Il senso delle critiche nell'epoca dei social, ma parliamo anche di fiction e storia sulla Rai (La lunga notte, La Storia...), di elezioni, di Marco Aurelio, di Medioevo, di geologia
Parlavamo la settimana scorsa di bilanci, come se fossimo all’inizio dell’anno; e invece questo 2024 sta in realtà già scivolando via. Vi siete resi conto, credo, che febbraio è arrivato in un battibaleno, con tutte le incombenze del caso: a scuola, ad esempio, questo significa che cominciano ad arrivare i rappresentanti delle varie case editrici per proporre i loro libri, che si iniziano a delineare i contorni delle prossime commissioni d’esame, che si ragiona ormai con precisione di viaggi d’istruzione e uscite.
Anche per me si profilano quindi all’orizzonte nuovi impegni concreti. Come forse saprete, al liceo scientifico filosofia quest’anno sarà materia esterna (questa volta in tutti gli indirizzi dello scientifico, mentre l’anno scorso lo era stata solo alle scienze applicate) e quindi le mie due quinte si stanno già preparando alla visita di un altro docente o di un’altra docente che le esaminerà; ma sarà una cosa spero tranquilla, perché di lavoro ne abbiamo fatto e ancora ne faremo. L’incertezza, piuttosto, è sapere dove finirò io: dopo l’esperienza dell’anno scorso a Portogruaro e San Donà di Piave – bellissime città, per carità, ma piuttosto distanti da casa – spero di essere più vicino a Rovigo. Non che l’anno scorso ai miei figli la cosa sia per la verità dispiaciuta: i pochi giorni che loro hanno passato a Bibione mentre io terminavo gli esami nella vicina Portogruaro li hanno resi molto felici, e ne parlano ancora. Vedremo.
Ma non corriamo troppo avanti con la fantasia. Per ora ci sono novità anche più impellenti all’orizzonte, di cui vi parlerò a tempo debito; e soprattutto c’è una newsletter – con tutto il suo carico di libri, film e riflessioni – da proporvi. Cominciamo.
Quello che ho letto
Partiamo come sempre dai libri. Questa settimana in elenco non ci sono novità rilevantissime, ma comunque trovate tre saggi molto diversi tra loro per tema, tono e interesse.
Pensieri di Marco Aurelio: l’unico volume che questa settimana ci saluta definitivamente (perché l’ho terminato) è i Pensieri di Marco Aurelio, noto anche come Ricordi o Confessioni a sé stesso (o con una miriade di altre varianti). Come già vi ho raccontato, si tratta di un libro che ho letto perché scelto dagli abbonati del canale che partecipano al Club del Libro, la riunione mensile per discutere assieme, appunto, di una lettura comune. Ed era prevedibile che prima o poi saremmo arrivati a questo titolo, perché l’opera dell’imperatore romano vanta da sempre una certa fama, anche perché – come spesso accade con le opere classiche di questo tipo – è abbastanza accessibile e non difficile. Io, da parte mia, non avevo mai letto il libro per intero, quindi sono stato contento di esserci in un certo senso costretto; ed è stata un’esperienza tutto sommato molto positiva. La maggior parte delle mie riflessioni al riguardo me le terrò, com’è giusto, per la riunione del Club che si svolgerà questo mercoledì (se volete parteciparvi, anche solo come uditori, tutte le informazioni sugli abbonamenti sono qui); ora posso però dire che il libro mi è piaciuto ma non mi ha entusiasmato troppo. O, meglio, credo di dover distinguere due livelli diversi: da un lato, l’ho trovato un saggio bello, intenso e a tratti perfino commovente nella sua visione della vita e della virtù; dall’altro, però, mi è sembrato che dal punto di vista filosofico fosse il prodotto di una profonda crisi. Se infatti lo stile di Marco Aurelio è semplice ma allo stesso tempo efficace, addirittura in certi punti capace di ispirarti meglio e più potentemente di tanti libri di auto-aiuto contemporanei, allo stesso tempo, gira e rigira, sostiene in fondo solo un paio di tesi, che sono anche in buona misura tesi che vogliono insegnarti esclusivamente come sopportare gli strali della vita. Come a dire: in una vita piena di dolori, di angosce, di tormenti, tu cerca di rimanere fermo e risoluto, imperturbabile. Ecco, lo stoicismo, dal punto di vista filosofico, fu sicuramente questo, ma non fu solo questo; fu un sistema anche piuttosto complesso, in cui la logica andava a legarsi alla fisica, e in cui alla fine dei conti gli insegnamenti di vita erano conseguenza di una precisa visione del mondo. Qui la visione del mondo manca quasi del tutto, c’è solo un sopravvivere e sopportare, come se si fosse davanti a un manuale per chi è schiacciato dal peso della sorte. È questo che un po’ mi lascia perplesso davanti all’opera: per quanto Marco Aurelio mi possa ispirare, mi sembra che manchi tutto un pezzo, anche importante, al suo discorso. Comunque il libro è bello, è stato amato da generazioni di persone e può dire molto ancora oggi: lo si trova qui.
