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Salve prof. Ferretti, ho conosciuto il Suo testo in una pagina Facebook e mi piacerebbe aprire un confronto con Lei su questa faccenda dei social e le critiche.

Mi scuso per la prolissità ma sono una persona che ama leggere e scrivere, e ne vado orgogliosa. Non perché mi renda "meglio degli altri" ma perché solo così riesco ad approfondire i temi di mio interesse sfruttando le mie capacità residue - ho una disabilità visiva e a nulla mi servono i contenuti virali con le fotine e i videetti da 30 secondi che piacciono ma sono tanto brevi da venir dimenticati un secondo dopo.

Fra le altre cose mi fa pure un po' strano chiamare "professore" una persona dell'età mia come fossimo a scuola, ma siccome io sono stata educata a rispettare "per ruolo" chi non conosco, essere coetanei non giustifica dare del "tu" e considerare qualcuno amico o peggio fratello come nei social si è di frequente abituati a fare con chi la pensa allo stesso nostro modo.

Detto questo, mi permetto di aggiungere il mio contributo al Suo pensiero.

Sentire le Sue parole mi fa tornare in mente il passo di un libro letto in passato.

Si chiamava "la sposa", di Mauro Covacich e il passo a cui mi riferisco parla di Alessandro Bono, un cantante esibitosi a Sanremo nel 1994 e a cui molto sto pensando in questo periodo di massacro social fatto a chiunque non rispecchi la perfezione idealizzata dall'influencer in voga al momento - che poi anche lì sono tanti, ognuno ha i propri canoni di "perfezione" o quanto meno di decenza, e già su quello si litiga.

Così Covacich scriveva di Bono:

"...è soprattutto la voce che non funziona... se è davvero un campione, dovrebbe sapere che non si improvvisa niente ... tutti sanno cantare sotto la doccia, ma esibirsi in diretta tv è un'altra storia ... Bacchettare questo ragazzo mi fa sentire bene, l'accigliato monologo interiore di un giovane professore con la vista lunga. Una lezione che gli arriva dalla vita ... forse gliela sto impartendo io."

Non riporto ovviamente tutto il pezzo ma l'autore parlava di una serata trascorsa a casa di persone che conosceva poco, a guardarsi Sanremo spensierati. Tutti ridevano di Bono e della sua """imbranatura""" ma il "massacro" rimaneva confinato a quel salotto di casa e in tutti gli altri salotti con le tv accese.

Allora è inevitabile chiederselo: fosse stata un'esibizione del 2024, a quel ragazzo l'avrebbero spinto a togliersi la vita a forza di insulti.

E qui mi ricollego al Suo discorso, prof. Ferretti: "cosa succederebbe se certi deliri venissero letti da uno che di anni ne ha 15 e un'autostima fragile" e io aggiungo: "... O a chi sta già soffrendo per qualunque altra ragione?"

Alessandro Bono è morto a maggio 1994, pochi mesi dopo Sanremo. A neanche trent'anni. Era malato da tempo e, incurante di quanto consigliato dai dottori, ha voluto partecipare a Sanremo portando una canzone che parlava proprio di quanto fosse fugace la vita. Vista quell'esibizione a posteriori cambia tutto, diresti "Alessandro ha avuto un coraggio enorme" non la chiameresti più "esibizione scarsa" ma "era il meglio che potesse dare. Già tanto che sia riuscito a completarla."

Nessuno del pubblico sapeva le sue condizioni, ne siamo venuti a conoscenza solo dopo la sua morte. Lui NON voleva si sapesse e, probabilmente, aveva ragione lui. Siamo noi ascoltatori del 2000 che sbagliamo e reputiamo sia un diritto quello di conoscere vita, morte e miracoli di qualsiasi personaggio pubblico.

Covacich in quel passaggio del suo libro, ha colto perfettamente il punto della questione: essere persone "con tutta la vita davanti" e ridere di chi va in pubblico e sta palesemente in difficoltà, mette d'accordo anche una compagnia di sconosciuti e il gruppo inevitabilmente rafforza il dileggio fino a farlo diventare odio.

Mettici poi che nei social il "branco" diventa di migliaia, cosa dico milioni... E si può arrivare a distruggere una persona.

"Bacchettare quel ragazzo mi fa sentire bene". Quella frase ce l'ho incisa nel cervello perché il prof. Covacich ha messo nero su bianco una sensazione più diffusa di quanto si pensi.

Lei si chiede: "qual è il senso di queste critiche? Perché le facciamo? Che gusto e utilità ha demolire il lavoro altrui?"

Probabilmente la risposta è "bacchettare [PERSONA] mi fa sentire bene / mi fa sentire parte di un gruppo / mi fa sentire MIGLIORE". Rispetto a cosa, migliore? Rispetto alla mediocrità e la mancanza di attenzioni normalmente ricevute sicuramente. Ma più distruttiva è la critica, più chi la esercita sente di essere una voce "fuori dal coro" senza rendersi conto che invece ha lo stesso valore di chi, durante un momento di silenzio, si lascia andare a qualche sfogo di gas corporale dalla gola o più in basso...

Naturalmente per quanto mi riguarda vale anche per chi ama commentare in modo violento le notizie di cronaca nera.

Anche di fronte all'ennesima donna uccisa, io come donna non mi sentirei di contribuire positivamente alla società insultando il carnefice o scrivendo "però le donne dovrebbero qui dovrebbero lì".

Idem per i politici: posso prenderli in giro nel merito di ciò che fanno e dicono, sì, ma il miglior modo per prenderne le distanze è non votare quelli che non approvo. Dopo? Vanno al potere lo stesso? Io però almeno in coscienza ho fatto quello che era nelle mie possibilità. E se li critico cerco comunque prima di approfondire, perché su quei temi soprattutto i giornali e social ci sguazzano.

In ultima, i paladini dell'"anti-buonismo" "anti-politicamente-corretto": fanno i maleducati e quando glielo si fa notare, ti dicono "non si può più dire niente, il buonismo imperante, questo politically correct ha stancato"...

Avere una parola cattiva per ognuno, non è libertà. Perché per ogni parola cattiva che da abitudinario demolitore tu lanci a chi è diverso da te, prima o dopo ne ricevi il doppio anche tu e proprio perché pontifichi sulle difficoltà degli altri, finisci massacrato alla prima minima debolezza che hai pure tu.

Avrei un sacco altro da dire ma ho scritto anche troppo.

Arrivederci, Elena Brescacin

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