra parte, una gigantesca croce celtica, simbolo neonazista, solo per capire che non si tratta di una commemorazione qualsiasi.
Si è detto che manifestazioni del genere ce ne sono ogni anno, in Italia; e che per quanto facciano impressione, si tratta di poche centinaia di facinorosi, su un paese da 60 milioni di abitanti. Che parlarne troppo finisce per dare troppa importanza alla faccenda, e che proibire questi eventi sarebbe controproducente.
Il discorso a me sembra sempre piuttosto parziale; nel senso che c’è una parte di verità in quanto scritto qui sopra, ma c’è anche qualcosa di sbagliato. E quello che c’è di sbagliato, credo, deriva da come siamo arrivati fin qui. Provate a seguirmi nel ragionamento.
Bisogna infatti prima di tutto fare un discorso su questo benedetto fascismo, che in Italia rappresenta una questione annosa e mai affrontata davvero, sempre elusa o usata in maniera strumentale.
Il fascismo è stato un’associazione a delinquere (per parafrasare una celebre espressione di Mussolini): sì, su questo non ci piove. È stato un movimento politico che fin dalle sue origini ha fatto della violenza un’arma, uno strumento, e anzi il suo principale strumento d’azione: il fascismo è stato, in ogni momento, violenza politica. Non esiste fascismo senza violenza, sono due facce della stessa medaglia.
È stato un movimento, d’altra parte, che ha mirato fin dall’inizio all’eliminazione dei “nemici”, nemici che in principio erano i socialisti ma ben presto divennero tutti gli antifascisti in generale, cioè tutti gli avversari politici. Il fascismo non ha portato alla dittatura per caso o per sbaglio: è stato, nel sua DNA, un movimento dittatoriale, antidemocratico, assassino. Ha ammazzato molte persone (e ne ha fatto un vanto), ne ha incarcerate e mandate al confino molte altre. Uno stato democratico, liberale, di diritto non può tollerare forme di fascismo, che, oltre ad essere stupide e anacronistiche, ne minacciano almeno formalmente l’esistenza.
Davanti a queste banalità – nel senso che sto scoprendo l’acqua calda –, alcuni obiettano che però in Italia non esiste alcun reale pericolo fascista, e che quindi questa “retorica dell’antifascismo” sia inutile e distragga dai reali problemi. Qualche mese fa Daniele Capezzone, già portavoce di Forza Italia e ora al quotidiano Libero, ha scritto un libro dal titolo emblematico: E basta con 'sto fascismo. Cari compagni, ci avete rotto... È il sentimento diffuso in molti elettori di destra più o meno estrema.
Ora, è vero che a volta l’antifascismo è sfociato in vuota retorica, e si è a volte visto il fascismo anche laddove di fascismo non ce n’era; ma questo non vuol dire che in Italia, oggi, non esistano rigurgiti fascisti, para-fascisti o neonazisti. Dal 1945 ad oggi ci sono sempre stati; a volte sono rimasti nascosti nell’ombra o nella penombra, altre volte hanno preso coraggio – magari quando hanno pensato che la politica fosse più o meno accondiscendente – e si sono fatti avanti: ma non sono mancati in realtà mai. Le braccia tese di Acca Larenzia, che hanno fatto il giro del mondo, ne sono la dimostrazione lampante; ed è innegabile che il governo italiano – nella persona perfino della premier, Giorgia Meloni – faccia una gran fatica a smarcarsi da questa gente.
La prima domanda che ci dobbiamo porre, quindi, è: può uno stato occidentale, l’ottava economia del mondo, permettersi un governo che non riesce a condannare il fascismo, nell’anno del signore 2024? A me pare assolutamente di no, anche solo, banalmente, per una questione d’immagine: siamo una repubblica delle banane in mano a quattro imbecilli esagitati con nostalgie di Mussolini, oppure uno stato serio, che non ha tentennamenti davanti a situazioni del genere?