Svolta a destra? di ITANES: è passato parecchio tempo dalla prima volta in cui vi ho parlato di Svolta a destra?, il libro del Centro Studi ITANES che ha analizzato i dati delle elezioni politiche del 2022, quelle che hanno portato alla vittoria di Giorgia Meloni e alla conseguente nascita del suo governo. Come già ho scritto in passato, infatti, è un libro che è costituito sostanzialmente da una serie di saggi che cercano di inquadrare aspetti diversi di quel risultato elettorale, servendosi anche di sondaggi, analisi comparate e altri approfondimenti che aiutano a capire maggiormente come si muova l'elettorato italiano. Proprio per questa sua natura, non è particolarmente appassionante da leggere e soprattutto può essere “messo in pausa” quando si vuole, visto che i saggi sono sostanzialmente indipendenti l'uno dall'altro e alla lunga tendono anche un po' a ripetersi, perché, per quanto si analizzi le cose da punti di vista differenti, il fenomeno analizzato è sempre lo stesso. Complice anche il fatto che il governo attuale ogni tanto sembra improvvisamente traballare, mi è però venuta voglia in questi giorni di riprenderlo in mano e così lo ha portato un altro po' avanti, arrivando in particolare al capitolo in cui si analizza la percezione della violenza del dibattito politico sui social network. Tramite una serie di sondaggi a campione, i ricercatori hanno infatti analizzato come gli elettori italiani percepiscono il dibattito pubblico sui social, o meglio come lo percepivano nel 2022, durante la campagna elettorale per quelle elezioni. I dati sono interessanti, ma in particolare mi aspettavo, in questo caso, che emergesse un maggior fastidio da parte dell'elettorato, una più forte sensazione di malessere davanti alla polarizzazione e alla discussione spesso tossica che avviene sui social; direi invece che, nonostante non manchino punte di fastidio, sono rimasto abbastanza sorpreso dal fatto che la maggior parte degli italiani non ritenga che quel dibattito sia stato troppo inquinato e che quindi sia abbastanza tollerabile. Insomma, mi aspettavo molto peggio, segno che forse sono solo io ad essermi stufato di seguire la politica sui social (o forse che la gente si è ormai chiusa tutta in bolle in cui magari non si litiga più, ma non si sentono neppure le opinioni altrui). Comunque, mancano ancora diverse pagine alla fine, quindi prima o poi tornerò a parlarvi ancora di questo libro, che magari ci aiuterà anche a interpretare le future elezioni europee. Intanto, se volete comprarlo, lo trovate qui.
Un tesoro al piano terra di Andrea Moccia: questa settimana ho ripreso a leggere anche un altro libro che avevo iniziato qualche tempo fa e che poi, per un motivo o per l'altro (ma soprattutto per distrazione), avevo parzialmente messo da parte: Un tesoro al piano Terra di Andrea Moccia. Moccia lo conoscerete forse maggiormente col nome di Geopop: è infatti il fondatore di quel progetto di divulgazione geologica che trovate su tutti i principali social network, spesso con video brevi ma incisivi su tutto ciò che riguarda la scienza e in particolare appunto le scienze della terra. Il libro è il primo che ha pubblicato, ormai qualche mese fa, a cui poi, visto il successo, è seguito, mi par di capire, anche un fortunato sequel: si tratta di un testo introduttivo non tanto direi alla geologia quanto piuttosto all’importanza strategica di questa disciplina del mondo di oggi. Moccia si ingegna, con un tono anche divertente ma non stupido, a farci capire qualcosa di più delle rocce e degli idrocarburi, con l'intento però anche di farci capire qualcosa del mondo di oggi, delle lotte tra Cina e Stati Uniti per aumentare la loro influenza in certe zone del mondo e così via. Nonostante io non sia affatto un appassionato di queste materie, il libro riesce facilmente a catturarti, e risulta fruibile a livelli molto diversi, sia per chi ha già studiato queste materie anche se magari non è uno specialista, sia per chi ne è invece completamente digiuno. Insomma, consigliato: lo potete comprare qui.
Quello che ho visto
Passiamo ora ai film, anche se per la verità in lista questa settimana non c’è neppure un lungometraggio. Ho scelto infatti di dar spazio da un lato a un tema di cui abbiamo già parlato in passato (ripreso da un video su YouTube), e dall’altro di concentrarmi su due fiction storiche di cui si è parlato moltissimo negli ultimi giorni.
