Sugli intellettuali che parlano in tv dell'Ucraina, sull'Ikigai, su Dio che sta a Bruxelles, su Dietro i suoi occhi di Netflix, ma anche su complottismi e fumetti
La guerra in Ucraina continua, col suo carico di morti, di distruzioni; per fortuna, nonostante le leggi liberticide in Russia, qualche voce fuori dal coro nel paese di Putin continua a farsi sentire, e ci dà speranza che l’opposizione al regime sia più forte di quello che può sembrare; e, d’altra parte, credo anche che le sanzioni comincino a pesare. Nella diretta di qualche giorno fa dicevo di sperare in una guerra terminata entro 3-4 settimane, per evitare il peggio in termini di vite umane e distruzione dell’Ucraina: qualche piccolo segnale di trattativa sembra aprirsi, ma non vorrei farmi illusioni troppo presto. Vedremo.
Nel frattempo qui a Rovigo è tempo di consigli di classe, organizzazione di uscite didattiche (pare che si possa ricominciare, in piccolo, in giornata) e sopravvivenza tra le mille faccende quotidiane.
Ma bando alle ciance: parliamo di filosofia, storia, libri e film, come al solito, ché magari vi interessano di più. Cominciamo!
Quello che ho letto
Questa settimana ho iniziato e finito un libro leggero, dal sapore orientale, che ha venduto moltissimo negli ultimi anni: Il metodo Ikigai. Ma c’è stato spazio anche per altre cose.
Non ce lo dicono di Errico Buonanno: ho ripreso con maggior lena, questa settimana, questo libro di cui vi avevo già parlato nelle settimane scorse. È un saggio molto divulgativo (e a tratti divertito) sui complottismi. Nella prima parte si fa in un certo senso la storia dei principali complotti emersi negli ultimi secoli, preferendo comunque un’impostazione narrativa a una storiografica; quasi subito, comunque, si passa a parlare della stretta attualità, coi complotti di QAnon e simili. Niente di trascendentale, ma è una lettura che scorre via piuttosto agevole e comunque di tanto in tanto c’è qualche spunto interessante. Sulle prime pareva peggio e invece lo sto rivalutando. Lo potete comprare qui.
Il metodo Ikigai di Héctor García e Francesc Miralles: me l’hanno consigliato qualche tempo fa, dicendomi che c’era anche qualche aspetto filosofico al suo interno, e così l’ho comprato e letto. O, meglio: mi avevano consigliato di approfondire il concetto di Ikigai, e io ho trovato questo libro (anche se sul mercato ce ne sono pure altri che affrontano lo stesso argomento). Che dire? Distinguerei il discorso in due parti. In primo luogo, quello dell’Ikigai è un concetto che può essere anche interessante; in realtà non è tanto un concetto filosofico quanto piuttosto uno stile di vita, una sorta di miscuglio di filosofie orientali e self-help (o almeno così viene presentato qui in Occidente). In ogni caso, questo strano mix può comunque presentare qualche spunto di riflessione. In secondo luogo, però, il libro in sé è davvero piuttosto superficiale: la questione dell’Ikigai viene citata più volte ma mai approfondita davvero; si passa di palo in frasca, riassumendo tutta una serie di dottrine (dal flow al concetto di antifragile) tratte da altri libri di guru del self-help, ma dando un’infarinatura piuttosto confusa e non particolarmente originale. Insomma, il libro sembra scritto in fretta, giusto per mettere insieme qualcosa, e forse l’Ikigai avrebbe meritato miglior sorte. Appena sufficiente, ma se volete provare lo trovate qui.
Capire, fare e reinventare il fumetto di Scott McCloud: questo classico del fumetto (o del meta-fumetto) sono abbastanza convinto di averlo già letto in gioventù, a dirla tutta. Non ricordo però quando, e il libro non era presente nella mia libreria: forse l’avevo preso in prestito in biblioteca? Non riesco a ricordarmi. Nel dubbio, me lo sono riprocurato e mi sono messo a rileggerlo. È un saggio sul fumetto fatto a fumetti, e già questo è un motivo d’interesse. Poi offre qualche spunto interessante di riflessione sul medium, pur senza diventare troppo accademico. Non l’ho finito, ve ne parlerò ancora. Intanto, se volete comprarlo…
Quello che ho visto
Un giallo classico, un film strano e con strani aspetti religiosi, una serie tv di Netflix che mi hanno consigliato ma per ora non mi ha molto convinto: ecco il panorama della settimana sul versante film e serie.