Immaginate, solo per fare un paragone, che si svolga una manifestazione di simpatizzanti della mafia; che centinaia di persone marcino per Roma con striscioni a favore della criminalità organizzata, con cori che esaltano Cosa Nostra e offendono lo Stato democratico: una manifestazione del genere non verrebbe autorizzata, i partecipanti verrebbero identificati e dispersi. Gli studenti vengono dispersi e manganellati a volte anche quando non fanno quasi nulla; ci indigneremmo se i mafiosi, nel nostro esempio, fossero destinatari di un trattamento migliore.
Si potrebbe obiettare a questo piccolo esperimento mentale credo in due modi: primo, dicendo che il fascismo è diverso dalla mafia; secondo, dicendo che la repressione non è la risposta, e rischia di trasformare i neofascisti in vittime.
Rispondo che nel primo caso la differenza non è così netta: certo il fascismo si presenta come un movimento politico e d’opinione, ma ho fortissimi dubbi che lo sia; come dicevo, è stata un’associazione a delinquere, e quando ha tentato di nobilitarsi (con Gentile e altri supposti teorici) ha imbastito idee che poi nei fatti sono state sempre rinnegate dal comportamento di Mussolini e dei suoi uomini. D’altra parte, anche la mafia può presentarsi come un movimento politico e d’opinione, se vuole; ciò non toglie che i suoi metodi (non a caso chiamati metodi mafiosi) la qualifichino, così come i metodi fascisti qualificano il fascismo.
Alla seconda obiezione non so bene come rispondere, nel senso che mi pare sensata: il neofascismo italiano vive di vittimismo, da sempre. Il che ne dimostra anche la pochezza: mi hanno sempre fatto un po’ ridere questi personaggi che credono nell’uomo forte, nel superuomo che affronta col petto in fuori le insidie della vita, e poi si lamentano più o meno di tutto, piangendo miseria e incomprensione. Insomma, reprimere potrebbe anche alimentare semplicemente il loro ego; ma anche qui si tratta di immagine, di che immagine vogliamo dare dell’Italia: di un paese in cui il fascismo è tollerato, o di un paese che il fascismo non lo tollera?
Ma c’è un’ulteriore domanda da porci: al di là delle contingenze e delle scelte politiche, esiste un reale pericolo fascista in Italia? Quegli esagitati a Roma costituiscono una minaccia per l’ordine costituzionale? A mio avviso, francamente, no: i fascisti, i fascisti veri, rappresentano in Italia una minoranza molto esigua, un gruppuscolo di imbecilli che non hanno neppure lontanamente le capacità intellettuali per fare alcunché se non violenza allo stato puro.
Questo però non vuol dire che fenomeni di questo tipo siano da derubricare, come spesso avviene, a pura goliardia. C’è un problema più ampio, dietro a quello che avviene a Roma il 7 gennaio di ogni anno: il fatto che noi col fascismo i conti non li abbiamo mai fatti davvero. E questo rappresenta uno dei tanti difetti morali del nostro paese.
Il fascismo, come abbiamo visto, è stato essenzialmente illegalità; ha commesso crimini contro il popolo italiano (togliendogli le libertà, praticando violenza politica, condannando per idee), ma ha commesso crimini anche contro altri popoli. L’elenco dei crimini di guerra italiani sotto il fascismo, purtroppo, non è affatto corto: perfino Wikipedia ne riporta una sfilza. Eppure, com’è noto, dopo la Seconda guerra mondiale non c’è stato in Italia un ripensamento generale sull’esperienza dei vent’anni precedenti.
Anzi, è ancora ampiamente diffusa nel paese l’idea che noi, in fondo, nella Seconda guerra mondiale fossimo i buoni: è il mito degli “italiani brava gente” che storici come Angelo Del Boca hanno contribuito a smascherare. Tutti in Italia pensano che i veri cattivi fossero i tedeschi, i nazisti; e che noi ci fossimo trovati accanto a loro quasi per sbaglio, per un errore tattico di Ciano e di Mussolini, ma che in realtà con loro non avessimo nulla a che fare: i nazisti ammazzavano gli ebrei, stupravano le donne, bruciavano i villaggi; gli italiani invece no, arrivavano col loro mandolino e col loro sorriso e alleviavano le pene dei popoli occupati.