La Storia episodio 1 (2023), di Francesca Archibugi, con Jasmine Trinca, Valerio Mastandrea, Mattia Basciani: già La Storia, il romanzo di Elsa Morante, è complesso e per certi versi controverso; non poteva non esserlo – anche se in tono minore – pure la fiction che da quel romanzo è stata tratta. Intanto, bisogna fare una premessa: alla sua uscita in libreria, cinquant’anni fa, nell’ormai lontano 1974, La Storia suscitò un vespaio; come si può ricostruire ad esempio tramite questo articolo (che a sua volta recensiva un libro appositamente scritto sull’argomento), il romanzo fu duramente attaccato dalla critica, anche da quella della sinistra a cui la Morante teoricamente apparteneva, con toni piuttosto duri. Le accuse furono molte: quella di non essere ideologicamente allineato, e negli anni '70 a queste cose ci si stava ben attenti; quella di giocar troppo col patetico e col sentimentale; e poi questioni stilistiche a non finire, tanto che l’allora riverito critico Alberto Asor Rosa, come si ricorda anche nell’articolo sopracitato, lo paragonò a un kolossal hollywoodiano, in tempi in cui questo paragone veniva considerato offensivo. Oggi il giudizio sul romanzo – che vendette all’epoca più di un milione di copie – è molto meno duro, anzi forse addirittura rovesciato, segno che certi pregiudizi col tempo sono anche venuti a cadere; e sulla fiction di oggi, di pregiudizi politici ce ne sono ancora meno, tanto che rischia anzi di lasciarci indifferenti. Io, come avrete letto, per la verità ho visto per ora solo il primo episodio (la miniserie ne conta in tutto 8), e già sono un po’ stufo; non perché l’adattamento sia fatto di per sé male o perché la storia sia scialba, ma perché non riesco mai a farmi catturare dalle fiction italiane. Qui, tra l’altro, l’operazione è condotta almeno con una certa intelligenza: tra gli sceneggiatori, solo per fare un esempio, c’è Francesco Piccolo, mentre il ruolo principale è affidato alla brava Jasmine Trinca; alla regia poi c’è Francesca Archibugi, di cui non mi è piaciuto molto il recente Gli sdraiati, ma che in passato ha dato sicuramente buone prove. Insomma, non c’è niente che non vada, almeno sulla carta; eppure, da un certo punto di vista non va: basti dire che dopo un episodio non ho francamente la minima voglia di andare avanti e vedere quelli successivi. Mi chiedo se sia un problema della storia – ormai fin troppo nota e quindi priva di mordente, almeno per me – o della realizzazione; però davanti agli sceneggiati italiani mi rimane sempre questa sensazione di incompiutezza. Sembra sempre di essere davanti a una cosa fatta con le migliori intenzioni e tutti i buoni propositi del caso, ma a cui manca sempre un quid per convincere davvero: siano le luci (qui fin troppo virate al seppia, troppo grigie), le scenografie, la recitazione dei comprimari (sempre troppo teatrali, sempre troppo romani), il ritmo del montaggio (sempre lento, o convenzionale). Insomma, forse l’operazione può funzionare per chi è abituato a guardare le fiction della Rai, e può trarre da questo adattamento un qualche giovamento (magari qualche giovane – ammesso che guardi ancora la Rai – imparerà, così, cosa fu la Seconda guerra mondiale in Italia), ma mi rimangono dei dubbi per tutti gli altri, che difficilmente, temo, verranno catturati da storie e ritmi del genere. Comunque, se siete curiosi, lo trovate su RaiPlay.
La lunga notte - La caduta del Duce episodio 1 (2024), di Giacomo Campiotti, con Alessio Boni, Duccio Camerini, Marco Foschi: a proposito di fiction e di Rai, parliamo ora dell’altro sceneggiato storico che è arrivato sugli schermi proprio in questi giorni e che ha suscitato ancora più polemiche – questa volta anche politiche – di quanto non abbia fatto La storia: sto parlando di La lunga notte, prodotto con molta enfasi da Luca Barbareschi. Il periodo storico raccontato è più o meno lo stesso dell’altra fiction di cui abbiamo appena finito di parlare: gli anni della Seconda guerra mondiale, col fascismo ormai alle corde e la popolazione italiana in difficoltà. Solo che qui ci si concentra su un fatto molto più specifico e, se vogliamo, “alto”, perché al centro della storia ci sono le alte sfere del potere: la trama verte infatti su quello che accadde il 25 luglio del 1943, quando, al termine di una burrascosa seduta del Gran Consiglio del Fascismo, Mussolini venne di fatto deposto dai suoi gerarchi e poco dopo arrestato, per ordine di Vittorio Emanuele III. Ora, quella pagina della nostra storia è importante: io, per dire, ci ho fatto anche un pezzo della mia tesi di laurea (occupandomi per la verità più della reazione della popolazione che dell’atto in sé), quindi ogni anno anche coi miei studenti ci insisto parecchio; e un fatto del genere meriterebbe di essere raccontato al grande pubblico anche in modo serio, perché permette di capire molte cose dell’Italia di allora (e forse non solo di allora). La fiction, però, mi sembra fare un errore capitale, che è ben evidente fin dal primo episodio: non ha (nessun) interesse a proporre un’analisi storica di quanto accadde, ma vuole solo spettacolarizzare un momento clou della nostra storia. Cioè, detta in termini più diretti: prende la storia e la trasforma in thriller, anche quando non ci sarebbe in realtà nulla per cui stare in tensione o emozionarsi. Cosa accade infatti nel primo episodio (l’unico che ho visto finora, e forse l’unico che vedrò)? Il protagonista è Dino Grandi – presentato come un uomo dello Stato, addirittura un patriota, che si trova dentro al regime fascista quasi per sbaglio –, che si muove per cercare di salvare l’Italia dal delirio di Mussolini, vecchio satiro quasi schiavo della sua violenza, incapace di ammettere che la guerra è perduta. In tutto questo avvengono anche delle mistificazioni: primo, l’amico di Grandi che smuove la storia, rapito e ucciso dall’Ovra, non è per la verità mai esistito, è un personaggio di pura fantasia, creato tra l’altro per darci l’idea che l’Italia del luglio 1943 fosse completamente in mano all’Ovra e che perfino Grandi temesse continuamente per la sua vita; secondo, Mussolini sembra nella fiction pienamente padrone della situazione, quando sappiamo bene che già nel marzo dello stesso anno (cioè quattro mesi prima degli eventi narrati) c’erano stati pesanti scioperi al nord e il regime era già sull’orlo del crollo; terzo, Grandi non fu davvero l’antagonista di Mussolini, la sua non fu una sfida all’O.K. Corral, ma quello che accadde il 25 luglio fu in una certa misura concordato. Pochi ricordano, infatti, che è vero che il Duce venne sfiduciato a causa di un Ordine del Giorno proposto da Dino Grandi, ma quell’Ordine del Giorno era stato presentato a Mussolini già alcuni giorni prima