L’altro uomo (1951), di Alfred Hitchcock, con Farley Granger, Robert Walker, Ruth Roman: sono riuscito a convincere i miei figli più grandi a guardarlo tutti assieme («Uff, un altro film in bianco e nero?», ha commentato la secondogenita) e direi che ne è valsa la pena. Non lo vedevo da decenni, ma nonostante i settant’anni sul groppone mantiene ancora inalterata la sua carica di suspense. La storia è quella di due estranei che si conoscono su un treno: uno dei due propone all’altro il delitto perfetto, cioè di uccidere ciascuno la possibile vittima dell’altro. Ne nascono fraintendimenti e problemi vari. Nel cast c’è anche la figlia di Hitchcock, nella parte della sorella meno carina ma simpatica della protagonista. Capolavoro.
Dio esiste e vive a Bruxelles (2015), di Jaco Van Dormael, con Benoît Poelvoorde, Catherine Deneuve, Pili Groyne: film curioso, grottesco, forse non completamente riuscito, visto che parte benissimo e però poi ad un certo punto sembra un po’ perdersi, ma comunque molto interessante. La storia è strana: la protagonista è la figlia di Dio, una ragazzina che decide di ribellarsi al padre. Solo che Dio non è quello che ci aspetteremmo: nel film ci viene presentato come un uomo mediocre, che ha creato il mondo sostanzialmente tramite un computer e si diverte a vedere le disgrazie degli umani, come se fosse un passatempo. La figlia lo odia e proprio per questo decide di scappare di casa e scendere sulla Terra a cambiare le cose. Il primo atto rivoluzionario è quello di comunicare a tutti gli esseri umani, tramite SMS, la loro data di morte. Memento mori, avrebbero detto i latini; essere-per-la-morte, avrebbe detto Heidegger. L’effetto è un po’ comico e un po’ filosofico. Ripeto: non perfetto, ma merita una visione. Lo trovate su Amazon Prime Video.
Dietro i suoi occhi, episodio 1 (2021), di Steve Lightfoot, con Simona Brown, Eve Hewson, Tom Bateman: me l’hanno consigliata a scuola, non ho ancora capito perché, visto che di storico e/o di filosofico mi pare non esserci nulla, almeno nell’episodio pilota. Episodio che per la verità non mi ha lasciato molto: pare la solita storia di un triangolo amoroso, finora piuttosto prevedibile. Quando poi ho aperto Wikipedia per tirarmi giù i dati sugli attori, ho trovato questa recensione presa dal Guardian: «Chi poteva sapere che il sesso a tre potesse essere così noioso?», e mi son detto che forse non vale la pena di guardare gli episodi successivi.
Quello che ho pensato
Eccoci arrivati, di nuovo, alla parte delle riflessioni. Per una volta vorrei lasciare momentaneamente da parte il nocciolo della vicenda della guerra in Ucraina, sulla quale è già stato detto tutto e il contrario di tutto, e mi vorrei invece focalizzare su un aspetto collaterale della vicenda.
Avrete forse seguito, infatti, le varie polemiche che sono sorte riguardo ai commenti di alcuni storici, filosofi e intellettuali sulla guerra. Solo per fare alcuni nomi veloci, in questi giorni sui giornali sono finiti Luciano Canfora, Donatella Di Cesare, Alessandro Orsini, Carlo Rovelli e altri, attaccati per le loro opinioni apparentemente filo-putiniane o comunque iper-pacifiste.
Ora, una premessa: non guardo mai, da parecchi anni, i programmi di approfondimento televisivo, perché anche nel migliore dei casi si tratta spesso di approfondimenti per modo di dire; penso, anzi, che la loro stessa struttura favorisca solo lo scontro di tesi contrapposte e finisca, volontariamente o meno, per alimentare polemiche molto sterili, senza chiarire alcunché. Pertanto non ho visto tutti gli interventi di cui si parla sui giornali: ho recuperato qualcosa di Orsini, un paio di cose della Di Cesare e poco altro.
Il punto, però, non è quello che hanno detto o non detto. Non è neppure se siano amici di Putin o se siano stati attaccati ingiustamente, né se sia lecito essere amici di Putin oggi con questa guerra in corso. Tutte questioni importanti, ma al momento vorrei concentrarmi su altro.
Il tema è: come mai da qualche mese a questa parte degli intellettuali più o meno insospettabili finiscono per essere tacciati dal grande pubblico di aver detto cose deliranti? Perché l’accusa mi pare sia grossomodo questa: che Orsini, Rovelli, Di Cesare eccetera – e prima di loro, quando il grande tema era il green pass, Cacciari e altri –, siano ammattiti e dicano cose fuori dal mondo.
Io una tesi, al riguardo, ce l’ho. Non so quanto sia vera: andrà messa alla prova dei fatti, perché è più che altro un’impressione e non spiega tutti i fenomeni. Si adatta solo ad alcuni interventi, non a tutti. Però vorrei condividerla, perché magari coglie qualche parte di verità.