In Germania ci fu il Processo di Norimberga; e tutto il popolo tedesco fu, in parallelo, in un certo senso accusato di complicità. Ancora oggi, quando studiamo la politica estera tedesca, ci stupiamo di quanto la Germania difenda a spada tratta Israele, a causa – si dice – del senso di colpa connesso all’Olocausto. E gli artefici o anche solo gli elettori della Germania di Hitler sono ormai tutti morti: eppure là si sente come una responsabilità collettiva quello che accadde negli anni '30 e '40. Certo, questo non impedisce che in Germania esistano gruppi neonazisti; ma basta comunque un saluto nazista per venire arrestati.
Perfino il Giappone ha subito un processo simile, il Processo di Tokyo.
L’Italia non ebbe mai nulla di tutto questo. Anzi, nel nostro paese arrivarono l’amnistia di Togliatti e gli insabbiamenti del famoso “armadio della vergogna”: nessuno pagò mai per il fascismo e per le sue stragi. O, meglio: pagò solo Mussolini, pagò per tutti.
La grande maggioranza dei gerarchi fascisti, infatti, invecchiò più o meno tranquillamente. E molti giovani che avevano aderito alla Repubblica di Salò poterono, dopo qualche mese di paura, tornare addirittura all’attività politica. Nonostante la Costituzione vietasse la ricostituzione dei disciolto Partito Fascista, i partiti neofascisti cominciarono così a fioccare; chi più chi meno, si richiamavano tutti all’esperienza mussoliniana.
Eppure i crimini di guerra li abbiamo commessi anche noi, ed efferati: anche prima di Hitler, a dirla tutta, perché facemmo strage di africani sia in Libia (nella riconquista fascista degli anni '20) che in Etiopia, perché usammo armi proibite dalle Convenzioni internazionali, perché massacrammo i civili. Le nostre stragi furono minori per quantità (ma forse perché, almeno in parte, non avemmo la possibilità di far di più), non per qualità. E però non lo si dice quasi mai: bisogna andare a comprare libri di storia specialistici per scoprirlo; bisogna interessarsi alla questione, andare in cerca di informazioni per saperlo. I grandi mezzi di comunicazione – la TV, la radio, il cinema, i giornali – spesso chiudono più o meno consapevolmente gli occhi davanti a questa realtà, e perpetuano il mito del bravo soldato italiano, amabile e spensierato.
Il fascismo, così, è potuto ridiventare senza problemi parte dello scacchiere politico: gli errori li aveva fatti Mussolini, e solo nell’allearsi con Hitler, mentre per il resto – si continuava sottovoce a dire – il fascismo aveva fatto anche cose buone. La Repubblica nata dall’antifascismo doveva essere unita proprio dai valori che rappresentano l’antitesi del fascismo stesso (tolleranza, pluralismo, democrazia), e invece non siamo stati in grado di fare i conti con la nostra storia e con i nostri errori. Non li abbiamo mai ammessi, e così non li abbiamo mai superati.
Non ci siamo mai presi la colpa del fascismo: come se Mussolini avesse preso il potere da solo, obbligando gli italiani a seguirlo. Mussolini, come ben sappiamo, non obbligò in realtà nessuno: furono gli italiani (o una buona parte di essi) a gettarsi nelle sue braccia. Ecco, quegli stessi italiani poi dissero di non esser mai stati fascisti, e si trasformarono in monarchici, democristiani, a volte perfino comunisti; e qualcuno, ovviamente, divenne missino o neofascista.
I fatti di Acca Larenzia non sono, dunque, fenomeni estemporanei, inspiegabili o difficili da comprendere: sono il frutto della nostra storia. Il fatto è che, quando si vuole, la storia la si può anche cambiare. Finora abbiamo scelto – credo anche deliberatamente, perché fa comodo a molti che tutto rimanga così – di non farlo.