della seduta, e il Duce non aveva avuto granché da eccepire; e pochi ricordano (anche se magari nella fiction ad un certo punto lo si vedrà) che quell’OdG fu votato anche da fedelissimi del capo, come suo genero Galeazzo Ciano. Mussolini, da quanto ne sappiamo, non era l’uomo che girava con la rivoltella pronta a sparare contro qualsiasi gerarca, come si vede ad un certo punto nello sceneggiato, ma in quel momento era un uomo in difficoltà, stanco e sfibrato, pronto alla resa: il 25 luglio giunse non certo inatteso, e lui non vi si oppose veramente, rassegnandovisi. E, allo stesso modo, Grandi non era quel patriota valente che la fiction vorrebbe presentarci, non era l’eroe del giorno: era un fascista non della primissima ora ma quasi, entrato nei Fasci di combattimento nel 1920; era stato uno dei leader della corrente minoritaria che si era opposta a Mussolini nel congresso del 1921, quello che aveva poi portato alla nascita del PNF, ma poi questa sua rivalità con Mussolini era stata messa con gli anni ampiamente da parte. Nonostante non fosse di indole violenta e avesse guardato allo squadrismo con un certo distacco, Grandi aveva approvato ed appoggiato tutto quello che il fascismo aveva fatto nei vent’anni precedenti, ad esempio anche proteggendo Mussolini e il partito durante lo scandalo seguito alla morte di Matteotti; e da quelle scelte aveva tratto onori e privilegi. Non era l’eroe che la fiction ci presenta: era più moderato di altri fascisti, certo, ma era anche uno dei capi di quello stesso fascismo. La notte del 25 luglio fu la conclusione di una faida interna, per la verità già ampiamente emersa nei mesi precedenti, volta quasi esclusivamente a salvarsi la pelle nel momento in cui ci si era resi conto che la guerra era persa; non fu un momento d’eroismo e d’orgoglio nazionale, ma una mezza farsa. Certo, con le farse non si fanno le fiction, perché nessuno si appassiona davanti alle farse; però se si tira in ballo la storia sarebbe bello che ci fosse anche un po’ di accuratezza. Se vi interessa, lo sceneggiato lo trovate anch’esso su RaiPlay.
Come non insegnare la filosofia con Michele Boldrin e Massimo Mugnai: sapete già bene, senza che ve lo spieghi io, quanto siano ormai efficaci gli algoritmi utilizzati dai social network e dai siti internet per proporvi qualcosa che possa interessarvi: quando accedete a TikTok trovate una sfilza di video che si conformano ai vostri gusti senza neppure doverli cercare; quando entrate su Amazon trovate una serie di prodotti che potrebbero interessarvi anche in questo caso senza neppure doverli cercare; e, infine, quando caricate YouTube trovate video che potrebbero piacervi. Magari anche i miei video la prima volta li avete trovati in questo modo, un po' per caso e un po' per fortuna. Ovviamente quindi capita anche a me, di tanto in tanto, di trovare nell'home page di YouTube qualche video che si collega a cose che ho letto o cercato altrove, e questa settimana mi è capitato anche con questa chiacchierata online che ha avuto per protagonisti l'economista Michele Boldrin e il filosofo toscano Massimo Mugnai. Boldrin è un economista piuttosto noto e probabilmente già lo conoscete: è molto attivo sul web nel commentare la situazione politica italiana ed internazionale, ma spesso i suoi interventi si estendono anche al campo culturale. Mostra un'impostazione piuttosto netta sulle questioni e a volte ha anche un carattere burrascoso, ma in generale, se lo si sa prendere, i suoi video sono anche stimolanti, sia quando ci si trova d'accordo con lui, sia quando invece si è in disaccordo. Ma il video in questione l'ho ascoltato con piacere soprattutto per la presenza di Mugnai, filosofo di cui abbiamo parlato anche qui qualche mese fa (se vi interessa, recuperate le newsletter di maggio 2023): in effetti nell'incontro con Boldrin, Mugnai ha presentato e discusso il suo ultimo libro, Come non insegnare la filosofia, che a suo tempo ho letto e commentato anche qui. Come immaginavo, le tesi di Mugnai sono più condivisibili quando le presenta a voce che non quando le scrive: come lui stesso d’altronde ammette all'interno della chiacchierata con Boldrin, il libro è stato scritto con un intento polemico, forse anche esacerbando un po' i toni con lo scopo di far risaltare i limiti dell'insegnamento della filosofia nei licei italiani. A suo tempo, quando recensii il libro, sottolineai che c'era qualcosa di vero nelle tesi di Mugnai ma che, allo stesso tempo, mi sembrava che il professore fiorentino tendesse un po' troppo ad estremizzarle e non tenesse conto di tanti altri fattori e problemi forse più urgenti; e nel video lui stesso risponde in parte a queste critiche, mostrando meglio, in maniera anche più diretta, qual è il succo di questa accusa al sistema italiano. Per farla breve, Mugnai rimprovera alla scuola italiana di avere un approccio troppo storicista, di formare cioè più eruditi – che conoscono per filo e per segno la storia della filosofia – che non persone che sanno pensare. Su questa tesi gli do anche in buona misura ragione: è vero che l'impianto stesso della scuola è in Italia fondato sulla capacità di ripetere quello che si è studiato sul libro, imparando a memoria un sacco di nomi e di date, e che conta di più il saper riprodurre che il saper elaborare (o anche solo rielaborare). Noi a scuola non formiamo filosofi ma studiosi di filosofia, non forniamo artisti ma studiosi di storia dell'arte, non forniamo scrittori ma studiosi di letteratura: è una scuola che effettivamente è ancora strettamente legata all'erudizione, una scuola per studiosi che si compiacciono del loro sapere, ma che sanno in realtà fare molto poco. Il paradosso, ben esemplificato da Mugnai nella chiacchierata con Boldrin, è che siamo il paese occidentale che dedica più ore di insegnamento alla filosofia nei licei e però anche quello col minor numero di filosofi di rilievo a livello mondiale: il segno, molto banalmente, che qualcosa non funziona nel sistema. Poi, come dicevo riguardo al libro, in realtà a mio avviso non c'è bisogno di cancellare completamente l'impostazione della nostra scuola, di bruciare il manuale o di far saltare l’insegnamento della filosofia: si tratta, invece, di cambiare piuttosto la prospettiva globale della scuola più che di un singolo insegnamento, di formare anche professori che abbiano un approccio diverso, e forse anche di cambiare il sistema di valutazione. Quindi forse servirebbe un libro dal titolo Come non si insegna, più che non Come non si insegna la filosofia. Ma, come dicevo, le tesi di Mugnai, soprattutto anche per il carattere affabile del professore, sono interessanti e meritano di essere discusse. Se vi interessa, il suo intervento lo potete ascoltare qui.