Mettiamo innanzitutto da parte alcuni casi particolari: non voglio parlare di Agamben, Mattei o Freccero, che sono oltre i limiti; o di gente tipo Fusaro, che è addirittura oltre i limiti della logica da decenni. Rimaniamo cioè su persone che dicono, in genere, cose sensate e che solo dopo apparizioni nei salotti televisivi finiscono per essere bersagliate da critiche.
Ebbene, secondo me il problema è che buona parte degli intellettuali italiani non ha capito la tv e la tv non ha capito gli intellettuali italiani. I primi non hanno compreso – e continuano a non comprendere – a chi parlano e come il medium tende a veicolare le loro parole; i secondi, non comprendono gli scherzi e i vicoli ciechi della comunicazione accademica.
Detta in altri termini: gli accademici vanno in tv e parlano come se fossero di fronte a un uditorio di altri accademici (o al massimo di studenti), a persone, cioè, che pensano sappiano decifrare la loro impostazione; e invece hanno davanti a loro persone che non capiscono le sottigliezze, i distinguo, le provocazioni intellettuali. Ne nasce un gran casino.
Faccio un esempio, per capirci meglio. Prendiamo Orsini, studioso della LUISS che nelle ultime settimane si è distinto perché è sembrato attaccare la NATO e, parzialmente, assolvere Putin. O almeno questo era quello che emergeva dai giornali, il giorno dopo il suo intervento a una trasmissione di La7. Sono andato a riascoltarmi quel suo discorso e ho riso tra me e me, pensando: «Mamma mia, che ingenuo».
Mi spiego. Orsini in effetti nel suo intervento ha affermato che la NATO ha delle responsabilità in quello che è avvenuto. Se però si ascolta bene l’intervento, si capisce che Orsini non sta cercando di assolvere Putin, a cui attribuisce la responsabilità dei crimini che sta perpetrando; piuttosto, tenta di fare una valutazione di geopolitica. Per la verità a mio avviso neppure troppo convincente – qualche appunto glielo si potrebbe muovere – ma di geopolitica. Non parla di morale, non parla di chi sia buono e chi cattivo, di chi abbia ragione e chi torto: esprime valutazioni di opportunità politica. Certo, cerca di semplificare il suo linguaggio per la tv, ma l’impostazione del suo discorso è quella di un accademico, che dà per scontato che chi lo ascolta non abbia bisogno di sentirsi dire cose scontate (tipo “Putin ha invaso ingiustamente” o “Facciamo il tifo per gli ucraini”).
Non ho visto tutti gli interventi della Di Cesare, ne ho visto solo uno, ma anche lei quando dice “Putin non è un pazzo” incappa nello stesso errore. Un errore di valutazione dell’uditorio: non si rende conto che la sua frase può essere interpretata in modo diverso da come lei, credo, la volesse intendere. Quando la Di Cesare dice che Putin non è pazzo, intende dire che dovremmo sforzarci di capire le sue motivazioni; non per giustificarle, ma per intervenire. Anche nello studio di Hitler è sbagliato pensare che fosse pazzo; piuttosto, da storici, dobbiamo chiederci: cosa lo muoveva? Che strategia aveva in mente? E come mai il popolo tedesco gli andò dietro?
Affermare che Putin è pazzo non ci aiuta a capire come mai sta avvenendo quello che sta avvenendo. Uno studioso deve cercare di capire, perché capendo si sa come intervenire (per evitare che si ripeta di nuovo, per correggere la situazione con misure mirate ecc.). Ma se vai in tv a dire che Putin non è pazzo, l’uditorio non ti capirà e penserà semplicemente che apprezzi “lo zar”.
Ricordate la scuola di Francoforte? Cioè quell'insieme di filosofi, da Horkheimer a Marcuse, che scapparono dalla Germania nazista per riparare negli Stati Uniti? Uno dei punti chiave della loro filosofia, declinata in modi variegati, era che la tecnologia e lo stile di vita borghese tipico degli Stati Uniti fossero “totalitari”.
Se oggi questi personaggi andassero in tv a dire quello che dicevano negli anni '50 non verrebbero capiti (né loro riuscirebbero a farsi capire). Per la verità già negli anni ‘60 iniziarono i fraintendimenti tra Adorno e i giovani del movimento studentesco. Ovvero: il discorso sui totalitarismi dei mezzi di comunicazione era un discorso accademico, da non prendere eccessivamente alla lettera. Non intendevano dire che il sistema mediatico americano fosse tragico e violento quanto la Germania hitleriana o la Russia staliniana (altrimenti sarebbero scappati pure dall'America, ovviamente), quanto piuttosto che il sistema mediatico aveva delle vaghe tendenze che ricordavano alcuni aspetti del totalitarismo.
Le loro erano insomma parole un po' forti, che però erano sicuri che il pubblico di accademici a cui si rivolgevano sarebbe stato in grado di contestualizzare e capire. Nessuno avrebbe detto che intendevano accusare Eisenhower di essere il nuovo Hitler o la CBS di essere il nuovo Goebbels. Perché quelli che li leggevano sapevano che peso dare a quelle parole, come inquadrarle. Fossero andati in tv a dire le stesse cose, però, forse li avrebbero presi per scemi.