Quello che ho registrato e pubblicato
E ora vediamo cosa è uscito nel canale YouTube in questi ultimi sette giorni:
Guglielmo di Ockham: il rasoio: ritorniamo a parlare del pensatore che chiude la filosofia medievale
La storia di Charlie Chaplin: un grande regista, un grande attore, ma anche un uomo che ha attraversato la storia degli Stati Uniti
L'unboxing della targa dei 100.000 iscritti al canale YouTube: festa grande in casa per l’arrivo della targa d’argento di YouTube
I limiti del pensiero scientifico per Pascal (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
La rivoluzione messicana e l'America Latina (per il podcast “Dentro alla storia”)
Il ragazzo e l’airone e i due mondi
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
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Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Critica della ragion pura di Immanuel Kant: mi sono reso conto che sono quasi tre anni che in questa rubrica non segnalo un’opera di Kant; e forse non l’ho fatto perché volevo, in una prima fase, partire da qualcosa di più facilmente accessibile. È però ora giunto il momento di rimediare e di arrivare a uno dei capolavori del pensatore tedesco: la Critica della ragion pura. Quest’edizione da quasi 50 euro è inevitabilmente costosa, visto che l’opera consta di più di 1.500 pagine; ma ne vale assolutamente la pena. Si tratta di un libro difficile, ma anche di uno dei testi più importanti della storia della filosofia di tutti i tempi; insomma, prima o poi bisogna provarlo. Potete comprare il libro qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
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Quello che c’è in arrivo
Chiudiamo con qualche anticipazione su quello che “bolle in pentola”, come si usa dire:
domani e mercoledì arriveranno due nuovi podcast, rispettivamente su Pascal in filosofia e sull’Italia liberale in storia;
poi vorrei realizzare il secondo video sulla storia delle Olimpiadi, affrontando ora la nascita di quelle moderne e le prime edizioni di fine Ottocento e inizio Novecento;
inoltre devo pubblicare un secondo “short” (cioè video da un minuto) su Il ragazzo e l’airone, per completare il discorso iniziato questa settimana;
arriverà poi – in una data ancora da definire – il Simposio filosofico, questo mese dedicato a cercare di rispondere a questa domanda: «Esiste qualcosa di a priori nella nostra mente? O è tutto a posteriori?» Come sempre un tema impegnativo, ma proveremo a uscirne vivi;
infine, prima della prossima newsletter usciranno altri due podcast, coi quali inizieremo a parlare di religione in Pascal e della Sinistra storica in Italia.
E questo è tutto anche per questa volta. Ora scappo: devo andare alla cena di classe di una mia quinta. Non chiedetemi perché la facciano a gennaio: è un discorso lungo, però a una pizzata non si dice mai di no. Per quanto riguarda noi, ci vediamo qui tra sette giorni esatti: non mancate.
Condivido del tutto le sue riflessioni sul fascismo. Tra l'altro, a proposito di non fare i conti, in una cittadina del Lazio c'è il monumento a Graziani, quello che usò il gas contro gli etiopi. Ma vorrei che provassimo a "spiazzare" i neofascisti. Ad esempio, andando, indipendentemente dai neofascisti, a deporre dei fiori ad Acca Larenzia, ricordando due ragazzi che non dovevano morire o anche nel luogo dove dei militanti di Avanguardia Operaia uccisero a sprangate Sergio Ramelli a Milano, uno studente del Fronte della Gioventù che allora aveva 19 anni. Avendo fatto parte di Avanguardia Operaia a Verona, pur non avendo nessuna responsabilità per quel fatto, ho sempre provato una profonda tristezza per quel tragico episodio. Se i protagonisti di quelle lotte politiche iniziassero a ricordare e ad onorare i morti innocenti dell'una e dell'altra parte, avremmo fatto un notevole passo verso la civiltà.