Quello che ho pensato
Credo che questa settimana sia giunto il momento di parlare di un tema complicato, che mi costringerà anche a qualche equilibrismo, ma forse necessario: quello della critica. Un tema che è sempre stato forse presente, ma che è diventato spinoso da quando ci sono i social network e da quando tutti – chi più, chi meno – ci siamo trasformati in creatori di contenuti.
In primo luogo, devo confessare la mia naturale predisposizione (forse direi addirittura amore) per questo genere giornalistico. Da ragazzo adoravo leggere le critiche sui giornali o sulle riviste, fossero esse rivolte a libri, film o comizi di politici. Anzi, più erano feroci e taglienti, più quelle critiche mi tenevano attaccato alla pagina.
Un po’ alla volta, anch’io, da ragazzo, imparai a farle: in famiglia o con gli amici, e poi addirittura anche con le prime fidanzate, mi divertivo a fare l’analisi dei film che vedevamo al cinema, mostrandone pregi ma spesso anche difetti, demolendo opere che mi sembravano superficiali, non riuscite, deludenti. Credo che queste critiche fossero anche efficaci e mi venissero piuttosto bene: tanto bene che alcuni mi venivano a chiedere un parere davanti al film o al disco di turno, mentre altri finivano per guardarmi storto, per paura che presto o tardi avrei demolito anche il loro film preferito. Perché sì, sapevo essere anche feroce, come solo gli adolescenti sanno esserlo.
In ogni caso, ritenevo che la critica fosse in realtà una azione importante, forse addirittura necessaria: aiutava a mettere a fuoco l’opera, a giudicarla e valutarla, e a distinguere così quello che era valido da quello che non lo era. Non criticavo tutto, difatti: con la stessa verve con cui attaccavo quello che mi sembrava insufficiente, esaltavo anche quello che invece mi pareva bello, originale, interessante. Nel mio armamentario c’erano critiche feroci ma anche lodi sperticate.
E mi sembrava, così, che la critica costituisse quasi un’operazione di pubblica utilità, un dono per gli altri (che così potevano sapere meglio cosa andare a vedere e cosa no). Anch’io, d’altra parte, le critiche dei giornali e delle riviste le utilizzavo così: per farmi un’idea veloce ed efficace riguardo a dove spendere i miei (pochi) soldi. Quando campavamo di misere mancette settimanali e tutto (cinema, dischi, libri, fumetti) costava, bisognava andare a colpo quasi sicuro.
Poi sono arrivati i social network, e la faccenda si è complicata. Da un lato, infatti, luoghi come Twitter alimentavano la passione per la critica, perché le analisi taglienti e magari sarcastiche in quei social network trovavano non solo spazio, ma avevano anche successo; dall’altro, però, aumentava esponenzialmente anche il pubblico dei possibili lettori. Se prima, cioè, le mie critiche toccavano al massimo una stretta cerchia di amici, ora potevano arrivare a molte persone mai viste prima, e, in certi casi, perfino all’autore dell’opera criticata.
Ricordo il momento in cui me ne resi conto per la prima volta. Credo fosse il 2009 o il 2010, quindi stiamo parlando ormai di diversi anni fa. La comunità di Twitter era ancora relativamente piccola, ma io, in quella fase, avevo già un discreto seguito. Un giorno lessi un commento di un noto giornalista che mi era sembrato un po’ superficiale e stupido. Mi pare riguardasse i giovani, ma onestamente neppure ricordo più bene l’argomento; e comunque era una stupidaggine come tante, di quelle che escono a tutti prima o poi. Quella volta la sciocchezza l’aveva detta quel giornalista lì, un’altra volta avrebbe potuto dirla chiunque altro.
Io, ricordo, feci un tweet sull’argomento, un tweet sarcastico, in cui me la prendevo con il giornalista in questione. Niente di volgare o violento – non scrivo mai cose di questo genere –, ma forse un po’ supponente sì; e lo postai, senza pensarci più di tanto. Il tweet, a quanto ricordo, ebbe un discreto successo e iniziò – come si usava allora – ad essere condiviso; e dopo l’iniziale divertimento iniziai a chiedermi: «Ma non è che adesso questo tweet arriva anche al giornalista?», visto che il personaggio era piuttosto attivo all’epoca su quel social. E ricordo che, nel momento stesso in cui pensai a questa cosa, mi dissi: «Ma speriamo di no, io non volevo mica criticarlo davvero».