In sintesi: il problema non è solo quello che si dice, ma quando e dove lo si dice. Andare di fioretto, in tv, non è possibile; anzi, forse è stupido. Perché chi ti ascolta non vuole il fioretto ma la clava; e pensa che tu stia usando la clava anche quando tu credi di usare il fioretto. L’esempio più lampante di questa tendenza è stato Cacciari durante le polemiche sul green pass: lui voleva semplicemente fare dei distinguo e l’hanno etichettato come un leader dei no-vax. Così, quando è andato a vaccinarsi, la metà dei suoi seguaci non l’ha capito: «Ma come? Non eri contro i vaccini?» In realtà no, non era contro i vaccini e non lo era mai stato: gli premeva fare dei distinguo che il resto del mondo avrebbe giudicato secondari, ma che per un accademico sono importanti; ma il vaccino era sacrosanto. Ecco: era andato in tv per una questione “da studioso”, per mettere i puntini sulle “i”, per usare appunto il fioretto; e si era ritrovato, senza capirlo, con in mano la clava. Accade spesso, mi pare.
Quello che ho registrato e pubblicato
Come al solito, non dimentichiamo i video e i podcast.
La Guerra Fredda in Asia (1949-53): continua il nostro percorso di approfondimento sul conflitto di nervi tra USA e URSS parlando di rivoluzione cinese e Guerra di Corea
Husserl: verso la fenomenologia: primo video introduttivo su Edmund Husserl a cui ne seguiranno presto anche altri
Pirrone e lo scetticismo: di questa scuola ellenistica non avevamo ancora parlato, ma vale la pena di recuperarla nei suoi tratti essenziali
Come muoiono i filosofi (romantici): continua anche la panoramica delle morti eccellenti dei filosofi, con alcune dipartite davvero curiose (Goethe, Hegel, Fichte, Bentham e altri ancora)
Lo Statuto Albertino: com’era scritto, lo Statuto Albertino, che ha retto le sorti del Regno Sabaudo e dell’Italia dal 1848 al 1947?
Plotino e l’Uno (per il podcast “Dentro alla filosofia”)
L’Italia spagnola e la rivolta di Masaniello (per il podcast “Dentro alla storia”)
Cosa c’è in arrivo
Infine, cosa arriverà durante la settimana appena cominciata? Domanda a cui è difficile rispondere: ho varie idee in testa ma non so se riuscirò a tener fede a tutte. Comunque diamo come al solito qualche ipotesi:
coi podcast proseguiremo rispettivamente con Plotino e Luigi XIV;
in storia romana ci aspetta il video su Marco Aurelio, già quasi pronto;
vorrei continuare con le serie sulla Guerra Fredda e su Come muoiono i filosofi;
se riesco, metterò anche un secondo video su Husserl.
Ecco, questo è quanto. Ci si rivede qui lunedì prossimo.
Il problema credo sia l’incapacità di molti di comprendere i discorsi complessi. Premetto che non ho seguito queste discussioni ma ho notato nel corso degli ultimi anni un generale impoverimento del linguaggio, ma anche la tendenza a dover ridurre tutto ai minimi termini, un’estrema semplificazione che porta talvolta a banalizzare i fatti. Questo fenomeno purtroppo è visibile non solo alla tv con questi programmi il cui scopo è solo nutrire il bisogno continuo di avere notizie ma anche sui social. L’effetto Dunning Kruger ormai regna sovrano e pensare che per avere contezza delle cose occorre nutrirsi di complessità. Personalmente trovo deprimente tutto questo. Sarebbe interessante approfondire il tema della complessità e della ricerca delle fonti, penso possa essere un argomento interessante anche per giovani studenti che si affacciano a questo mondo che è sempre più complesso.
Buongiorno, è vero che spesso noi vogliamo sentirci dire cose che confermino il nostro pensiero e che alimentino la nostra tifoseria o che comunque dicano con chiarezza "questo è buono, quello è cattivo" (seguo da qualche anno Dario Fabbri e mai, come invece fa adesso da quando è tutte le sere in TV, l'avevo sentito premettere: Naturalmente è terribile che ci siano i morti, e cose di questo genere: le dava per scontate e procedeva col suo discorso), però alcune analisi, vedi quella di Luciano Canfora, che è piena di cose false, e quelle di Donatella Di Cesare (Zelensky è responsabile di tutti i profughi ucraini e ha la colpa di non essere stato democratico in questi anni), secondo me sono inascoltabili non per la troppa "accademicità", ma proprio perché sono fuori da ogni ragionamento accettabile.
Grazie
Paola M.N. Delogu