Perché sì, c’è differenza tra quello che si può dire “alle spalle” di una persona e quello che si può dire in faccia a quella stessa persona. Badate bene, non si tratta di franchezza e onestà: si tratta, piuttosto, di consapevolezza del peso delle parole. Se vedo in TV, che ne so, Vlahovic o Lautaro o Giroud sbagliare un gol a porta vuota posso anche urlare al teleschermo: «Ma dai, ma che scarso! Cambia mestiere!»; ma mai glielo direi in faccia. Non tanto perché abbia paura della reazione del centravanti di turno, quanto piuttosto per due motivi più seri: 1) perché non sarebbe affatto vero che quei tre siano scarsi, visto che si tratta di campioni incappati in un semplice errore momentaneo; 2) perché con gli amici, in famiglia, in un ambiente chiuso ci si lascia andare a commenti esagerati che non hanno contatto con la realtà.
Se leggo un articolo che contiene una tesi che mi sembra poco condivisibile, tra me e me posso anche pensare (e scusate il linguaggio): «Mamma mia, che cagata». Ma in realtà lo so che non è davvero “una cagata”, e all’autore dell’articolo non mi rivolgerei mai in quei termini: un po’ per buona educazione (e la buona educazione è sempre importante, soprattutto di questi tempi), un po’ perché appunto non sarei più tra me e me, e dovrei cercare di essere più onesto, preciso e articolato. E così direi: «Non sono d’accordo su questo e questo punto». Da solo uso il termine “cagata” esclusivamente per pigrizia, e perché mi accontento di un’analisi superficiale.
Ecco, purtroppo i social network – e questo ormai è indagato da diversi studi – tendono a non farci comprendere questo salto: ci fanno credere di essere ancora da soli, a commentare nella nostra cameretta, quando invece siamo davanti a tutti e magari davanti anche all’autore stesso di quell’opera o di quell’articolo che critichiamo. Diciamo “che cagata!” come se fossimo in salotto o in bagno, ma in realtà ci ascolta (potenzialmente) il mondo, e non ce ne rendiamo davvero conto.
Non è raro, ad esempio, che nei commenti ai miei video ogni tanto salti fuori qualche epiteto offensivo: gente che mi prende in giro per l’aspetto fisico, o per come parlo, o per chissà quali altre cose. E sono commenti talmente assurdi che mi fanno sempre dire: «Ma questo tizio l’ha capito che sta scrivendo sotto ad un mio video e mi potrei accorgere di quello che scrive?»
Per fortuna ho 44 anni e ormai a quest’età di quello che pensano dei ragazzini (o a volte anche sessantenni) scemi e maleducati non me ne importa granché, però non so se percepirei allo stesso modo quei deliri se di anni ne avessi 15 e un’autostima più fragile.
Comunque, quella prima esperienza col giornalista su Twitter, ormai parecchi anni fa, e forse anche la naturale maturazione che prima o poi arriva per tutti, mi hanno portato un po’ alla volta a moderare i toni delle mie critiche, a cercare di renderle più costruttive, e a soffermarmi maggiormente sulle opere che mi piacciono che non su quelle che mi deludono.
Perché ci sarebbe anche un altro discorso da fare, altrettanto importante: qual è il senso di queste critiche? A cosa servono? Perché le facciamo? Che gusto, ma in fondo anche che utilità, c’è nel demolire il lavoro altrui?
Io credo che in realtà un’utilità, nel criticare, ci sia ancora, e forte: perché, filosoficamente parlando, Locke e Kant ci insegnano che la critica è necessaria per individuare i limiti di ogni cosa, e quindi anche il campo di validità di quella cosa stessa. Però dev’essere, proprio per questo, una critica con una direzione chiara, che nasce da un’esigenza che potremmo definire costruttiva; una critica, cioè, che serve – anche a volte con toni duri, se vogliamo pure col rimprovero – a costruire e non solo a demolire.
Insomma, si può essere critici sferzanti, mi sembra, ma lo si deve fare anche con rispetto del lavoro altrui (soprattutto se chi colpiamo ci legge), con un intento che sia positivo almeno tanto quanto quello di chi ha creato l’opera. Volendo esagerare, direi che per criticare ci vuole anche una punta d’amore: bisogna mettere da parte invidie, odii, rancori, e amare ciò che si critica, visto che solo in quel caso si può andare davvero al cuore delle questioni, e comprenderle davvero.
Perché, diciamolo: criticare è enormemente più facile che fare. “Chi non sa fare, insegna”, dicevano i nostri vecchi, e avevano in parte ragione: io ad esempio mi trovo ancora oggi (anche nelle righe qua sopra) a criticare scrittori, registi, attori, filosofi, ma probabilmente valgo meno del più scalcagnato autore che finisce tra le mie grinfie. Spero solo di non essere inutilmente feroce, e di dare più peso a quello che trovo interessante che a quello che non mi convince.
Alla fin fine, per concludere, la cosa migliore sull’argomento forse l’ha scritta Brad Bird all’interno della sceneggiatura di Ratatouille, quando, alla fine del film, mette in bocca ad Anton Ego le seguenti parole: «Per molti versi la professione del critico è facile: rischiamo molto poco, pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il proprio lavoro al nostro giudizio. Prosperiamo grazie alle recensioni negative, che sono uno spasso da scrivere e da leggere, ma la triste realtà a cui ci dobbiamo rassegnare è che, nel grande disegno delle cose, anche l'opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale».
Quello che ho registrato e pubblicato
Facciamo ora, come sempre, il punto anche sui video e sui podcast che sono usciti questa settimana:
I film di Chaplin tra storia e filosofia: concludiamo il percorso su Charlie Chaplin, analizzando in particolare i suoi film più importanti
Storia dei consumi 12: il consumismo dopo la Seconda guerra mondiale: negli anni del boom economico i consumi plasmarono profondamente la società
"Sulla libertà" di Stuart Mill - parte 11: torna John Stuart Mill, con alcune classiche pagine in cui si difendono gli stili di vita originali
La fede come soluzione ai nostri problemi esistenziali (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Introduzione a Baruch Spinoza (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
Socialisti e cattolici nell’Italia di fine Ottocento (per il podcast “Dentro alla storia”)
Quello che devi fare per seguirmi sui social
Ah, prima di dimenticarci vi lascio anche un veloce “reminder” di dove e come mi potete trovare sui social:
Il canale YouTube | Instagram | Facebook | Twitter/X | TikTok | Threads
Quello che puoi fare per sostenere il canale
Se quello che faccio vi piace e volete darmi una mano a farlo sempre meglio (con attrezzatura nuova, libri nuovi ed altro ancora), potete sfruttare alcune modalità di sostegno che ho implementato per voi. In primo luogo ci sono gli abbonamenti, che trovate esposti qui di seguito; poi c’è il merchandising se vi piacciono le magliette, ci sono le donazioni se vi trovate meglio con Paypal (altre info sempre qui di seguito) e, infine, ci sono libri che non fanno mai male e che ci fanno arrivare qualche centesimo di euro. Ecco, a tal proposito, i nostri consigli della settimana.
Medioevo sul naso di Chiara Frugoni: Chiara Frugoni (scomparsa nel 2022) è stata una delle più importanti storiche italiane della sua generazione, specializzata nel Medioevo. I suoi studi, infatti, hanno saputo delineare un’epoca, a volte indagandone anche i lati più curiosi o inediti. Questo libro è, in questo senso, uno dei suoi più belli ed interessanti e si focalizza su tutte le principali invenzioni di quella fantastica epoca storica. Costa 16 euro e, da qualche anno, è considerato ormai un vero classico: lo potete acquistare qui.
sui social questa settimana ho segnalato come al solito diversi libri appena usciti che mi paiono interessanti, una sorta di “lista della spesa” che dovrebbe rivelarsi utile anche in primis per me. Ecco i volumi, se ve li siete persi (se vi interessano, cliccate sopra alle immagini per altre informazioni):
C’è poi un nuovo modo per sostenere il progetto ed è quello dell’abbonamento. Sotto ai video, di fianco al classico pulsante “Iscriviti”, ne è comparso uno nuovo chiamato “Abbonati”. Cliccando lì potete consultare tutte le varie proposte e cosa viene dato in cambio: da video-dirette in esclusiva a un vero e proprio manuale di filosofia a puntate. Ulteriori informazioni le trovate qui.
Se poi non volete né leggere, né abbonarvi, si può sempre liberamente usare Paypal. E grazie anche a chi ha già donato nelle settimane scorse!
Quello che c’è in arrivo
Chiudiamo come sempre con una veloce panoramica su quello che dovrebbe (o sarebbe meglio dire “potrebbe”, visto che l’incertezza qui regna sovrana) uscire sul canale la prossima settimana:
domani, intanto, è previsto il podcast storico, con una puntata dedicata a Francesco Crispi;
mercoledì, solo per gli abbonati, arriva poi di sicuro l’appuntamento del Club del Libro sui Pensieri di Marco Aurelio;
giovedì credo uscirà un nuovo video su Guglielmo di Ockham, per portare avanti l’approfondimento che abbiamo cominciato da qualche settimana;
venerdì vorrei quindi riuscire a fare un video per fare il punto sulla guerra di Israele a Gaza, a quattro mesi dall’inizio del conflitto;
sabato e domenica torneranno quindi i podcast, con, rispettivamente, una nuova puntata su Spinoza e sulla politica italiana alla fine dell’Ottocento;
lunedì prossimo, subito prima della newsletter, forse ci sarà spazio per un video breve, uno short, su argomento però ancora da definire (ne ho due o tre in ballo).
E questo è tutto anche per questa settimana. Qui in Veneto, tra l’altro, la settimana prossima – da lunedì a mercoledì compresi – ci saranno tre giorni di vacanza per il “ponte di Carnevale”: dovrei avere quindi anche un po’ di tempo per rifiatare. Auguro anche a voi qualche breve pausa e… a lunedì prossimo!
Salve prof. Ferretti, ho conosciuto il Suo testo in una pagina Facebook e mi piacerebbe aprire un confronto con Lei su questa faccenda dei social e le critiche.
Mi scuso per la prolissità ma sono una persona che ama leggere e scrivere, e ne vado orgogliosa. Non perché mi renda "meglio degli altri" ma perché solo così riesco ad approfondire i temi di mio interesse sfruttando le mie capacità residue - ho una disabilità visiva e a nulla mi servono i contenuti virali con le fotine e i videetti da 30 secondi che piacciono ma sono tanto brevi da venir dimenticati un secondo dopo.
Fra le altre cose mi fa pure un po' strano chiamare "professore" una persona dell'età mia come fossimo a scuola, ma siccome io sono stata educata a rispettare "per ruolo" chi non conosco, essere coetanei non giustifica dare del "tu" e considerare qualcuno amico o peggio fratello come nei social si è di frequente abituati a fare con chi la pensa allo stesso nostro modo.
Detto questo, mi permetto di aggiungere il mio contributo al Suo pensiero.
Sentire le Sue parole mi fa tornare in mente il passo di un libro letto in passato.
Si chiamava "la sposa", di Mauro Covacich e il passo a cui mi riferisco parla di Alessandro Bono, un cantante esibitosi a Sanremo nel 1994 e a cui molto sto pensando in questo periodo di massacro social fatto a chiunque non rispecchi la perfezione idealizzata dall'influencer in voga al momento - che poi anche lì sono tanti, ognuno ha i propri canoni di "perfezione" o quanto meno di decenza, e già su quello si litiga.
Così Covacich scriveva di Bono:
"...è soprattutto la voce che non funziona... se è davvero un campione, dovrebbe sapere che non si improvvisa niente ... tutti sanno cantare sotto la doccia, ma esibirsi in diretta tv è un'altra storia ... Bacchettare questo ragazzo mi fa sentire bene, l'accigliato monologo interiore di un giovane professore con la vista lunga. Una lezione che gli arriva dalla vita ... forse gliela sto impartendo io."
Non riporto ovviamente tutto il pezzo ma l'autore parlava di una serata trascorsa a casa di persone che conosceva poco, a guardarsi Sanremo spensierati. Tutti ridevano di Bono e della sua """imbranatura""" ma il "massacro" rimaneva confinato a quel salotto di casa e in tutti gli altri salotti con le tv accese.
Allora è inevitabile chiederselo: fosse stata un'esibizione del 2024, a quel ragazzo l'avrebbero spinto a togliersi la vita a forza di insulti.
E qui mi ricollego al Suo discorso, prof. Ferretti: "cosa succederebbe se certi deliri venissero letti da uno che di anni ne ha 15 e un'autostima fragile" e io aggiungo: "... O a chi sta già soffrendo per qualunque altra ragione?"
Alessandro Bono è morto a maggio 1994, pochi mesi dopo Sanremo. A neanche trent'anni. Era malato da tempo e, incurante di quanto consigliato dai dottori, ha voluto partecipare a Sanremo portando una canzone che parlava proprio di quanto fosse fugace la vita. Vista quell'esibizione a posteriori cambia tutto, diresti "Alessandro ha avuto un coraggio enorme" non la chiameresti più "esibizione scarsa" ma "era il meglio che potesse dare. Già tanto che sia riuscito a completarla."
Nessuno del pubblico sapeva le sue condizioni, ne siamo venuti a conoscenza solo dopo la sua morte. Lui NON voleva si sapesse e, probabilmente, aveva ragione lui. Siamo noi ascoltatori del 2000 che sbagliamo e reputiamo sia un diritto quello di conoscere vita, morte e miracoli di qualsiasi personaggio pubblico.
Covacich in quel passaggio del suo libro, ha colto perfettamente il punto della questione: essere persone "con tutta la vita davanti" e ridere di chi va in pubblico e sta palesemente in difficoltà, mette d'accordo anche una compagnia di sconosciuti e il gruppo inevitabilmente rafforza il dileggio fino a farlo diventare odio.
Mettici poi che nei social il "branco" diventa di migliaia, cosa dico milioni... E si può arrivare a distruggere una persona.
"Bacchettare quel ragazzo mi fa sentire bene". Quella frase ce l'ho incisa nel cervello perché il prof. Covacich ha messo nero su bianco una sensazione più diffusa di quanto si pensi.
Lei si chiede: "qual è il senso di queste critiche? Perché le facciamo? Che gusto e utilità ha demolire il lavoro altrui?"
Probabilmente la risposta è "bacchettare [PERSONA] mi fa sentire bene / mi fa sentire parte di un gruppo / mi fa sentire MIGLIORE". Rispetto a cosa, migliore? Rispetto alla mediocrità e la mancanza di attenzioni normalmente ricevute sicuramente. Ma più distruttiva è la critica, più chi la esercita sente di essere una voce "fuori dal coro" senza rendersi conto che invece ha lo stesso valore di chi, durante un momento di silenzio, si lascia andare a qualche sfogo di gas corporale dalla gola o più in basso...
Naturalmente per quanto mi riguarda vale anche per chi ama commentare in modo violento le notizie di cronaca nera.
Anche di fronte all'ennesima donna uccisa, io come donna non mi sentirei di contribuire positivamente alla società insultando il carnefice o scrivendo "però le donne dovrebbero qui dovrebbero lì".
Idem per i politici: posso prenderli in giro nel merito di ciò che fanno e dicono, sì, ma il miglior modo per prenderne le distanze è non votare quelli che non approvo. Dopo? Vanno al potere lo stesso? Io però almeno in coscienza ho fatto quello che era nelle mie possibilità. E se li critico cerco comunque prima di approfondire, perché su quei temi soprattutto i giornali e social ci sguazzano.
In ultima, i paladini dell'"anti-buonismo" "anti-politicamente-corretto": fanno i maleducati e quando glielo si fa notare, ti dicono "non si può più dire niente, il buonismo imperante, questo politically correct ha stancato"...
Avere una parola cattiva per ognuno, non è libertà. Perché per ogni parola cattiva che da abitudinario demolitore tu lanci a chi è diverso da te, prima o dopo ne ricevi il doppio anche tu e proprio perché pontifichi sulle difficoltà degli altri, finisci massacrato alla prima minima debolezza che hai pure tu.
Avrei un sacco altro da dire ma ho scritto anche troppo.
Arrivederci, Elena Brescacin